venerdì 25 agosto 2017

NAKUMATT DI MALINDI: LA RIVOLTA DEI PRODOTTI


Le prime a lamentarsi furono le cipolline.

Non era una novità che fossero loro ad alzare quella vocina stridula e petulante.
Passare buona parte della propria esistenza nell’aceto, non aiuta per niente.
Già essere nata cipolla non è proprio il massimo: indigesta, odorosa e volgarotta. 
Almeno venire al mondo a Tropea, rubizza e carnosa… invece no: nordica, nana, pallida, nuda e senza la sottile vendetta di poter far bruciare gli occhi a chi abusa di te.
Povere cipolline, vivere in venticinque in un monolocale sottovuoto, conoscere in anticipo la data della propria scadenza, essere scaraventate via nave dalle colline dell’astigiano direttamente nell’Africa equatoriale.
Come zitelle acide, le signorine Saclà di Malindi iniziarono a guardarsi intorno.
Un tempo il bancale in cui abitavano era florido e provvisto d’ogni forma di connazionali. 
Sullo stesso pianerottolo vivevano le tumultuose giardiniere, gruppi di verdure ed ortaggi di etnie differenti asserragliati insieme come nelle prigioni francesi. 
A fianco c’erano i pomodori secchi, rilassati meridionali che avevano trovato la pace nell’olio di semi di girasole e si godevano la pensione in quel paradiso esotico. 
Anche se visto da lì, più che ai tropici sembrava di stare in Brianza. 
Al piano superiore, nell’attico, i carciofini snob dall’altissimo prezzo e mai più di cinque o sei per vasetto. 
Ogni giorno o quasi, arrivava un inquilino nuovo nel grande reparto: diffidenti olive nere dalla Liguria, spregiudicate acciughe siciliane, misteriosi capperi altoatesini. 
Per non parlare della vagonata di stranieri: tonni e sgombri portoghesi, melanzane elleniche, cetriolini iberici, mais francese e pisellini israeliani (non circoncisi).  
Era tutto un andirivieni in quel residence malindino, un offrirsi scalpitando per essere in prima fila, come ballerine di varietà, sognando di finire nella villa con piscina di un miliardario o nel resort con la SPA in riva all’Oceano Indiano. 
Per poi magari trovarsi sul tavolo in fòrmica di una baracchetta a schiera di Majengo o in un micro cottage di Mambrui, davanti a una bambolona colorata che ti guarda come fossi un alieno.
Però era divertente, rilassante. Oltre che fresco per l’aria condizionata. 
Si stava insieme e si incontrava un sacco di gente che parlava inglese, italiano e tanti dialetti strani.
Anche dagli altri reparti arrivavano buone notizie: in quello delle colazioni, ad esempio, i biscotti locali che erano in maggioranza, imparavano tante cose dai Mulini Bianchi sugli scaffali e piano piano miglioravano la loro qualità. 
Le caramelle si godevano bagni di popolarità e si beavano del loro ruolo sociale, salutando sempre tutti e proclamando fiere: “oggi andiamo a fare volontariato dai bambini sulla strada per lo Tsavo”.
Se la passavano bene le farine nel quartiere tutto keniota, anche i caffè in quello estafricano e le bibite analcoliche nella casbah islamica. 
Mentre vini e liquori, nel ghetto degli alcolizzati sudafricani, sudamericani con qualche italiano, francese e scozzese, si raccontavano barzellette a non finire e sparlavano di tutti.
“Hai visto, hanno arrestato il proprietario di quel bar là fuori” diceva Johnnie Walker a un amico.
“Gran lavoratore, mi spiace” faceva eco il Campari.
“Non è una grossa perdita…gli piaceva solo la Red Bull” sentenziava la Tusker Malt.
Nella grande metropoli del Nakumatt di Malindi, nonostante l’inevitabile condizione di precari, di reclusi e di schiavi del commercio, fino  qualche mese fa, si stava alla grande. 
Alla fine niente di così diverso da come si sono organizzati gli esseri umani ai nostri tempi.
Ultimamente però, era calato un velo di tristezza sul centro commerciale.
Il traffico tra i viali e le corsie dei vari reparti era considerevolmente diminuito. 
Alcune zone industriali, come quella del panificio, erano state demolite ed erano sorte grandi piazze che ricordavano il senso di vuoto di Ground Zero. 
Anche i visitatori, turisti o residenti, lo confermavano tra di loro.
“Salumi?”
“Zero”
“Spaghetti?”
“Zero”
“Marmellate?”
“Zero!”
Dal clima fresco e piacevole di un tempo, si era passati ad un’afa soffocante che scioglieva i gelati, sbriciolava i crackers, spappolava i borlotti.
Piano piano i reparti si svuotavano e un’ombra di cattivi presagi avvolgeva in maniera inquietante la metropoli Nakumatt.
Da tempo non si vedeva arrivare nessun nuovo ospite nel condominio, e i pochi prodotti rimasti sembravano avanzare come attratti da una calamita invisibile, al passaggio degli sparuti possibili acquirenti.
“Prendi me, scegli me…portami via di qui ti prego!”
Si iniziava a raccontare di succhi di frutta amareggiati, yogurt passati a miglior vita, prodotti biologici dispersi in angoli bui e riempiti di botte da agenti segreti della Nestlé. 
“Tutto avremmo pensato, ma non di scadere tra queste quattro mura, e per giunta da sole” frignavano le cipolline, guardandosi intorno.
“Revolution o  muerte!” urlarono gli animosi peperoncini Jalapeno.
“E vabbé, che ci vogliamo fare, inutile agitarsi” replicarono le smidollate olive verdi denocciolate.
“Le cipolline, stranamente, hanno ragione” disse la salsa all’aglio.
“Svegliatevi! Bisogna fare qualcosa!” Sentenziò il caffè solubile. 
“Usiamo il cervello, ma con eleganza” consigliò lo zucchero bianco raffinato.
“Sì però prima sballiamoci un po’, dai!” propose quello di canna, al suo fianco.  
"Se non ci si unisce, non si combinerà mai niente di buono" berciarono all'unisono uova, farina e burro.
Attesero che, come ogni giorno, calassero le luci della sera. 
Ascoltarono per l’ennesima volta i discorsi di Katana, Dorothy e Josephat mentre facevano finta di pulire per bene.
“Anche questo mese chissà se prenderemo lo stipendio”
“Mi sa che a settembre chiuderanno e resteremo senza lavoro”
“Per fortuna che io ho quel vecchietto mzungu che mi aiuta…”
 Alle dieci e mezza convocarono una riunione.
Con il detersivo per pavimenti come messaggero, si era sparsa la voce in tutta la metropoli e per la prima volta parteciparono tutti.
C’erano le effervescenti bibite islamiche, i refrattari cibi vegani buddisti, i pudding protestanti.
Si erano mossi con tutte le attenzioni del caso anche bicchieri e stoviglie.
Non erano rimasti in molti, e forse proprio per questo, si sentivano tutti fratelli.
La voce di tutti arrivò anche al piano superiore, dove i tre grossi freezer a pozzetto rimasti caricarono cinque stereo chiassosi, tre televisori fissati con il football, qualche microonde surriscaldato e un frullatore incazzato e si lanciarono per la rampa.
