martedì 25 novembre 2008

NONNO KAZUNGU E LA GRANDE COALIZIONE

A Kakoneni si respirava la solita aria.
Acacia, mais bollito, erba alta, sterpaglie bruciate, sentori di ascella femminile da fatica, retrogusto di mnazi, tracce di polvere d'argilla, bouquet di merda animale. Un'aria di libertà rurale, di vita povera scandita dalla durata della luce nell'arco di un giorno, un giorno in cui tutto può succedere e proprio per questo quasi sempre non accade nulla.
Tredici ore, dall'alba lucente ai tenui colori del tramonto, in cui lentamente si può assolvere all'unico impegno della giornata (potare un banano, portare l'acqua dal pozzo, farsi la seconda moglie di Lawrence Kamongo) o repentinamente si può andare al creatore per via di un mal di testa, di una zanzara o di un coccodrillo.
In un luogo incantato come l'entroterra di Malindi non può arrivare l'aria di pace che si respira a Nairobi e a Kisumu. Qui la pace non si respira, si vive nelle ossa come un reumatismo.

Si era dibattuto tanto, al Safari Bar, sulla risoluzione della crisi siglata dal vecchio presidente Kibaki e dal vincitore morale delle elezioni Raila Odinga. Ora sembrava finalmente tutto a posto, agli occhi del mondo il Kenya era di nuovo un Paese tranquillo con la sua bella democrazia paghi uno e prendi due: un Capo di Stato e un Primo Ministro.
"Un piatto in più in tavola, per chi mangia" aveva commentato laconico il barista Kibonge.
"E una fila lunga lunga in gabinetto!" la battuta di Makotsi l'ettricista, che stava leggendo le dinamiche della spartizione delle poltrone da parte dei politici dei due schieramenti.
Nonno Kazungu restava convinto che il vero presidente del Kenya fosse Koffi Annan e che i due leader d'ora in poi non avrebbero preso alcuna decisione importante senza prima consultarlo.
"Come l'allenatore dell'Inter Mancini con il coach del Manchester City, Eriksson!" commentò Kitsao, il saputello esperto di calcio internazionale.
Vedere i propri connazionali sfilare per le strade della capitale e nella citta' vecchia di Mombasa, dava gioia e i commentatori della tv nazionale enfatizzavano l'evento, quasi fosse l'occasione per un salto di qualita' del Paese e non un grosso scampato pericolo di precipitare definitivamente negli abissi. Ma in un villaggio in cui si vive alla giornata, la televisione e' poco piu' di uno specchio deformante, al Safari Bar era l'elettrodomestico meno importante, dietro al capolista Frigo verticale delle Tusker, al Bottle Cooler della coca cola e alla "new entry", il minuscolo generatore regalato a Kibonge da un nipote, che lo aveva a sua volta preso in prestito definitivo (modalita' parecchio in uso a Malindi) dal suo datore di lavoro padovano. A Kakoneni si guardava al ritorno dei turisti, alla prossima stagione di vacanze, alla riassunzione di tutti i compaesani licenziati dagli hotel e dalle attivita' straniere della costa.
La vera grande coalizione da allestire, da quelle parti, era quella per la semina e la raccolta del mais a fine marzo, il mese piu' importante dell'anno, quello che avrebbe dato da mangiare a tutti per i prossimi sei mesi.
"Non abbiamo abbastanza soldi per la semina" disse nonno Kazungu.
"Tu non ne hai abbastanza – specifico' Kamongo – perche' hai tanti acri di terreno"
"Certo, e offro da mangiare alla maggioranza degli abitanti di Kakoneni, anche a una decina di componenti della tua famiglia" ribatte' il vecchio.
"Io ho sempre pagato i sacchi di mais offrendo in cambio parte del mio raccolto di pomodori – sbotto' Makotsi – ma quest'anno non li vuole nessuno, vogliono solo soldi e i soldi non ci sono"
"Le sementi costano...sono aumentate" respiro' Kibonge.
"E allora vi mangerete la polenta senza condimento"
"E tu ti farai dei gran sughetti in un catino, cosi' ci sguazzerai dentro, ti ci laverai coi pomodori!" rise Kamongo.
"Dobbiamo unire le forze – disse Kazungu – iniziamo a raccogliere il denaro necessario per la semina, poi lo divideremo in base agli acri di ognuno e quando il mais sara' pronto lo distribuiremo a secondo dei fondi elargiti e della merce da scambiare"
"E il lavoro dei singoli?" chiese Onesmus, lo scansafatiche.
"E l'usura dell'aratro?" Kibonge.
"E il nutrimento delle vacche?" Makotsi.
"E i sacchi di juta?" il piccolo Kitsao.
Nonno Kazungu per un attimo penso' che sarebbe stato il caso di telefonare a Koffi Annan o, in alternativa a Baba Hakili, il mediatore di Marafa, suo amico d'infanzia.
La crisi del mais era appena iniziata, ma nessuno intendeva risolverla velocemente. Ognuno pensava ai suoi interessi.
"L'anno scorso oltre ai pomodori io ho messo anche gli spinaci" gridava Makotsi.
"E io ho perso una vacca per sfinimento..." oso' Kamongo.
"I miei acri sono stati ridotti per ospitare nuovi bambini all'oratorio" reclamo' il prete.
In quel mentre entro' al bar Kadenge Davide, il beach boy.
"Ragazzi, nonno, reverendo...ho i soldi per la semina! Me li ha dati una signora italiana con cui ho...."
"GRAZIE! – interruppe premurosamente il prete – non vogliamo sapere i particolari di questa generosa donazione...come dividiamo questi soldi?"
"Ci pensera' il nonno!" disse Kadenge Davide.
"La solita dittatura..." commento' Makotsi, alzandosi.
"Decide sempre chi ha i soldi" disse Kamongo.
"Da che pulpito..." fece Kibonge.
Nonno Kaznngu sorrise al nipote, si alzo' in piedi e osservo' uno ad uno la grande coalizione di Kakoneni. Anche quest'anno avrebbe vinto il buon senso, la fame avrebbe trionfato sull'egoismo.
A Kakoneni l'eterna aria di polenta era da sempre piu' importante di qualsiasi altro effluvio passeggero.

lunedì 24 novembre 2008

SCAPPATO A MOMBASA

Vendo vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Considerando la vita partendo dal basso
Ho fatto gavetta non ho guadagnato mai
neanche un sasso qualcosa da vendere in strada
la festa è finita scappato a Mombasa
E allora vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Ipotecando il futuro secondo la prassi
Avrei lavorato per altri vent’anni poi
In tasca un poco di soldi magari una casa
La testa malata scappato a Mombasa
E con l’istinto di un bambino
l’incoscienza stesa al sole
M’immergo in un mondo diverso dal mio
Col coraggio di lasciare
Tutto dietro le spalle
Rompo il mio vetro prendo il respiro
giro un nuovo film
e dopo
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
njoo hapa baba, njoo ndani moyo yangu, baba mzee njoo hapa lala

domenica 23 novembre 2008

FANALINO DI CODA

Odio la scuola di chi c’ha i soldi, gli ipermercati pieni di saldi
Odio le file sull’autostrada, io sono un fanalino di coda
Odio i sorrisi studiati allo specchio, i finti affari che nascondono il trucco
Chi vuol portarti sulla sua strada, io sono un fanalino di coda
Mi piaccion le latte colorate, mi piace l’estate, il mare al tramonto
Restare in silenzio e guardarsi soltanto, cercare su un prato il respiro del vento
Sarò di moda quando le mode non saranno più di moda
Sarò di moda quando le mode non ritorneranno più
Odio chi gioca coi sentimenti, le concessioni degli arroganti
Chi vuole la pace e poi sguaina la spada, io sono un fanalino di coda
Odio i sorrisi studiati allo specchio, i finti affari che nascondono il trucco
Chi vuol portarti sulla sua strada, io sono un fanalino di coda
Mi piacciono i gesti degli anziani, i volti di quelli che sanno ascoltare
I luoghi nascosti con i panorami e i telefonini che non hanno il segnale
Sarò di moda quando le mode non saranno più di moda
Sarò di moda quando le mode non ritorneranno più