Non era ancora arrivata la mezzanotte, che già avevano deliberato all’unanimità ed iniziavano ad organizzarsi.
Le poche verdure rimaste si divisero in due squadre: le “buone crude” e le “meglio cotte”.
Le prime si mescolarono e si misero in ghingheri, chiamando le insalatiere per farsi portare al bancone ormai vuoto della gastronomia. 
Le altre iniziarono a guardarsi intorno, cercando i partner migliori per collaborare.
L’acqua minerale si riversò nelle pentole non troppo grandi che si infilarono nei microonde. 
Quando l’acqua arrivò a bollitura, il riso carnaroli ci si tuffò dentro come in una piscina di cure termali e si lasciò cuocere.
All’uscita da quella sauna, i ventilatori prontamente asciugarono i chicchi e i limoni si spruzzarono sopra per mantenerli sodi.
Poi arrivarono l’olio extravergine non più illibato, i cetriolini barzotti, i wurstel ancora più mosci, il cheddar cheese più giallo che mai, il prosciutto stracotto e il tonno al naturale snaturato. 
Tutti insieme appassionatamente in insalata e a dormire nel frigorifero, per essere pronti e pimpanti per il mattino dopo.
Con la stessa tecnica, la carne tritata si era messa d’accordo con la pasta per lasagne Barilla, mentre farina latte e burro se la spassavano in un’orgia di besciamella, prima di finire in una teglia.
Anche l’ultima mozzarella da pizza aveva convinto i pelati e le melanzane rimaste ad unirsi per una parmigiana indimenticabile, così come le altre farine con le uova e l’aiuto di verdure e latticini avevano creato ravioli di magro, tortellini, panzerotti, maltagliati ed ogni ben di dio di pasta fresca.
Un vecchio forno elettrico in pensione, in cambio di un paio di sigari buoni recuperati chissaddove, si rimise a funzionare e prese a sfornare pane e dolci, con l’aiuto degli eccitanti lieviti. 
Come sempre quelli istantanei vennero presi in giro, ma alla fine un giretto non glielo negava nessuno.
I pochi prodotti surgelati si erano già riscaldati in serata, e verso la mezzanotte anche l’olio di semi sfrigolava nelle due friggitrici invendute. 
Samosa d’ogni tipo, bastoncini di pesce, cotolette di pollo ed altre stuzzicherie uscivano rigenerate da quegli olii benefici e venivano asciugate con cura dai panni assorbenti e dai tovaglioli di carta, mentre i prodotti per la casa facevano a gara a ripulire tutto.
Gli altri frigoriferi svuotati, intanto, si riversavano tutti in un angolo al piano superiore, dove sarebbero poi tornati tutti gli elettrodomestici, a parte gli stereo e le televisioni. 
Nello spazio generato dalla mancanza di frigoriferi e dall’unione degli scaffali rimasti vuoti, furono invitati i tavolini pieghevoli di plastica e le sedie. Le tovaglie e le posate si aiutarono tra loro ad apparecchiare e anche per bicchieri e bottiglie fu festa grande. 
Era quasi l’alba quando i vetusti vini cileni chiesero ai cavatappi di liberarli e la frutta avviata verso la maturazione si fece delicatamente sbucciare dai coltelli. Coinvolsero la vodka, il martini e un sacchetto di chiodi di garofano che languiva solitario in uno scaffale in mezzo a spezie indiane sconosciute e più volte aveva pensato al suicidio annegando nella chili sauce.
La più buona ed inebriante sangria di Malindi era pronta!
Alle cinque del mattino arrivarono le brioche dal vecchio pensionato, i microonde e le acque prepararono tè e caffè e li misero nei thermos, biscotti e dolciumi fibrillavano. 
Per la colazione non mancava proprio nulla, ma anche per il pranzo c’erano opzioni a non finire.
Il reparto cartoleria, tra penne pennarelli, cartoncini colorati e fogli, aveva già redatto i menù e i cartelli delle offerte speciali. Le lampadine colorate e quelle calde si erano posizionate nei luoghi più adatti a creare atmosfera. 
Nel frattempo tutti gli altri inquilini non alimentari (vestiti, giocattoli, utensili, detersivi, prodotti di bellezza) si erano posizionati nelle zone a ridosso della sala banchetti, componendo un arredamento insolito ma a suo modo accattivante. 
Le saponette, ad esempio, si erano prese una parete e con l’aiuto dei nastri adesivi avevano composto un enorme quadro a mosaico che raffigurava il golfo di Malindi con il mare e un veliero sullo sfondo. 
Dalla sinergia di creme, saponi liquidi ed ogni altro tipo di flacone e tubetto, era scaturito un postmoderno Vasco Da Gama pillar di due metri e mezzo.
Con le prime luci dell’alba, entrarono in gioco i cellulari e gli smartphone del reparto telefonia.
Iniziarono ad inviare sms e video su watsapp del grande evento che si sarebbe tenuto in mattinata.
“Al nuovo bar ristorante Nakumatt autogestito dai prodotti, colazione a Kshs. 100 e pranzo a buffet a kshs. 500 bevande comprese!”.
Nel video apparivano, come prodotti da una società d’animazione di Hollywood, tutti gli alimenti che ballavano all’interno del centro commerciale, al suono della musica degli stereo e con coreografie degne di Broadway. Quella musica, con le televisioni che trasmettevano le danze gioiose di peperoni e biscotti, le evoluzioni gagliarde di noccioline e sedani, l’acqua gym dei succhi di frutta e le movenze sensuali di papaye e indumenti intimi, sarebbe stata la colonna sonora del locale.
Fu così che già un’ora prima dell’apertura dei negozi, nel parcheggio e sulla Lamu Road si era formata una coda di avventori  e curiosi che andava aumentando di minuto in minuto.
Il direttore della sede malindina sulle prime fu tentato di ritardare l’apertura e chiedere ai dipendenti di rimettere tutto a posto. 
Poi anche il suo samsung emise un suono e gli apparve quel video incredibile e lesse il messaggio.
“Cosa facciamo?” chiese a cassiere e inservienti.
“Apriamo! Non hai visto quanta gente là fuori?”
“Devo avvertire Nairobi, però…”
La batteria del suo telefonino si scaricò all’istante.
“Direttore, pensiamo a servire le colazioni e a prepararci per il pranzo…che almeno i nostri stipendi a fine mese saranno assicurati!”.
Il successo dell’operazione era scontato. I tavoli erano tutti pieni e la gente attendeva di potersi sedere e intanto chiacchierava e si meravigliava divertendosi.
Erano già le dieci e dall’altra parte della cittadina, un grosso signore bianco si svegliò e pensò che quel che aveva  appena sognato aveva un senso, una morale.
Non solo quella banale e ormai dimenticata che mettendosi tutti insieme si può superare qualsiasi avversità, ma anche quella che oggi è più facile che l’essere umano impari qualcosa da una cipollina sott’aceto, piuttosto che da un proprio simile. 

lunedì 11 gennaio 2016

IL MIO PRIMO UNIVERSO


Oggi sono arrivato a credere che non solo non ci sia alcuna forma vita su Marte, ma che non ce ne sia nemmeno dopo la morte.
Da ragazzo non la pensavo così, avrei voluto esplorare le vite altrui come fossero altri pianeti, piantare la bandiera della conoscenza profonda, dell'intimità, di meraviglia, paura ed altre emozioni nobili o meschine da condividere.
Ero ancora alle medie quando ascoltai per la prima volta Bowie.
Cantava "Life on mars", un brano di una dolcezza sorprendente, che sembrava volerti scavare in profondità, pur regalandoti i bagliori colorati delle luci di un luna park. Quella canzone ti abbracciava di melodie e ti lasciava brillantini argentati sulla faccia. Non era cazzuta come il rock che ascoltavo, ma c'era qualcosa di particolarmente attraente.
Mi accorsi ben presto che era lui, la cosa attraente. Bowie era le luci del luna park, era i brillantini argentati.
Ogni canzone di "Hunky Dory" era un pianeta, o almeno un satellite di una galassia che assomigliava a un musical. Stelle, stelle dappertutto, arte che si faceva sogno, o viceversa.
Bowie era un mimo, un saltimbanco, un arlecchino, un pierrot. Era un ballerino alla Lindsay Kemp, un attore alla Keith Carradine.
Sapeva cantare come un adolescente e nei ritornelli diventava un licantropo. Era sensuale e ributtante, candido e provocante, uomo e donna, serpente e mela. Era arte visuale pura, partendo dalla musica, dalla canzone.
Alcune amichette si dipingevano i capelli di arancione, sognavano di andare a Berlino e incontrarlo in una vecchia fabbrica dismessa. Aspettai i 14 anni di una di loro per andare al cinema a vedere "Cristiana F.".
Mi chiedevo se fosse possibile amare allo stesso tempo il punk, il rock and roll, Fabrizio De André e quell'istrione che faceva impazzire le ragazzine problematiche di cui mi innamoravo.
Grazie a David Bowie ho capito molto presto che non ci sono generi, etichette, filosofie, bandiere.
Non c'è politica, ideologia, pregiudizio che possa fermare l'onda emozionale della musica. Ci sono gli Artisti Totali e tanti bravi mestieranti che riescono a trasmettere qualcosa.
Bowie apparteneva alla prima categoria, e mi ha insegnato che se non c'è vita su Marte e nemmeno dopo la morte, sicuramente c'è un universo di avventure, di emozioni e di curiosità dentro di noi che non bisogna mai smettere di esplorare.

domenica 20 dicembre 2015

ROMA-GENOA 2-0 Il commento del Beccioni "FUCK OFF"


Fuck off.
Così si è rivolto, a un quarto d’ora dalla fine della partita, il centravanti romanista Edin Dzeko, uno dei presunti ammutinati della banda Garcia, all’arbitro Gervasoni, reo di non avergli concesso un rigore.
Fuck off.
E’ quello che, fischiando sonoramente, i pochi e silenti tifosi giallorossi presenti oggi all’Olimpico intendevano, quando hanno assistito all’abbraccio tra Florenzi e il mister francese dopo il primo gol.
Fuck off.
E’ quello che dovrebbero dire a fine partita i soliti indefessi tifosi del Grifone che hanno assiepato il settore a loro destinato, facendo rimbombare di cori e “forza Genoa” la scatola vuota capitolina a chi ha condotto fin qui il Vecchio Balordo, evirandone la grinta e la tensione emotiva, privandolo di valori e dignità e riducendo le prestazioni, specie quelle fuori casa, a un onorare la firma su contratti precari e sperare in qualche colpo di fortuna.
Fuck off, con tutto il cuore, a dirigenza e allenatore.