(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")

venerdì 14 novembre 2008

RECENSIONI: GIUA


Tra qualche mese la scopriranno in molti, quando i suoi rossi ricci sfileranno sul palco del teatro Ariston di Sanremo. Giovane promessa, una nuova cantautrice raffinata, si dirà. Si scomoderanno paragoni impropri (Grazia Di Michele) per via della chitarra, o impegnativi (Fiorella Mannoia) per la propensione alla canzone d’autore. Invece Maria Pierantoni Giua, ligure di Rapallo e sudamericana d’origine, è semplicemente Giua. Il suo album è uscito più o meno in sordina l’estate scorsa, ma per noi Giua è una realtà da almeno quattro anni. Giovanissima diventa la voce femminile di una delle più intense e piacevoli coverband di De Andrè, gli Endegu capitanati da Alberto “Napo” Napolitano, poi intraprende la carriera solista sotto l’egida di uno dei migliori produttori italiani, quel Beppe Quirici testimone degli anni migliori di Fossati, delle ultime sferzate da studio di Giorgio Gaber e finalmente premiato con un “Tenco” alla carriera quest’anno.
Nel 2005 Giua si aggiudica all’unanimità il Festival di Mantova e inizia la lavorazione dell’album che porta il suo nome. Eccolo, da marzo sarà in giro “come si deve”, arricchito dal brano sanremese. Per ora l’incanto è tutto in dieci brani in cui la voce morbida e precisa di Giua si appoggia con maestria alla chitarra classica, in un intreccio garbato ma pronto ad esplodere tra latinamerica ed echi di quella Francia che gli artisti di riviera come Fossati, Manfredi e altri ben conoscono. Così si salpa con “Si abbassa la luna”, sospesa senza tempo e con echi argentini (come la cristallina “Terra e rivoluzione”), e si torna nella terra della canzone nostrana con “Aprimi le braccia” (che bellezza il violoncello di Martina Marchiori, già con lo stesso Fossati). I testi maturi vedono la collaborazione di Gianluca Martinelli, l’alter ego artistico del bravo Carlo Fava, che appare come autore anche in “Morbidamente”, uno dei brani più rappresentativi dell’artista ligure. Il mondo di Giua si apre come uno scrigno di buona musica e la moderna Ortiche (“casa per casa ho le formiche, ma so planare sulle ortiche”) è una ballata saltellante che rivela la maturità di una giovane promessa che sa scivolare senza presunzione tra poetica e ironia. C’è Stefano Melone, altro guru fossatiano dei tempi passati, a rimodellare gli arrangiamenti e si sente quell’aria di perfezione acustica e contemporaneità che rimanda a un bell’episodio di Cristiano De Andrè, “Scaramante”. Discorso a parte merita “Streghe”, divertente e divertita escursione nel sociale di un’autrice che si rivela intelligente oltre che sensibile. Curiosamente due maestri della chitarra classica, Fausto Mesolella e Armando Corsi (insegnante di Giua) appaiono all’elettrica. La liricità immaginifica di “La casa ubriaca” va ad equilibrare le cose, ma a noi piace il mondo tutto di Giua, la perfezione mai fine a se stessa, l’immaturità vestita d’autoironia e l’invito al piacere di un ascolto che non può essere superficiale. Piace anche che l’album si chiuda con una ballata pianistica fin troppo fossatiana, “Organizza la notte”. Morbidamente è l’episodio più classico, sembra già appartenere a un passato che invece può essere il nuovo futuro della rossa cantautrice a cui auguriamo quel che lei canta: “trasparente avvenire avvenente”.