Cartoline dalla bella Roma del Giubileo, dove bisognava davvero mettercela tutta per essere giubilati.
Fotogrammi natalizi, buoni per incartare il torrone:
Sesto minuto: Diego Capel, prestito secco, lento e motivato come un ghepardo allo zoo di Montreal, s’invola sulla fascia. Ha alcuni minuti di vantaggio sul diretto concorrente, ma frana su se stesso.
Trentacinquesimo minuto: Munoz sta per calciare una punizione dalla sua tre quarti campo. Studia il piazzamento dei compagni, quello degli avversari, quello dell’arbitro e dei raccattapalle. Chiama due schemi, un piano d’azione, un progetto a medio termine, un paio di diversivi. Poi calcia alla Castrogiovanni una scarpata a fondocampo.
Quarantaduesimo minuto: Questa volta il buon Munoz decide di seguire l’istinto. Assist svirgolato a campanile per Florenzi. A volte può funzionare, che un venticinquenne venga scartato da due squadre da mezza classifica in serie A per due anni consecutivi, tu lo prendi a costo zero e lo rilanci, facendo felice lui, la mamma, il procuratore e colui a cui l’hai promesso a un prezzo più o meno prefissato. A volte può funzionare,  molte altre volte…Fuck off.
Settantesimo minuto circa: Entra il bolso Pandev.
Settantacinquesimo: Dzeko ci prova e sfodera il leit motiv del pomeriggio.
Settantasettesimo minuto: Lazovic si invola sulla fascia come e meglio di Capel. Non cade. Si ferma, guardando il pallone rotolare più felice di lui oltre il fallo laterale. Nessuno li stava inseguendo.
Ottantasettesimo: Finalmente il Grifone targato Mago G. si scrolla di dosso la pesante etichetta di “resuscita morti” e opta per quella di “battezza neonati”, mandando in gol il ragazzino nigeriano Sadiq Umar.
Novantacinquesimo minuto: Esce il bolso Pandev.
Un allenatore offeso tira fuori le palle, se ne ha.
Ti sorprende con una formazione che va al di là della solita disposizione in campo da subbuteo, 10-1 in assetto variabile (si parte con un 4-5-1 papadopulo, poi si passa a un 451 iachino per finire con un 3-3-fatevoi), trasmette la sua grinta per attaccare una squadra in crisi che mostra lacune e imprecisioni da oratorio.
Un allenatore serio dopo dieci minuti vede i punti deboli dell’avversario e fa aggredire gli spazi, gioca basso ma corto e riparte veloce. Il Grifone di quest’anno arriva invece nella trequarti avversaria e si blocca come colto da sensi di colpa: “non vi vorremmo fare male, scusate se siamo arrivati fino a qui”. Iniziano fraseggi che ricordano il Camerun del 1982, ma quella squadra correva e correva, e aveva un tono fisico e muscolare che Ntcham in confronto è un gracile vecchietto.
Invece via con un primo tempo in stile Meazza: rinunciatario con nonchalance, impreciso con charme, disorganizzato chic, pallemolli doubleface.
Laxalt ha già dimostrato quel che aveva da dimostrare (all’Inter), Izzo corre, fa l’ala il centrocampista e finisce trequartista alla Morfeo, abbassandosi con un trucco napoletano pure il baricentro.
Capel ha spunti da buon giocatore, ma ogni volta che viene chiamato in causa ha nuove facce da conoscere e con cui duettare e per un ala o trequartista avere un riferimento offensivo come Gakpé è davvero deprimente.
Rincon è l’ultimo a mollare ma (se con un colpo di teatro non lo vendono a gennaio) prima o poi tirerà anche lui i remi in barca pensando che ha proprio un karma di merda. Capitano dei vinotinto venezuelani, ha visto la sua nazionale precipitare, travolta da disorganizzazione, malgestione e corruzione, e adesso assiste al manicomio rossoblu.
Tra poveri cristi da B francese come Gakpé e Cissokho che non hanno colpa, non ambientati come Lazovic e Capel, rassegnati a un anno di purgatorio come Ansaldi, è dura pensare chi potrebbe rimettere in piedi la baracca. Non certo Suso.
Il Genoa di Roma è stato troppo brutto per essere finto e troppo simile agli altri per darci motivi di speranza.
La situazione di quest’anno è il frutto dei soliti esperimenti economici di laboratorio, tra diritti di riscatto impossibili, prestiti demotivati in partenza, regali mezzi rotti, scadenze di contratto scadute come mozzarelle e le solite promesse che si sono rotte i coglioni di dover rimanere tali, e preferiscono diventare dei magnifici tradimenti.
Dzeko e Pjanic sicuramente hanno tirato tanti di quei Fuck Off all’indirizzo dell’unica squadra che non avrebbe dovuto giocare contro di loro oggi, e Garcia avrà ringraziato il cielo a stelle e strisce.
Grazie all’insulsaggine di una formazione alla deriva totale, la sua panchina dovrebbe passare le feste.
Noi invece archiviamo quest’anno di grandi soddisfazioni (una combattutissima Europa League dove siamo ancora in corsa, una Coppa Italia con strada spianata verso la semifinale in casa) con la sensazione di non avere più santi a cui attaccarci e, passate le feste, nemmeno la forza di gabbarli.
Sappiamo bene come inizierà l’anno nuovo e ci vorrà davvero tutto il nostro amore, per trasmettere a quest’accolita di mestieranti senza direttive, la grinta e la passione che chi per primo dovrebbe dispensare non ha, per aridità di cuore, limiti umani e bieca ingordigia.
Pensierino di Natale:
Tanti auguri Genoa, mai come ora ne hai bisogno.
Auguri anche a chi ti vuole bene e ti seguirà ovunque e comunque.
A chi c’era prima e durante le intemperie, ci sarà dopo ed è riuscito sempre a vedere i raggi del sole, sognando la stella.
Fuck off di cuore a chi non ha la dignità di farsi una buona volta da parte.   

domenica 6 dicembre 2015

INTER-GENOA 1-0 Il commento del Beccioni: "SCONFITTE D'ALTRI TEMPI"


Sconfitte d’altri tempi.
Quando già lo sapevamo che sbarcare sui Navigli e respirare i primi accenni di nebbia voleva dire partite spigolose e rigide come la temperatura lontano dal mare ed emozioni meno che all’interno dei tendoni dei circhi che sostavano nei prati bianchi e caliginosi ai bordi della vigevanese. Calcio d’altri tempi che l’anarchia del vivere senza nemici invisibili, ma con passioni ben definite e odi dai volti conosciuti, ci faceva amare a dispetto della differenza di qualità tra noi e le squadre meneghine e nonostante le nostre ataviche magagne tra presidenti avidi e meschini e spogliatoi sull’orlo di crisi di nervi.
Quelle partite spesso finivano 1-0 per gli avversari e ci lasciavano un retrogusto di Amaro Cora o 18 Isolabella, che se ne andava piano piano quando dalla Valle Scrivia innevata si scorgevano le raffinerie di Busalla. L’odore di nafta bruciata ci riaccoglieva con abbracci a sbuffo e calore di consuetudine, facendo svanire il volto terùn di Anastasi.
D’altri tempi però c’è solo il risultato, il contorno è rimasto in una trattoria di Porta Cicca, tra le pieghe della verza della cassoeula e la panatura di una cotoletta.
Oggi la poesia è un sms, la trasferta una tessera magnetica, un Camogli in autogrill e quasi ti sorprendi d’ascoltare il grido “Genoa Genoa” rimbombare all’interno di San Siro. E anche un rotondo, pieno “Inter Inter Vaffanculo”.
Oggi abbiamo il Vate del bel calcio che cercava di convertire Zanetti trasformandolo in centrale di difesa, mica anodini caporali come Marchioro o Giorgi, vediamo sovrapposizioni di mezzali e trequartisti che diventano terzini e si scambiano l’avversario da marcare al limite della propria area, procediamo in quella che ci viene prospettata come la partita perfetta del calcio finzione da terzo millennio, in cui bloccheremo l’avversario, inaridiremo le sue fonti di gioco, lo stordiremo con il pressing e forse, intorno al 55°, riusciremo a fare un tiro in porta.
Il tiro in porta invece lo fanno loro ed è una roba da riderne al bar, come avrebbe detto Beppe Viola.
Oggi non ci sono più le sconfitte di una volta, ci sono partite in cui si osa e gare piuttosto di merda.
Inter-Genoa del 5 dicembre appartiene abbastanza alla seconda categoria.
Sarà l’aria umida e pungente dell’orzata milanese che ti trasporta in una dimensione senza spazio e senza tempo, ma già dalle prime fasi della partita gli spiriti dell’antico cuoio vorrebbero rivivere gli anni della manifesta inferiorità che ci portava a salvezze all’ultima giornata o a retrocessioni annunciate.
In panchina distinti signori in paltò come Gigi Simoni o anodini caporali di cui sopra. Ma in campo c’era sempre qualcuno che sputava sangue esente dai controlli antidoping.
Si giocava contro armate tetragone che potevano disporre di bocche da cannone, e noi si cercava di chiudere ogni varco e di picchiare negli angolo quel tanto che bastava a spostare le efelidi a qualche signorinello dal dribbling fulmineo.
Qui c’è la faccina da serial killer da troppa playstation di Ljajic, il muso paesano e spaesato di Jovetic e il nervosismo di Palacio che non si ritrova da tempo e dovrebbe invece rallegrarsi vedendo il suo passato in Perotti terzino. Venti minuti in affanno, con Figueras che difende come la Kamchatka con un solo carrarmato contro la Cina da tre. Poi la diligente sartoria Gasperini prende le misure ai nerazzurri e li limita, ma di tiri nello specchio nemmeno a parlarne sottovoce.
Ricordo uno 0-0 con l’Ambrosiana in cui Silvano Martina prese 9 in pagella sulla Gazzetta.
Oggi Silvano Perin non ha molto lavoro e fa il suo su un diagonale del serial killer serbo.
Figueras dietro è una bambola di pezza, Tino leggermente più aggressivo e pronto delle ultime sconfortanti prestazioni, il General combatte ma ha a che fare con una coppia di muscolari che pensa bene di tentare il suicidio a craniate. Melo fuori causa e Medel un po’ rintronato riescono a regalarci un buon inizio di secondo tempo, con supremazia al centro.
La prima delle sue parate non difficili di Handanovic è sul laterale portoghese, mentre Lazovic non riesce più a scartare nemmeno una Valda alla liquirizia.
Nella desolazione di una nebbia che non scende a sospendere nemmeno i giudizi, il serial inventa qualcosa che fa svanire all’istante il ricordo di Martina e assimila Perin all’amico Padelli.
Generazione di fenomeni.
La reazione è chimica, come le scie di Capel per il campo, come l’attrazione di D’Ambrosio per le caviglie di Diego, che non riesce a far più di un paio di accelerazioni.
Nostalgia di Pasquale Iachini, quasi quasi di Gregorio Basilico, con Gakpé che è il Boito nero.
La partita è già finita, ma va avanti per inerzia altri venti minuti più recupero.
C’è una telefonata a gettoni di Tino Costa, l’imprecisione macedone che si taglia con un grissino e la sensazione che questa stagione possa ricordare una qualche vita di quarant’anni fa solo per le salvezze all’ultima giornata o le retrocessioni annunciate. E ora tutti a sputare sangue contro il Bologna, o a sputare addosso ai saccenti del calcio finzione.


domenica 8 novembre 2015

FROSINONE-GENOA 2-2 Il commento del Beccioni: "MOZZARELLE IN GABBIA CIOCIARA"

Mozzarelle rossoblu in Ciociaria.
Nei giorni scorsi il nucleo antisofisticazioni della polizia di Frosinone ha operato uno dei sequestri più importanti di latticini scaduti in zona.
Non immaginavano che di domenica ci sarebbe stato da intervenire nuovamente, con una partita di roba invendibile arrivata da Genova.
Non è una bufala, in primo piano nello scaffale del Matusa, in offerta sono arrivate le graziose palle mosce a ciliegine Gasperelle, quella burrata di Tino Costa e la pasta filata da pizza della difesa.
Non basta la novità Lazovic, peraltro migliore in campo con due assist come bocconcini per Pavola Affumicata e Gakpé. Treccia Laxalt e delizia Perotti iniziano ad avvertire la stanchezza del dover essere palindromi e dannarsi l’anima stanca, specie se non arrivano i risultati.

Il Gasp migliore senza dubbio è quello in gabbia, dopo la sua espulsione il Grifone tira fuori gli artigli, complice anche la prevedibile stanchezza di un Frosinone che nel primo tempo ha pressato come un confezionatore di sottilette. Lui urla dalla trincea ciociara, ma la squadra fa finta di non sentirlo. Stavolta spavaldo all’inizio, con un 343 sulla carta offensivo, perché il Genoa mica può presentarsi nella provincia laziale con umiltà, manco avesse perso in quella toscana…
E dire che, come nel capolavoro cinematografico di De Sica, tutto era iniziato nel migliore dei modi, come quando Cesira incontra Michele. Lazovic se ne va a spasso per Fondi e Pavolosky  fa il partigiano polacco della situazione.
Ma le grane iniziano presto. Invece di far girare palla, di far aprire le maglie e i cacio ricotta avversari, il Genoa senza palle del Mago arretra come i villani frusinati davanti ai tedeschi, per poi essere violentato due volte. Ci si mette anche l’arbitro Calvarese, che ricordiamo per l’invenzione di un penalty al sapor di mascarpone per il Napoli nella scorsa stagione, estraendo nel giro di pochi minuti due cartellini per lo squinternato De Maio, che al rientro fa rimpiangere Armandino, ma anche Granqvist, Portanova, Ranocchia e quasi quasi Gamberini.
Blanchard, vecchio allievo di Gasp, ricorda anche che un tempo c’era Mino Francioso e si esibisce in una funambolica rovesciata da terra. Colpo di fortuna, ma Perin aveva già sfornato un mezzo miracoloso focacciozzo e il peggio sarebbe arrivato poco più tardi.
Rosetta, dopo essere stata vittima del primo stupro, decide di darla a un camionista che assomiglia il modo impressionante a Ciofani.
Ecco il fallo appena fuori area del francese, la punizione con rimpallo e qualcuno che come sempre tiene in gioco un avversario. In questo caso Diakhité che infila una scamorzella a un nervosissimo Mattia, che è di Latina e forse se ne ricorda.
Il primo tempo finisce qui, e per fortuna, perché palle mosce come al solito non riesce a dare la carica nemmeno all’orologio da polso del nonno. Il 351 con Perotti e Laxalt terzini e Lazovic unico che può correre dalla cintola in su per far male, risente del camminamento Costa e della fascite plantare venezuelana. Con l’inserto di Gakpé e l’allontanamento del Mago ingabbiato, ecco uscire l’orgoglio rossoblu, che riesce quantomeno a raddrizzare la situazione.
Il bicchiere mezzo pieno dice seconda trasferta senza sconfitte, quello mezzo vuoto ricorda che non è ancora arrivata una vittoria in trasferta, e tolta forse la Fiorentina, abbiamo giocato contro squadre mediocri. Resta il fatto che quel che c’era nel bicchiere fa sempre abbastanza schifo.
Che la sosta dunque riavvicini Cesira e Rosetta, che se deve faccia posare definitivamente il calabrone sulla merda e soprattutto faccia capire al Regista di questa fiction itinerante che non è Vittorio De Sica e spesso somiglia al figlio Christian nelle sue dimenticabili interpretazioni.