Alfredo del Curatolo

giovedì 13 novembre 2008

LA BALLERINA E L'UOMO BIANCO

La ballerina e l’uomo bianco

Come balla bene questo bianco…insomma, si capisce che è la prima volta che s'infila in mezzo a una danza tradizionale delle nostre…magari ha frequentato quelle discoteche-bordello in cui non entrerò mai nemmeno se mi pagano (ed è sicuro che mi pagano).
Sono stata una volta sola a Dar Es Salaam e l'ho vista da fuori una di quelle balere del sesso, mentre passavo in matatu. Aveva insegne colorate e perfino i buttafuori ammiccavano come "shoga", checche con i muscoli.
Ho capito in un attimo che non ce l'avrei mai fatta.
A Dar Es Salaam sono andata a visitare una zia che in punto di morte mi avrebbe lasciato un po' di soldi, a me e a tutto il gruppo di danze folkloristiche, se non fosse arrivato un cugino poliziotto a far man bassa di tutto. Me ne sono tornata al villaggio con una catenina d'argento (non l'ho ancora venduta) e un vestito tradizionale da matrimonio che verrà buono per mia figlia Caroline.
Ecco, quella sera, tornando da casa della zia, un pensierino ce l'ho fatto. Mi dispiaceva arrivare al villaggio a mani vuote, dopo aver creato una certa aspettativa. Il vecchio padre avrebbe tenuto il broncio per una settimana e i bimbi si sarebbero messi a frignare. Mi sono detta: adesso faccio fermare il matatu e vado. Mi offro per qualche migliaio di scellini a un mzungu arrapato o a un indiano unto e domattina presto riprendo il viaggio. Non ce l'ho fatta. Meglio affrontare l'onta del fallimento di una missione familiare, piuttosto che nascondere tutta la vita ai miei cari un peccato a cui il Signore ha assistito.
Magari in quel lupanare ballereccio avrei incontrato un mzungu saltellante e simpatico come questo che mi sta volteggiando intorno, davanti a fotografi e telecamere, sarebbe stato veloce, indolore e remunerativo. Magari.
Questo qui ha un'espressione da idiota e anche qualche tic, ma non è come gli sfigati che arrivano qui con i pulmini dei viaggi organizzati. Quelli sembra che non hanno mai visto un nero. Appallano gli occhi come fossimo una razza d'animale che hanno studiato soltanto sui libri. Battono le mani fuori tempo e ridono, ma è una risata trattenuta, la bocca non si spalanca come quando ti stai divertendo davvero. Sembra che qualcuno li abbia obbligati ad assistere al nostro spettacolo.
Soltanto alla fine, quando vogliono scattare la fotografia accanto ai nostri corpi esausti e sudati, sembrano realmente felici, pare che la loro visita abbia avuto un senso. Siamo come prede anelate, seguite e finalmente catturate nelle immagini che porteranno dietro tutta la vita, raccontando a chi non c'era quanto si sono divertiti quel giorno. Ma è solo una mia impressione, per carità.
Eppure il signorotto bianchiccio di una certa età non sembra capitato qui per caso. Intanto è protagonista dello spettacolo almeno quanto noi, poi non è lui a scattare le fotografie ma sono altri mzungu a fargliele. Forse è il giorno del suo compleanno.
Il suo sorriso è rilassato, diverso dai sorrisi mzungu che mi devo sorbire di solito. Per lui siamo uno spettacolo, non animali danzanti a contorno del safari. Si vede che ha viaggiato, il vecchio.
Sharina, la mia amica ballerina che ha esperienze anche in Kenya, a Mombasa e a Malindi e che nelle discoteche-bordello ha fatto faville, ma non si vergogna a raccontarlo in giro tanto suo marito è mezzo scemo ("quaranta capre fanno un cervello" si dice dalle mie parti), dice che il mzungu è un americano, e gli americani il ballo ce l'hanno nel sangue: gliel'abbiamo insegnato noi neri deportati, hanno copiato le nostre danze tribali e gli hanno dato una parvenza d'eleganza meno istintiva e più studiata, meno animale e più frocesca.
L'americano ora mi tocca, chiede le mie carezze. Oddio, magari finito lo spettacolo mi chiede di seguirlo da qualche parte, come fece un buzzurro italiano l'anno scorso. Parlava una lingua sconosciuta anche a Sharina, che l'italiano lo mastica come masticava a Malindi.
"Dev'essere bergamasco" diceva, storcendo il naso.
Non è una bella malattia, a mio modo di vedere. Emetti dei versi gutturali come lo gnu nella stagione dell'innamoramento e ti s'ingrossa il naso come al cane morso dal serpente.
Ora siamo guancia contro guancia, ma non guarda me, guarda le telecamere. Fa il finto tonto. Io continuo a ballare come se niente fosse, le bandiere della Tanzania sventolano ovunque, il cielo si è aperto completamente e l'incalzare delle percussioni rende l'atmosfera magica. Se non ci fosse questo intruso col sorriso di plastica a farsi fotografare, sarebbe una delle performance migliori del nostro corpo danzante, ma così è un po' più erotico, non so, sarei bugiarda a negare che mi smuove qualcosa dentro. Il pensiero principale però è che alla fine della performance stavolta avremo ognuna dei soldi extra, potrò permettermi due chili di rottura di riso e magari anche delle ossa di bue da mescolare agli spinaci. Stasera sarà una cena speciale, e lo dobbiamo a questo mzungu simpatico e un po' imbecille.
Ecco, la danza è terminata. Da un palchetto improvvisato si alzano in piedi persone importanti del mio Paese, bianchi e neri si stringono la mano. Dice Sharina che il bianco ha dato loro un sacco di soldi per comprare medicine contro la malaria.
Le telecamere spengono i loro occhi rossi e il bianco ringrazia tutte noi.
Mi guarda.
Lo guardo.
Forse sta scattando qualcosa.
Mi accarezza un braccio, ma qualcosa lo frena.
Due individui enormi vestiti di nero lo invitano a seguirlo, hanno lo sguardo serio e dei fili bianchi gli pendono dalle orecchie. Sembrano venuti da un altro pianeta.
Il bianco non smette di sorridere ma è chiaro che è in evidente difficoltà.
Dove lo portano?
Non sarà mica colpa mia…
Un frastuono incredibile squarcia l'aria, la terra rossa si appiccica ai nostri corpi sudati, le gonne multicolori si alzano e mostrano i mutandoni di poliestere nei quali siamo inguainate. Le piccole Tanya e Mami fanno per scappare terrorizzate. Sharina le blocca, con uno sguardo rassicurante.
Una cavalletta a motore, di quelle che chiamano elicottero si posa sul prato a pochi metri da noi.
I due uomini scortano il bianco fino all'ingresso, quello non smette di sorridere e prima di infilarsi nella cavalletta alza la mano destra e la agita. Guarda verso il palchetto, poi si gira e un secondo prima di salire mi lancia l'ultima occhiata. Sharina sta catechizzando Mami, l'occhiata è tutta per me. Se non fossi nera, diventerei rossa.
Uno degli omoni chiude il portello della cavalletta e la terra rossa si solleva un'altra volta.
Non posso che chiudere gli occhi, ma non è il buio ciò che vedo, nel rumore delle ali meccaniche. Ho impresso il volto ebete e inoffensivo di quel bianco, la fragilità interiore da capretta alla corda a cui è stato concesso, per pochi minuti, di saltellare e brucare più in là del suo raggio.
Un uomo triste che si è sentito per un attimo qualcuno, una persona diversa, allegra, lontana da se stessa e dal suo mondo ricco ma infelice.
Forse anch'io, all'incontrario, potrei sentirmi così bene, in una discoteca di Mombasa o di Malindi. Liberata dai pensieri di ogni giorno, dal peso del peccato, della ricerca quotidiana del cibo, dai compiti a cui le donne e solo le donne devono assolvere, dalla stupidità dei maschilisti capaci solo di ubriacarsi e creare problemi che non sanno risolvere se non creando altri problemi, dalla inconsapevole crescita dei figli e dai consigli antichi e presuntuosi dei padri.
Entrando e uscendo da mzungu come quell'americano, potrei imparare qualcosa, vivere la vita in maniera totale, allargare i miei orizzonti. Fors'anche arricchirmi spiritualmente, senza dovermi pentire di niente, fiera e libera come Sharina e come tante altre ragazze della mia età.
Grazie, sconosciuto americano.
Domani faccio la valigia e parto, una nuova vita mi attende.

(ANSA)- DAR ES SALAAM, 18 FEB – Il presidente americano George W. Bush è arrivato ieri in Tanzania, nell'ambito del suo tour africano, che non toccherà il Kenya, dove è impegnato il suo vice Condoleeza Rice, nella difficile opera di mediazione conseguente alla crisi politica post-elettorale. Bush si è intrattenuto in danze tribali, scambiando ammicchi ed effusioni con le ballerine locali, in un clima gioioso di festa davvero insolito per il paese africano, uno dei più poveri del mondo. Dopo la calorosa accoglienza ricevuta, Bush ha voluto ricambiare salutando i suoi ospiti in swahili, la lingua locale. "Vipi Mambo" ("ciao, come va?"), ha detto il presidente Usa ad una conferenza stampa. "E' stato commovente vedere così tanta gente per la strada che ci salutava". Al presidente tanzaniano Mkapa ha regalato scarpe da baseball firmate da un noto campione, ricevendo in cambio un leone e un leopardo impagliati e una pelle di zebra.