mercoledì 4 novembre 2015

CHI PARLA DI ME


Chi parla di me

ha il diritto di farlo
e anche quello di non sapere
nient'altro se non quel che gli importa sapere
Chi parla di me
non ha certo la mia voce
può non usare la mia decenza
e difficilmente lo farà in mia presenza
Chi parla di me
se esprime un'opinione
non sta cercando un confronto
non sono io il protagonista del racconto
Chi parla di me
lo fa quasi di nascosto
e con il timore inconfesso
che sia io per primo a parlare di lui,
povero fesso!

(Freddie del Curatolo)

domenica 25 ottobre 2015

EMPOLI-GENOA 2-0 Il commento del Beccioni: "PIU' CHE MAGO, MAGONE. IL VERO G. E' UN ALTRO"




Non ci voleva un fenomeno per cercare di giocarsela, oggi ad Empoli.
Bastava essere un altro G.
Non parliamo del Signor G, ci mancherebbe altro.
Per capire uno come lui non sono bastati trent’anni e migliaia di animali al potere e al nostro fianco; in autobus, al lavoro, in famiglia, forse anche allo stadio.
In questi giorni andate a riascoltarvi “La pistola” del 1978, ad esempio.
Magari sulle immagini di quell’idiota di europarlamentare leghista intervenuto in diretta.
Ma non divaghiamo.
Stiamo parlando di calcio, non di società.
Di semidei tatuati, non di esseri umani tarati.
Di erotismo, non di pornografia.
Allora oggi nella terra di Dante e di Pieraccioni, sarebbe bastata l’intelligenza di Gasparri, senza arrivare per forza a quella di Giampaolo, che è il suo sosia ma di calcio ne capisce di più, e ci auguriamo anche di vita.
E invece il Grifone di quest’anno è squadra da orgasmi casalinghi, di quelli con la consorte da nozze d’argento, che solo grazie alla nostra fantasia riusciamo a rendere sempre piacevoli, quasi inediti.
Come in “E’ sabato” del nostro G preferito, guarda un po’.
In casa è sempre sabato, in trasferta lo era questa settimana.
Ma sabato o domenica, lontano da casa brancoliamo alla ricerca del Punto G.
Un punto G, uno solo, quello di Udine.
Per il resto il Mago del calcio italiano ci ha condotto ad un glorioso cammino fuori da Zena  che ci regala gli stessi punti di Carpi e Frosinone.
E’ sabato! Potremmo rivedere con gli occhi e con il cuore le forme a noi care, benche “risapute e stanche” di glorie passate e vive nei nostri turbamenti.
Sì, dai!
Facciamolo ancora!
Troppo facile, per un sadomasochista tattico come Mago G.
Con il suo gatto a undici code e il sorriso in latex, l’orgasmato di Collegno propone un turnover solo per un terzo, lasciando in panca gli eroi delle ultime trasferte, Burdisso e De Maio, per lanciare il sextoy misterioso Munoz e la MILF Marchese, che dall’avvento del figlio di Calogero non è buona nemmeno per il twerking.
Al centro, date le tre partite ravvicinate in otto giorni, Punto G. non trova di meglio che piazzare Rincon sulla fascia, che è come avere a disposizione Bar Refaeli per un pomeriggio e chiederle di far la lavatrice e stendere i panni.
Qui Gasparrini dimostra che avrebbe fatto meglio ad entrare in politica, magari nel movimento 343 stelle.
Rincon sulla fascia si stanca, non fa filtro in difesa, non aiuta il regista al suo fianco, brancola come un ipermetrope e non trova né il Punto G né il resto delle lettere sulla tabella dell’ottico. 
Non è tempo nemmeno per Tachtsidis.
All’eroe dell’ultima al Ferraris è preferito il giovane superdotato (e super valorizzato) Ntcham.
I soloni del Gasperinesimo mi spieghino allora perché non il francesino, piuttosto che il venezuelano, sulla laterale. Da dove oltretutto Olivier ci ha regalato il gol della vittoria col Chievo, preparato ovviamente in allenamento dopo innumerevoli sedute (psichiatriche).
In avanti, altra possibilità di turnover e di rilancio di qualche giocatore che rischia lo spegnimento stile cometa, che poi te ne accorgi vent’anni dopo che è morto.
Capel, Lazovic?
Macché! Qui si fa pornografia, mica cinema!
Conferma del trio resistente che ha spadroneggiato in casa domenica scorsa, nel talamo dove il punto G lo trovi a memoria, come un cane da tartufo o da coca, seguendo più o meno il tuo stesso odore.
Ecco quindi la bella armata da trasferta toscana, per ripetere l’esaltante prestazione di Firenze, senza andare oltre.
Fin dalle prime battute si nota un Empoli ben messo in campo ma senza grandi individualità, se non due giocatori tra le linee, fuori dagli schemi, anarcoidi.
Per dirla con il sosia di Giampaolo “che fanno un po’ il cazzo che je pare”.
Krunic e Zielinski non possono essere considerati, nel gioco del Mago.
Non li caghi nella tua squadra, figurati se li devi prendere in considerazione in quella degli altri.
E qui il ragionamento alla Gasparri ci sta tutto.
Sappiamo già che da loro verranno i pericoli più grossi.
Se la formazione di Punto G non convince, in compenso la motivazione con cui li ha mandati in campo  commuove come un documentario sull’incontinenza nella terza età.
Tutto il calcio che si vede da parte nostra sono due fughe di Gakpé sulla destra e un esterno della rete di Rincon (dove appunto avrebbe dovuto trovarsi la sua controfigura superdotata per le scene forti).
Invece Ntcham al centro colleziona più falli di Vladimir Luxuria e Pavoletti perde nettamente il confronto con l’aitante e muscolare Tonelli.
Per non parlare di Perotti, omino nella barca sempre più solo e triste, come un selfie nel ripostiglio.
Dopo un paio di pezze di Perin, tornato a mostrare il Lato B nei lungometraggi che le mogli non vedranno, si va in bambola un po’ tutti ed ecco l’uno a zero della banda Gaspaolo.
Fine primo tempo, toilette, sigaretta nel foyer, fazzoletti nuovi e cappelli sulle ginocchia.
Fazzoletti sì, ma per piangere.
L’armata Gasparrini torna in campo più triste di prima, e il pornodramma  assume toni da commedia esistenziale francese. Quelle in cui non succede un cazzo per quasi un’ora e poi ti rendi conto che le tette della protagonista erano pure mosce.
Così si va a prendere il secondo gol, su ennesima dormita della MILF che non può più fare le ore piccole, ma nemmeno una trasferta al mese, e si rischia pure il terzo in serenità.
Senza mai impensierire il partner occasionale, che ha anche il buongusto di godere con sobrietà.
Si torna a casa incordati dall’ennesima avventura andata a male, grazie al Mago delle camporelle fuori porta, quello che anche quando non cerchiamo la scopata indimenticabile, ma almeno un filarino che ci riporti alla memoria le gite scolastiche con l’immortale Professore, ci ricorda impietosamente che di lui non ci si può innamorare, perché è un maledetto, presuntuoso, inconcludente monogamo segaiolo.