mercoledì 12 novembre 2008

COME PRENDERE LA MALARIA

I turisti tornano in Kenya, per Pasqua gli alberghi riaprono, i buffet si ricompongono, i freezer si riempiono. La pace è stata siglata, il sangue non scorre più, le teste tagliate si ricuciono e i profughi edificano nuove capanne con gran dispendio di fango. Cosa può fare la Farnesina per rammentare a tutti che il Kenya non è comunque una meta consigliabile?
LA MALARIA!!!
Eh, già. A marzo, prima della stagione delle piogge, prendere la malaria è praticamente inevitabile. Un po' come morire e usare il T9 sul telefonino.
La malaria è una piaga sociale dell'Africa, una terribile febbre presente da sempre e ormai impossibile da debellare.
Innanzitutto perché nessuno si è preso la briga di bonificare l'Est Africa come Mussolini fece in Maremma, trasformando in pochi anni le tribù zulu locali in cavallerizzi di prim'ordine, vignaioli e bagnini per signora.
In secondo luogo perché con tutti gli animali che lo popolano, oltre alla zanzara tigre si trovano la temibile zanzara rinoceronte (oggi molto rara, ma si dice che il suo pungiglione sia afrodisiaco), l'enorme zanzara elefante, dotata di aculei giganti e preziosi (le famose zanzanne d'avorio), l'infida zanzara jena (mentre punge riconoscerete un'acutissima risatina), la velocissima zanzara antilope, detta "pic indolor", la zanzara giraffa che colpisce preferibilmente dalla cintola in su e la curiosa zanzara gnu (che punge una volta e non torna più).
Che dire della zanzara coccodrillo, che lascia una lacrimuccia di fianco al foruncolo o della zanzara ghepardo, che vi omaggia di eleganti mozzichi maculati?
Da non sottovalutare le moderne e pericolo-sissime mutazioni genetiche: c'è la Zanzibar, anofele che si annida nei locali pubblici, la Zanzàraba, che vi aspetta fuori dalle moschee e sparisce durante il ramadan, la Zanzarmata, che organizza posti di blocco sulla strada e non lascia scampo e la furbissima Zanza, che vi punge e, mentre vi grattate, fa sparire l'argenteria da casa vostra.
Per fortuna più di metà di questi insettacci vengono eliminati dalla Zanzara Leone, che se li divora e che punge l'uomo soltanto se non ha proprio niente di meglio da fare (ma questo alla Farnesina non lo sanno).
Chi avesse deciso di avventurarsi nel regno degli insetti, nell'inferno della puntura, a dispetto dell'Onorevole sito che lo vorrebbe nella tranquilla e sana Fregene, dovrà imbottirsi di pastiglie, infilare in valigia flaconi di pillole, bottiglie di sciropponi e magari qualche siringa per le iniezioni.
Si tratta della famigerata "profilassi".
Secondo alcuni luminari della medicina italiana, allorché decidiate di recarvi nell'Africa Equatoriale, dovrete iniziare la profilassi almeno
sei mesi prima, rinforzare le vostre difese immunitarie con una dieta a base di arance, spinaci e legumi (nel caso non funzionasse, potrete sempre cercare di distruggere le zanzare con terribili peti flatulenti), non bere alcool, non fumare e non fare sesso senza preservativo (questo perché in molti ancora confondono la profilassi con il profilattico).
La cura preventiva per la malaria, come ricordano molti specialisti, è sconsigliata ai bambini sotto i 14 anni, agli anziani sopra i 65, alle donne in gravidanza e a quelle che pensano di fare un figlio nei prossimi cinque anni, ai gay e a chi ha problemi cardiovascolari, a chi soffre di emicrania, di reumatismi, alterazioni psichiche e sindromi gastrointestinali, ai miopi e agli astigmatici, agli asmatici e i metereopatici, a chi ha fatto la scarlattina da piccolo, a chi ha fatto la varicella da grande, a chi non ha fatto il militare, alle vedove, ai figli unici, a chi non ha un titolo di studio superiore alla terza media, ai laureati con 110 e lode, a chi ha sofferto per amore e a chi non è mai stato fuori dall'Italia.
Per coloro che non fanno parte delle suddette categorie, è utile sapere che la profilassi funziona nel 25% dei casi.
In realtà oggigiorno a Malindi, prendere la malaria è difficilissimo, mentre al contrario è abbastanza semplice curarla una volta presa.
Ciò si deve all'introduzione dell'artemisina, che sterilizza i gametociti e ne blocca la trasmissione (non chiedete spiegazioni all'autore, egli non ha
la minima cognizione di cià che ha scritto…).
Un tempo le zanzare anofele (e non "anofile", come dice qualcuno che probabilmente è approdato in Kenya con il chiodo fisso) si catapultavano sui pochi muzungu come un turista di villaggio si lancia sul buffet.
Febbrone tropicale, un bel viaggio che le droghe della società occidentale non si sognano neanche: due o tre giorni di sudori caldi e freddi, deliri e vaneggiamenti, stati di allucinazione e dormiveglia comatosi, temperature corporee mai sperimentate prima e senso di distacco tra impianto osseo e cervello.
Il tutto gratis!
Oggi questo si può solo sognare o, come consiglia il nostro medico di fiducia a Nairobi, potete provare recandovi di notte in un bar di Kisumu Ndogo, sudati e indossando soltanto gli slip. Così come è possibile ancora morirne. Per provarci, seguite questo iter: "lasciar salire la febbre per 5 giorni, poi recarsi dal dottore sbagliato e prendere le medicine sbagliate o, meglio, niente".
Ma se non la volete, la malaria difficilmente vi colpirà; edilizia, strade asfaltate, disboscamento e altri segni della civilizzazione hanno fatto emigrare le tranquille zanzare anofele in altri luoghi più appartati.
Troppi mzungu, che sembra di stare in un enorme centro commerciale del sangue, meglio andare in cerca dei bianchi selvaggi dalla scorza dura, degli emo-ristorantini ruspanti, c'è più gusto. Punzecchiare quei corpi flaccidi e pallidi e succhiare le tossine milanesi o romane, non è il massimo della vita nemmeno per una piccola vampira.
Poi una volta l'uomo bianco anti-malaria si riconosceva per l'inconfondibile odore da ambulatorio dell'Autan, o dal lezzo di pesticida dell'Off.
Di questi tempi, invece, non si capisce più niente: olii vegetali al geranio e sedano, vaporizzatori al limone ed escrementi d'asino, preparati alcolici ottenuti riciclando il rabarbaro Zucca o il Cynar, creme caramellose e altri ritrovati che non cacciano gli insetti, ma semplicemente li disorientano.
L'effetto, tradotto dallo zanzarese, è più o meno: "Ma come cacchio ti sei profumato, volevo solo un po' di sangue, mica portarti a letto!".
Per non parlare dei moderni zampironi, che affumicano l'ambiente, provocano il cancro ai polmoni nel giro di due settimane, e hanno il potere di far incavolare ancor più le zanzare.
Una volta che il corpo è stato unto e vaporizzato, lo zampirone acceso come un incenso indiano, è sufficiente inguainarsi dentro zanzariere di ogni forma e misura: quella a tendina del letto, quella tonda del divano, quella verandata per l'esterno, la zanzariera pensile per il balcone, quella a rete di pescatore per la piscina e quella con un buco sotto, per la toilette.
Anni fa, gli avventurieri italiani a Malindi, ex cacciatori di frodo e neo cacciatori di gnocche, si vantavano delle loro malarie, facevano quasi a gara:
"Io ne ho fatte cinque nel giro di due anni",
"Io ne ho fatta una cerebrale e sono ancora vivo"
oppure:
"Io ce l'ho tutti i giorni, la malaria"
o addirittura
"Sono morto di malaria e ora sono una zanzara!" (effetti dell'assunzione di marijuana durante la degenza).
Nel Terzo Millennio la malaria a Malindi è stata soppiantata da forme virali e malanni molto più trendy e più etno-world.
Altro che zanzare!
Fenicotteri radioattivi, scarafaggi con le antenne che trasmettono l'Aids, televisori col satellite che trasmettono Rai International, parassiti delle piante e venditori di multiproprietà, meduse velenose e megere avvelenate.
Le zanzare non soltanto non fanno più paura, ma sono diventate simpatici ornamenti della casa, creano un'atmosfera e ricordano ai turisti che siamo in un paese caldo, all'equatore, pur essendo a sole otto ore di volo da Busto Arsizio.