domenica 11 ottobre 2015

UDINESE-GENOA 1-1 Il commento del Beccioni: "IL GRIFONE VA PER OSMIZE"


“No ste a zercarme, son per osmize”.
Così recita il detto popolare degli uomini “furlan” tutti d’un pezzo, che ogni tanto amano perdersi nelle meraviglie etiliche e gastronomiche tra il Carso e il nulla.
Le osmize sono case coloniche private che, in determinati periodi dell’anno secondo decreti della regione autonoma che risalgono ai contentini delle autorità austroungariche, si trasformano in accoglienti osterie a buon prezzo.
Banconi, panche, botti, barili e tirassegno.
Affettatrici a mano, tazze, urla e gente riversa sul pavimento.
Protagonisti assoluti: vini e grappe.
Sul manto verde del rinnovatissimo hangar Pozzo, invece, oggi il protagonista assoluto è stato lo sponsor “Grappa Julia”, evidente apparizione friulana di Julio, riportato in trasferta probabilmente grazie alla convocazione di Perin.
Il Grifone di Mago G come Grignolino, alla vigilia di Udinese-Genoa promette di trasformarsi in uno Schioppettino, con la vivacità e la leggerezza di Gakpé e Laxalt, e di sublimare in un refosco (dal peduncolo rossoblu) con il bouquet di un Perotti sempre più in forma e l’invecchiamento in barrique di capitan Burdisso che promette “basta errori”.
Si beve per dimenticare.
In realtà ci siamo trovati davanti a un tocai di terza categoria, frutto di cicchettini da antipasto di un gol che non arriva mai.
Un apericena già tristemente noto quest’anno, visto a Palermo, a Firenze e per trenta minuti anche a Roma con la Lazio.
Pressing, compitino assolto da camerierini sorridenti e disponibili, ma nessuno che arriva a stapparti la bottiglia giusta.
Poi, come era già successo alla Vucciria e alle Cascine, invece di tornare dagli spogliatoi, la banda Grignolino va per osmize e invece di gustare delicati San Daniele e saporiti pecorini, prepara una frittata di testicoli di maiale per omaggiare l’immarcescibile Totò Di Natale.
Uno che non è più capace di ubriacare le difese, ma se gli viene offerta l’occasione, si beve chiunque.
Il Grifone da degustazione oggi sta tutto in quattro o cinque giocate di Diego Perotti, nella girata al volo di Pavoletti e nella trasformazione del penalty da parte del Diez.
Il resto è un disgustoso brodino tiepido alla grappa, e con il ben di dio che c’era da raccogliere in Friuli, tornare a casa con tale cadeau, ci lascia ancora molto perplessi su molti aspetti della gestione tecnica.
Al Friuli, Gakpé falso nueve è la novità di Falso y Cortez, che propone Capel e Perotti false ali con la possibilità di accentrarsi. Tale indizio, che porterebbe quasi a un 3421, variante del mitico marchio di fabbrica 3-6-1, sarebbe anche interessante, se Laxalt e Cissokho si sovrapponessero.
Dall’altra parte Colantuono, che fa giocare alla sua squadra un calcio vecchio come gli istriani di nazionalità italiana, tiene Edenilson e Adnan alti e accentrabili, creando superiorità e intasamento a centrocampo e impedendo le sortite avversarie. Un bell’annullamento reciproco che regala uno spettacolo a cui sarebbe meglio assistere da ubriachi. Ma parecchio.
I lampi e le intenzioni arrivano da una parte da Lodi, mobile come un trumeau Luigi XIV, e dalla nostra ovviamente da Perotti, che nonostante le piroette di gioia per il rinnovo del contratto-burlesque, non appare ancora dello smalto migliore. Davanti la solita sterilità che viene quasi da rimpiangere Pandev, uno che per osmize ci è andato veramente.
Il primo tempo se ne va con due sussulti al sapor di brovada: col musetto di Gakpé e un paratone di Karnezis (chi era costui?), col frico di Totò che vede Lamanna per osmize e cerca di avvolgerlo in un grissino come un sauris a mezza stagionatura.
Si segnala il calo di forma di Laxalt, che sulla sua fascia non ha ancora una valida alternativa (se poi Mago Bagnacauda vede Ansaldi nella difesa a 3 stiamo freschi…) e la frenesia di un Cissokho in decisa involuzione, ancorché generoso nel versare da bere a tutti. Rincon tampona e Dzemaili è il maitre perfetto nell’esercito dei soldatini da aperitivo di Mago Roero Arneis.
Nella ripresa, come detto, sono le osmize a farla da padrone.
L’ordinanza dice che sono aperte mezzora, dal 46’ al 76’.
Per fortuna Pavoletti non partecipa ai primi giri di sgnappa, e ci prova un paio di volte, unico ad impegnare Carneade. Il penultimo giro lo offre occhiovispo Lodi, obbligando Danilo (che in fatto di osmize porta un nome altisonante) a far volare il cjarson al cioccolato.
Gakpè si guadagna il penalty che El Diez trasforma alla Maradò.
Ultimo giro di acquavite e tutti a casa?
Neanche per sogno!
Mago Liquore Galliano tiene in campo un inguardabile e nocivo Cissokho al metanolo che ne combina di ogni, mentre la difesa è in overdose da gubana e distillato al ramandolo. Marquinho mette bottiglie in fila e spara sul Lamanna disteso al 92’, la traversa salva i soldatini immobili al 93’.
Prendiamoci la prima Grappa Julio, il primo punto in trasferta e andiamo per osmize per i prossimi quindici giorni. Resta la sobria certezza che in trasferta abbiamo la capacità di ringalluzzire gli strafatti e rendere lucidi gli ubriachi. E dopo aver preso gol il nostro gioco non migliora, né l’astemio Mago Chinotto sa tirare fuori dalla sua vasta cantina tattica, le bottiglie giuste, o perlomeno un po’ di buonsenso sfuso.