martedì 11 novembre 2008

FORMULARIO

Di che segno sei che diritti umani hai, riesci ancora a immaginare, hai gli istinti d’animale?
Quanti anni hai in che giro te ne stai?
Credi ancora nel Signore cosa pensi dell’amore?
E’ che siamo in tanti dovremmo arruolare qualcuno che forse sei tu
L’individuo inutile è una scoria se non ha volontà di gloria e non produce più
Hai una tessera che non sia quella del tram e che sensazioni provi guardando il nuovo varietà
quanti figli hai e a Natale che regali fai hai la parabola sul tetto o dei sogni nel cassetto
E’ che siamo in troppi dovremmo scartare qualcuno che forse sei tu
L’individuo inutile è una zecca che dal passato non si stacca e va sempre più giù
Riempi questo modulo firma queste cedole non avere remore è un piccolo favore
alla società, alla comunità compila il questionario, imbuca il formulario, allega il tuo diario esprimi un desiderio
Si avvererà forse si avvererà che problemi hai, e in che modo li pagherai
Viaggi molto leggi poco, hai inventato un nuovo gioco?
Quanti amici hai e con loro cosa fai?
Bevi solo minerale, mangi cibo naturale?
Eravamo in troppi abbiamo scartato qualcuno, guardacaso sei tu
Il sacrificio onora chi si presta è serve anche a chi resta per non sbagliare più
Riempi il modulo firma le cedole non avere remore non sei colpevole società, comunità
Compila il questionario, imbuca il formulario, allega il tuo diario esprimi un desiderio, si avvererà
forse si avvererà

(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")

lunedì 10 novembre 2008

REQUIEM PER MAMA AFRICA

Mozambique, a luta continua, a luta continua, continua…

L’Africa ha una voce di donna.
E’ una voce forte come un’acacia secolare, profonda come le sue radici umili e intrecciate con coltelli e bastoni più volte sepolti e ripresi, intrise di sangue versato sulla terra.
Voce come uno strumento, che trasforma ogni partitura in una storia, la storia di un popolo.
Voce che evoca immagini, che racconta di viaggi, che protegge la memoria.
Voce che non sa e non vuole dimenticare, che parla ai vecchi con la dolcezza dei bambini e canta ai giovani con la solennità di un capofamiglia.
Una voce saggia, che sa farsi agile come brezza marina per rinfrescare popoli divorati dall’arsura, che diventa suadente per portare amore in terre consumate da ataviche rivalità, che chiede la pace con il tuono e istiga alla rivoluzione con la danza. Una voce che sa parlare al mondo intero e che per questo è stata bandita per tanti anni da casa propria, una voce sola capace di divenire coro, trascinante e pagano gospel che reclama un dio che si è sempre tenuto alla larga dal suo continente. Una voce che s’intona urlando contro i fascismi e comunismi, i dittatori e i capi tribù.
Perché l’Africa da sempre chiede una sola cosa: libertà. Dagli altri e da sé stessa e lo fa con la sua voce. E’ la voce delle donne che pregano con il linguaggio delle lacrime, della paura, che gridano il loro dolore per i figli scomparsi, imboscati, arruolati, uccisi. Per i mariti accusati, imprigionati, offesi a morte da leggi razziali o dai loro stessi fratelli.

In Angola, a luta continua, a luta continua, continua…

L’Africa ha una voce di donna. E’ una voce che sa farsi gioia e bellezza al primo raggio di sole, che intaglia melodie nell’ebano della foresta e fa a gara di solfeggio con le piogge monsoniche, la voce che ti accompagna per Soweto e ti dice di non avere paura, la voce che ti mette a letto quando c’è il coprifuoco, che ti lava la schiena dove non c’è acqua e ti da una ciotola di riso anche se ce n’è una sola per tutti. E’ la voce di colei che era tua madre prima che tua madre nascesse, la voce della Natura prima che l’uomo la ammutolisse, la voce dell’anima quando l’anima poteva parlare la sua lingua senza essere fraintesa, giudicata, accusata e poi discretamente messa da parte.

In Zimbabwe a luta continua, a luta continua, continua…

L’Africa avrà sempre una voce di donna. Perché qualcuno ha imparato a riconoscerne il suono, perché ogni Paese d’Africa ha cantato con lei nella propria lingua. Perchè puoi far risuonare quella voce in ogni villaggio di fango e foglie secche, in ogni collina verde e rigogliosa, per le vallate infinite e i deserti assolati, le foreste inospitali e le savane aride e immense, in riva all’oceano in tempesta e sugli altipiani silenziosi, nelle isole incantate e nelle città trafficate e violente.
Vorrei regalarla all’aria, amplificarla in quel cielo africano che ti trapassa, farla viaggiare sulle ali degli uccelli di stagione, sul corpo degli animali in transumanza. Vorrei donarla al monsone, agli alisei, al cascazi e al kusi.
Allora vedreste gli affamati del Burkina, gli agricoltori namibiani, i pastori ruandesi e i nomadi etiopi, gli uomini scimmia del Congo e i ranger tanzaniani, i pescatori malgasci e i guerrieri del Sudan.
Vedreste scaltri uomini d’affari di Lagos e Nairobi, politici corrotti di Johannesburg e Kinshasa, tassisti hutu e guardie masai.
Li vedreste tutti fermarsi per un istante. Voltarsi, tendere le orecchie e brancolare come in cerca di qualcuno, guardare in alto, poi intorno.
Potrà durare un attimo, ma sarà lo stesso attimo per tutti.
Non si può restare indifferenti alla voce della propria madre.

In Congo, in Somalia, in South Africa, in Sudan, in Mauritania, in Gambia, in Uganda… a luta continua, a luta continua, continua…


domenica 9 novembre 2008

RECENSIONE: MARCO CASTELLI "ARGOMENTI DI CONVERSAZIONE"


Questo è swing! Così si presenta Marco Castelli, da Fino Mornasco. Tre parole che, per fortuna, non sono “sole cuore amore” ma nemmeno versi astrusi e ardite metafore. Note che non cercano di arrivare dove non ci sia un sentiero già battuto, una strada sicura da percorrere in bicicletta senza mani sul manubrio, per ammirare meglio il panorama. Ed è proprio un belvedere, questo swing: giovane, appassionato, anche sudaticcio come certi fraintesi da birreria, dato che i tabarin non esistono più da tempo e al massimo li si può evocare. Il musicista e cantautore comasco esordisce con “Argomenti di conversazione”, dopo aver sorpreso anche i palati raffinati e meno inclini a giudicare bene gli epigoni al Festival della Musica di Mantova. Il rischio, quando si fa swing e si sporca la canzone d’autore con il jazz, è quello di evocare il grande vecchio avvocato d’Asti. Castelli ha il gran pregio di non vergognarsene, anzi, “Il naso di Paolo Conte” è l’ironica legenda dell’album: “un grosso naso viene a trovarmi/sopra il mio pianoforte/e poi s’infila in ogni nota” e anche una delle suite più personali. Il disco si apre come i suoi scoppiettanti concerti, con “Twistin’ man”, che più swing non si può (ma il Castelli riuscirebbe a trasformare in swing anche un carciofo, basta vedere cosa fa con “Tango di paese”). L’atmosfera è gaia e anni ‘30 senza ragnatele e manierismi. Ecco poi “Ancora vivo”, la canzone piaciuta a Mantova. Il primo Capossela fa capolino nella metrica da locomotiva sgangherata (coraggioso il gioco delle armonie vocali nel ritornello, quando ci si aspetterebbe che la risoluzione mirasse verso l’alto) ma è un lampo che tornerà soltanto nell’epilogo “Vernissage”. Il miglior Castelli tuttavia è quello nascosto: amaro e neorealista alla Tenco nella splendida “La tua giornata di lavoro”, sospeso tra sogno e realtà in “Miraggio #4” (laddove Conte regalava una doccia ai bagni diurni, lui offre una coperta termica alla sua amata). Certo, c’è tanto del naso-totem chiamato al pianoforte, nell’andatura da passista di “Lasciati amare”, nelle metafore sessual-ciclistiche di “Tandem” e “Il gregario della maglia rosa” e c’è anche il fratello Giorgio (della cui leggerezza amabile il finese sembra aver assorbito l’elisir) in “Assistente dello studio odontotecnico di Cantù”, ma c’è soprattutto una straordinaria e matura capacità di non prendersi mai troppo sul serio (“il poeta è poeta e non lo sa”) che distingue Castelli dagli epigoni presuntuosi che ammorbano l’etere. Maturità che, unità a qualche sbavatura perdonabile in un’opera prima (ma “Lasciam guardare queste cose ad un pubblico più adulto che sappia perdonare qualche errore di gioventù e ingenuità”), rende l’album davvero gradevole perché la sincerità, il garbo nel cantarla e il cuore alla julienne sui tasti del pianoforte con contorno di un’affiatata jazz-band, entrano dentro e, per un prodotto che non si può certo definire originalissimo, il risultato è doppiamente inaspettato e gradito. Così restano nel sangue per un po’, come un buon distillato di malto d’isola, canzoni serene, spregiudicate, allegre, ingenue, agrodolci, prese a nolo come a volte fa la vita con i sentimenti. Sarà per questo che nessuna delle tredici tracce odora di inutilità.

Alfredo del Curatolo

sabato 8 novembre 2008

BALLATA DEL RITORNO DELLA PACE

Tornerà la pace
Finirà la violenza e la paura se ne andrà via
Tornerà la pace
Torneremo al lavoro e a sudare per la democrazia
Tornerà la pace
Torneranno ad ammazzarsi tra loro senza fare clamore
Tornerà la pace
Una stretta di mano e un sorriso ci daranno da mangiare
Tornerà la pace
Torneranno a spartirsi il potere tra mafie tribali
Tornerà la pace
Cambieranno anche i titoli di riviste e giornali
Tornerà la pace
Torneremo a parlare del leone e della savana
Tornerà la pace
E l'emozione profonda del cielo e dell'alba africana
Tornerà la pace
Torneranno i turisti ad affollare le spiagge e pisciare nel mare
Tornerà la pace
Tornerà l'esigenza di investire e di recuperare
Tornerà la pace
Tornerà la fiducia di viaggiare di nuovo all'equatore
Tornerà la pace
Si vedranno le facce di prima ma senza dolore
Tornerà la pace
Torneranno i turisti del sesso e gli amori tropicali
Tornerà la pace
Torneremo a godere del regno degli animali

Tornerà la pace
Questa specie di pace
Che è l'unica speranza di vita sulla terra
La sola alternativa all'odio e alla miseria della guerra

venerdì 7 novembre 2008

NONNO KAZUNGU E LA RECESSIONE

"Nonno, cosa vuol dire – recessione - ?"
La voce di Kitsao non era petulante come quando esigeva che gli fosse restituita la calcolatrice, con cui nonno Kazungu litigava da due ore per fare i conti di quanto gli avevano fregato alla Habib Bank, e nemmeno melliflua e suadente come quando implorava di poter rileggere ad alta voce la lezione di storia.
Era una voce carica di curiosità del mondo, di smania di diventare adulto per capirci qualcosa di più. Nonostante al Safari Bar il ritornello fosse sempre che non c'è niente da capire, che "non c'è un perche", il piccolo Kitsao era convinto che il suo piglio era quello giusto per poter diventare, da grande, un capopopolo a Kakoneni.
Primeggiare a scuola, la fame di conoscenza, le materie da studiare a memoria, gli approfondimenti, l'italiano e i suoi dialetti studiati da autodidatta, grazie al dizionario bergamasco-swahili regalato da una delle fidanzate del cugino Kadenge Davide: a sette anni gli appariva chiaro il perché di quella scelta di vita. Sarebbe diventato un misto tra il nonno, il prete e Lawrence Kamongo, il ricco rappresentante di telefonini, che si stava costruendo la casa di cemento.
Non se lo sapeva spiegare ancora, ma ne era certo: la sua generazione avrebbe avuto bisogno di una sola figura di "leader", che rappresentasse contemporaneamente il potere politico, il potere spirituale e quello economico.
Nello specchio dei suoi occhiali nuovi, regalati dal cugino Kadenge Davide in persona, una diottria per occhio, ora leggeva il Nation.
Kazungu ormai non si stupiva più, il bimbo era un vero prodigio: più sveglio lui a sette anni di suo figlio Furaha a quaranta.
L'unica cosa che aveva imparato Furaha era suonare la tastiera, una scatolaccia gracchiante con sei tasti mancanti. Il problema è che cantava come un facocero straziato da un Land Rover. Aveva ottenuto il permesso di fare da colonna sonora alle messe del villaggio e da quando anche lui era rimasto senza lavoro non lo fermava più nessuno, se non a colpi di papaia matura, cercando di beccarlo in testa. Era diventato uno dei giochi preferiti dei ragazzi di Kakoneni e il reverendo era contento perché grazie a Furaha molti giovani partecipavano alla funzione, ricevendo la comunione e aspettando con entusiasmo la fine.
Kitsao insisteva.
"Tu non lo sai cosa vuol dire – recessione – vero nonno?"
Il nonno fece ricorso alla sua memoria, ai quotidiani letti in passato a Malindi e a tutte le parole imparate dai suoi datori di lavoro. D'altronde era la memoria che ne aveva fatto un vecchio saggio.
"Vuol dire che il mondo ha speso troppi soldi e adesso sta tornando indietro"
"Quindi ne spenderemo sempre meno anche noi?"
"No, non credo. Non capisco molto di queste cose, ma penso che ormai sia un processo inarrestabile. Anzi dovremo spenderne di più, anche se non li abbiamo"
"E allora cosa vuol dire – tornare indietro-?"
"Vuol dire – andare avanti –, secondo me. Come quando tuo zio Kalume dice –vado a lavorare – e s'infila nella sua capanna…"
Kitsao accettò la risposta, sorrise e abbandonò il Nation.
Va bene la serietà, d'accordo l'arrivismo e le strategie di conquista in embrione, ma un vero "giriama" vive alla giornata e approfitta del tempo libero per giocare.
Lasciò gli occhiali a nonna Conjestina e intuì in pochi secondi che in campo c'èra un grosso vuoto sulla fascia destra.
"Pallaaaaaaa!"
Il nonno rimase a guardare, sul suo dondolo artigianale, di corda e legno, appeso a un ramo instabile come la sua salute. Aveva visto la costa keniota trasformarsi così velocemente che non poteva immaginare un'altra evoluzione che non accadesse con la stessa velocità della parola.
"Pensi a una cosa, ed è stata già creata"
"Crei una cosa e ti è stata già rubata" confermò Conjestina, osservando la scimmia fuggire con un chapati in bocca.
Un po' per rimanere in tema, un po' per pensare a qualcosa che fosse stato creato prima ancora che lui nascesse, nonno Kazungu pensò a una coca cola e si diresse verso il Safari Bar.
Kibebe lo scemo era avvinghiato al solito baobab, vestito solo di un gonnellino di palma e se lo baciava come fosse una fidanzata.
"Recessione!" gli urlò il nonno, come per destarlo dall'incantesimo d'amore.
"Re Leone!" rispose Kibebe, abbandonando per un attimo le moine al baobab che sembrò ringraziare, cambiando impercettibilmente la sua ombra.
"Inguaribile innamorato…" commentò Kazungu.
"Vecchio frocio!" ribattè Kibebe.