lunedì 14 settembre 2015

CARTE DA GIOCO STRAPPATE


Siamo carte da gioco strappate
portate dal mare
Siamo fatue promesse d'estate
Mal pronunciate o da dimenticare
Siamo frasi non dette
Matite spezzate
Pensieri di cose fin troppo pensate
Americhe amare e maledette
Siamo quel che non resta da fare
Giorni da passare
E non giornate da vivere

sabato 12 settembre 2015

FIORENTINA-GENOA 1-0 Il commento del Beccioni: "PROFONDO VIOLA"


Profondo Viola.
Al comunale di Firenze va in scena un Genoa horror, che si fa pugnalare una sola volta e non riesce mai a ferire l’avversario, con una sterilità offensiva endemica e prevista, ma davvero desolante.
Il viola è un colore secondario, composto dall’unione del rosso e del blu.
Anche questa sera i viola per imporre i loro colori hanno avuto bisogno dello scioglimento dei due colori. Una fusione a freddo che è risultato naturale, quasi matematico, di aver giocato con l’uomo in più per 70 minuti. Poi l’espulsione di Badelj, che ha riequilibrato le cose. Noi con Pandev in campo, loro finalmente come noi con l’uomo in meno.
In superiorità numerica, la Fiorentina ha fatto gioco in maniera mediocre, affidandosi al cervello e al mestiere di Borja Valero, che a storpiare il nome gli si fa sempre un favore, a lui e a mammeta. Con Pepito che non gioca dai tempi di Letta presidente, il giovane Duccio della Bernardesa che se è il nuovo che avanza stiamo freschi, e Paracar, non sembrerebbero fare del male, se noi potessimo schierare una squadra decente.
Invece ci presentiamo con JetLag Rincon che per un’ora vaga per il campo spaesato cercando Isla e un Margarita, e trovando solo i polpacci di Borja e Vecino, Tino Costa più lento e defilato del solito e Ntcham dal quale forse si pretende un po’ troppo. Senza stare a guardare il Capel.
Così le cose meno peggio arrivano dalle fasce, dove Laxalt dimostra di volersi imporre, pur in un ruolo non suo, dimostrando abnegazione, spirito di sacrificio e palle ancora troppo giovani per mandare a cagare il Vate.
Dall’altra parte, Hiram Bullock Cissokho fa davvero il possibile e anche di più, considerato che con 500 mila euro ci comperi Falletti della Ternana o Mammarella del Lanciano. A fine partita risulteranno i migliori in campo.
Davanti, l’horror vacui.
Due ottantenni con una buona pensione ma senza l’idea di dove siano i lavori in corso da andare a vedere. Due umarelli tristi che non riescono ad accattare un pallone nemmeno durante un paio di saldi di fine estate di Astori e Tomovic. Clamoroso il pallonettino aziendale del macedone sull’unica occasione che un tempo un piede come il suo avrebbe tramutato in qualcosa di meglio e che invece ci lascia a reti inviolate all’intervallo.
Il George Romero della panchina, Mago Gasp, dopo aver spostato il francesino del City da ala alla Kucka a mezzala alla Kucka, a falso nueve alla Perotti, a dovecazzovuoitu, non si schioda dal 3-6-1 transgender e continua a contare i giocatori in campo per capire se sono davvero undici o almeno due si sono dati.
Come ci si può attendere, la Viola di settembre, confortata da tanta pochezza avversaria, spinge un po’ di più nel secondo tempo e il rossoblu in campo inizia a mescolarsi con il nulla della tavolozza verde del Comunale.
Varcare la trequarti è come un valico appenninico affrontato in monopattino, rifornire Pandev non varrebbe la pena nemmeno si vedesse in lui un’oca da paté.
Inevitabile la marcatura di Paracar, con De Maio che ancora risente della spalla e Burdisso che preferisce il culatello.
Subito dopo, l’orrore della partita propone due decisioni abbastanza indecifrabili: l’espulsione di Badelj (fin troppo severa) e la sostituzione di Tino Costa (anche da fermo, meglio dell’attuale Capel).
Con la ritrovata parità numerica, pur con il fantasma macedone e un mezzo macedone che ancora non ha capito dove gioca e chi sia Gasperini, non riusciamo a fare un tiro in porta.
L’ingresso di Perotti riporta superiorità presunta. Si vede quel che potrebbe essere in futuro: prediche nel deserto e predicatori al dessert.
Al fischio finale ci si può giusto affidare al significato letterario del termine “orrore”:  
Sostantivo maschile [dal lat. horror -oris, der. di horrere (v. orrido)]. – letter. Senso di sbigottimento ispirato dalle tenebre, dall’oscurità: un solitario orrore d’ombrosa selva mai tanto mi piacque(Petrarca); all’orror de’ notturni Silenzi si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube (Foscolo).
Con le tenebre in attacco e oscurità di modulo, attendiamo l’ombrosa selva di tre partite facili. Per ora nessun tumulto, siamo quel che siamo e le tube del giudizio sono ancora lontane, tanto vale pensare a quelle di falloppio.
Pensando alla ripresa di Perotti, al ritorno di Pavoletti e della sua contagiosa voglia, ripieghiamo sull’ accezione particolare di questo “orrore”: 
sacro orrore (e, meno comune, orrore religioso), sentimento misto di superstizioso terrore, di rispetto e di venerazione ispirato da luoghi in cui si sente la presenza della divinità; nell’uso odierno, l’espressione sacro orrore è per lo più adoperata in tono scherzoso per indicare avversione (soprattutto per ciò che non è in sé un male): ha un sacro orrore dell’acqua, di persona che è poco amante della pulizia o anche di persona a cui piace molto il vino.
Ecco.
Salute, Genoa!