Il Safari Bar era vuoto.
Tutti a lavorare e il gestore Kibonge a spolverare le bottiglie di guinness.
"Hai letto il Nation? L'America è sull'orlo della crisi!"
"E a noi che ce ne viene? Noi la crisi ce l'abbiamo da sempre…"
"Ma che dici? Da noi la recessione non è possibile…"
Il barista accettò quella parola, benché fosse dura da mandare giù come quei pastiglioni per la malaria che ti rimangono di traverso in gola, a meno che tu non li mandi giù con il Three Barrels Brandy, che le scioglie all'istante.
"…sono vent'anni che mangio a pranzo e cena allo stesso prezzo"
"Ci credo – sbottò Kibonge – prima mangiavi gratis dal tuo padrone a Malindi e ora mangi le cose del tuo orto!"
"Forse se tornassimo a mangiare tutti le cose del nostro orto…del nostro shamba"
"Il più è farsi uno shamba…in centro a Nairobi, per esempio"
"Eh già, al posto dei campi ci hanno costruito le fabbriche di automobili, di scarpe, di telefonini…"
"Non si può mica telefonare a piedi nudi…" disse Furaha, facendo il suo ingresso nel bar.
No, la recessione non poteva colpire l'Africa, non se la meritava. Era come diventare poveri senza mai essere stati ricchi.
Una presa per i fondelli.
"Due coche cole" ordinò Kazungu, per sé e per il figlio.
"Brindiamo alla speranza che passi la recessione ne mondo…non vorrei che si spostassero tutti da queste parti, per potersi fare lo shamba!" concluse Kibonge.

giovedì 6 novembre 2008

ARTISTA INCOMPRESO

Io sono un artista incompreso lo si vede dal mio peso
Mangio troppo e divento obeso anche per questo mi sento offeso
Dalla società e anche dal sistema dalla società che mi crea il problema
Io sono l’artista di nessuno metabolizzo anche il digiuno
Trapassato dal mio futuro convinto solo di essere insicuro
Della società e anche del sistema della società questa società
Ponte: In cui il traguardo non è mai come l’arrivo
È solo parte di uno show televisivo - forse ti divertirai
Sarai considerato un divo se non avrai pietà
Io sarò l’artista delle masse, se riduco le mie parti grasse
Bruciare amici come calorie schiacciare gli altri sono le uniche vie
In questa società e in questo paese che non mi fa felice a fine mese
Io sono l’artista di nessuno soprattutto se non consumo
Nell’impero del cordiale sorriso, è dolce anche essere ucciso
Dalla società e anche dal potere dalla società questa società
In cui al soggetto è preferito l’aggettivo
E il deterrente si trasforma in detersivo – la coscienza laverai
Puoi centrifugare un congiuntivo e nessuno se ne accorgerà
E io non posso fare la valletta la modella il calciatore il deputato o qualche altro tipo di sciacquetta
e nemmeno la reclàme di un profumo o un’automobile un gelato o una maglietta perché mi starebbe stretta Preferisco cucinare ravioli al sugo di cinghiale e una crostata all’amarena e tartufare le pernici usando i soldi degli amici che m’inviteranno a cena E brindare a chi ha mangiato un hamburger surgelato che era in offerta al supermercato con contorno di purè liofilizzato geneticamente modificato


(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")

mercoledì 5 novembre 2008

OBAMA: LA FESTA DI MALINDI, ILLINOIS

I caroselli dei boda-boda lasciano il centro della cittadina e si dirigono verso lo stadio, dove il chairman probabilmente s'inventerà un discorso che unisca Marafa all'Illinois, Matsangoni al Tennessee e le baracche a Barack. Le biciclette-taxi dribblano un furgoncino pick-up che ha legato alla ringhiera del cassone, in ferro battuto, la doppia bandiera Usa-Kenya cucita di fretta e già mezza strappata dal vento, un autobus "Garissa Express" fatto di teste che si sporgono e lamiera verniciata a Manchester United. Cortei improvvisati agitano stendardi e ramoscelli verdi di pace. L'ulivo in Kenya non c'è, ma non ci sono nemmeno fabbriche di armi. Queste cose ce le hanno sempre portate gli altri. La gente è in festa, come per i mondiali di calcio, quando vinse l'Italia e sentirono quel titolo anche un po' loro. Il Kenya è un gran Paese, pensano, ma a parte qualche maratona ogni tanto, non vince mai niente. Nemmeno nella classifica della corruzione mondiale riesce ad aggiudicarsi la maglia nera: quest'anno sono arrivati primi Congo e Zimbabwe. Almeno si è saliti sul podio. Così festeggiamo di rimbalzo, di sponda, per interposto popolo. L'unica volta che pensavamo di festeggiare lo abbiamo fatto con qualche ora di anticipo e subito la commissione elettorale ci ha bastonato, modificando il risultato delle elezioni. Così siamo stati buoni fino a stamattina e avevamo anche paura che si scatenasse la guerra in America, nonostante qualche mzungu ci avesse detto che l'America non è mica ingenua come noi, le guerre in casa sua non le fa. Anche all'America piace festeggiare, invece. Perchè comunque festeggiare è bello. Tutte le cose che hanno il sorriso di mezzo sono belle e Obama il keniota ha un sorriso che unisce Chicago con il lago Vittoria, la povertà di Wall Street con quella di Mama Ngina Road.
Che importa se i suoi fratelli e cugini a Kogelo si monteranno la testa, se lo zio chiederà una poltrona in parlamento e la nonna chiederà una poltrona nuova a fiori per guardare la KTN. E' mattina, e di mattina non si può festeggiare come si vorrebbe. Nel pomeriggio una Tusker (perchè la birra senator qui non esiste, è un'invenzione della stampa, come Bin Laden e Senio Bonini) e poi canti e balli. E allora tutti allo stadio, a sognare che il fango delle nostre capanne magicamente si stia trasformando nel luccicante specchio di un grattacielo, che posso mettere mio fratello Kadenge al trentanovesimo piano della capanna, la nonna però a piano terra che gli mancano le ossa dove c'è il posto per le ossa delle gambe. Il nonno invece si è già arrampicato, e sale come quando mi prendeva il cocco dalla palma più alta dello shamba. Oggi i tuk-tuk sono limousine, le vecchie Datsun con il tetto segato a mano sono Corvette decapottabili e sull'estuario del Sabaki c'è già chi intona un blues come sul delta del Mississippi. Il Governo ha proclamato per domani una giornata di festa nazionale, ma questa non è una gran novità. Ne abbiamo talmente tante che ci hanno forfettizzato gli stipendi e i negozi aprono e chiudono quando cavolo vogliono loro. Un beach boy dice che questo è un anno significativo: un africano ha vinto il campionato di Formula Uno e un africano è diventato campione del mondo dei presidenti. Lo so, non sono neri come noi e non saliranno mai su un boda-boda (ma non è detto, Obama un giretto potrebbe anche farselo, in futuro), però è già qualcosa, rispetto a quando non potevano nemmeno salire su un tram. 
Il mondo sta per cambiare un'altra volta, dice qualcuno.
A noi basterebbe che rallentasse, che si guardasse intorno come al cospetto di un tramonto in savana, che andasse pole pole, che si fermasse un po' a festeggiare questa terra, la sua gente, i poveri d'Africa e del mondo che ballano e sorridono. 

martedì 4 novembre 2008

QUALCUNO ERA MALINDINO (parafrasando Gaber...)

Qualcuno era malindino perché era nato a Malindi.
Qualcuno era malindino perché il nonno, lo zio, il papà si erano trasferiti a Malindi ... La mamma no.
Qualcuno era malindino perché vedeva l'Africa come una promessa, il Kenya come una poesia, Malindi come il paradiso terrestre.
Qualcuno era malindino perché si sentiva solo.
Qualcuno era malindino perché aveva avuto un'educazione troppo bresciana.
Qualcuno era malindino perché la banca lo cercava, il giudice lo cercava, la moglie lo cercava, l'amante anche: lo cercavano tutti.
Qualcuno era malindino perché glielo avevano detto.
Qualcuno era malindino perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era malindino perché prima (prima, prima...) era a Mogadiscio.
Qualcuno era malindino perché aveva capito che Kazungu andava piano, ma lontano... (!)
Qualcuno era malindino perché i giriama sono brave persone.
Qualcuno era malindino perché gli italiani non sono brave persone...
Qualcuno era malindino perché era ricco, ma amava i poveri...
Qualcuno era malindino perché beveva il mnazi e si commuoveva alle danze tribali.
Qualcuno era malindino perché era così bianco che aveva bisogno di sentirsi nero.
Qualcuno era malindino perché era così affascinato dai poveri che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era malindino perché non ne poteva più di fare il povero.
Qualcuno era malindino perché voleva cambiare lavoro.
Qualcuno era malindino perché lavorare?... oggi, no. Domani, forse. Ma dopodomani, sicuramente!
Qualcuno era malindino perché... "i gamberoni l'aragosta le ostriche, cazzo com'è che dalle palme non viene lo champagne?...
Qualcuno era malindino per far risparmiare suo padre.
Qualcuno era malindino perché guardava solo RAI ITALIA.
Qualcuno era malindino per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era malindino perché voleva importare TUTTO!
Qualcuno era malindino perché non conosceva gli ufficiali della dogana di Mombasa...
Qualcuno era malindino perché aveva scambiato Flavio Briatore per il Ernst Hemingway.
Qualcuno era malindino perché era convinto di avere dalla sua il proprio staff...
Qualcuno era malindino perché era più malindino degli altri.
Qualcuno era malindino perché c'era l'associazione dei residenti italiani di Malindi.
Qualcuno era malindino malgrado ci fosse l'associazione dei residenti italiani di Malindi.
Qualcuno era malindino perché in Italia non c'era posto per lui.
Qualcuno era malindino perché in Kenya non c'era altro posto che ce lo voleva!
Qualcuno era malindino perché la corruzione, peggio che a Roma, solo a Nairobi...
Qualcuno era malindino perché non ne poteva più di sessant'anni di governi italiani incapaci e mafiosi.
Qualcuno era malindino perché chi era al suo fianco era malindino!
Qualcuno era malindino perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia!
Qualcuno, qualcuno credeva di essere malindino, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era malindino perché sognava una libertà diversa da quella italiana.
Qualcuno era malindino perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era malindino perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno.
Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era malindino perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso: era come due persone in una.
Da una parte la sua vita del passato, e dall'altra il senso di appartenenza a una nuova realtà che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita.
Alcuni sono ancora in volo, liberi e leggeri, altri avevano aperto le ali senza essere capaci di volare o si sono spaventati e hanno deciso di planare.
C'è chi è tornato in Italia o chi è ancora qui, ma si è dimenticato i motivi per cui ci era venuto.
Ma chi è stato malindino e ha un'anima, non potrà mai scordarlo e porterà per sempre la sua Africa dentro il cuore.
Perché l'anima, quando si libra e va, anche solo una volta, può tornare in gabbia, può vedere indebolirsi le ali o scolorire il suo cielo.
Ma sarà sempre pronta a spiccare un nuovo, meraviglioso volo.

domenica 2 novembre 2008

NAOMI, BONO E CHI FA NOTIZIA


E’ partita Naomi.
Non che in molti l’abbiano vista quando è arrivata (ma poco tempo fa è arrivato anche Bono degli U2 nella Beauty Farm di Briatore e Chenot, peccato non averlo incrociato, gli avrei proposto un duetto su “Na ama bila wewe”, la versione swahili della sua “With or without you”); Naomi ha trascorso tre giorni a Malindi e chi doveva sapere ha saputo. Grazie all’amico suo, di Flavio e di Malindi Gideon Mung’aro, neo parlamentare eletto tra le fila di Odinga, hanno saputo e scritto anche i quotidiani nazionali Nation e Standard. Da lunedì, poi, saranno in edicola le sue dichiarazioni e le sue foto su alcuni periodici italiani.
Cos’ha detto Naomi in conferenza stampa?
Due cosette che avrebbe potuto dire qualsiasi semi-residente avveduto, ma che pronunciate da lei diventano uno spot che fa il giro di tutte le agenzie e sconfessa buona parte della stampa nazionale che negli scorsi mesi si è divertita a parlare di un Paese in guerra civile, di una situazione che non sarebbe più tornata quella di prima.
“Molte persone hanno cercato di dissuadermi dal tornare in Kenya, dicendomi che il paese non era sicuro. Ma ho insistito, sono voluta tornare e ora sono qui. Mi sento abbastanza tranquilla. Non ho avvertito alcuna differenza da come mi sono sentita nelle mie precedenti visite. C’è tranquillità qui. La gente non dovrebbe esitare dal visitare il Kenya”
Lanciando il progetto di un “Rehab”, un centro di recupero di alcolizzati e tossicodipendenti vip, cosa che va parecchio di moda ma è indiscutibilmente una bella idea, Naomi è apprasa ancora una volta come uno dei più credibili sponsor per Malindi. Lei, una nera americana stregata dall’Africa, un po’ come se Robert De Niro sentisse il richiamo di Tuscania e delle zone etrusche…
Nel prossimo futuro raccoglieremo quanti più spot possibili, quante più dichiarazioni d’amore per questo posto troveremo e chiederemo ai vip che lo frequentano o lo hanno frequentato di spiegarci i perché del loro “mal d’Africa”. Da loro non ci si aspetterà di sapere quel che ci dicono riguardo alla maggioranza dei turisti che vengono da queste parti: in un blog in giro per la rete leggevo ieri che addirittura il novanta per cento dei visitatori di Malindi sarebbero turisti del sesso. E il restante dieci per cento? Impotenti? Oppure spiazzati, perché credevano che l’amore fosse inserito nel pacchetto “All inclusive” e non si sono portati spiccioli? Ma mi faccia il piacere sessuale…
Di Naomi si parla, in questi giorni e finalmente si ripuliscono anche le pagine dei motori di ricerca. Questo bisognerà fare nel prossimo futuro, ripulire anni e anni di ricami sulle (poche) notizie di cronaca che Malindi ha proposto. Ancora oggi se cliccate “malindi pedofilia” escono leggende senza nomi, senza dati, senza riferimenti. E anche uno splendido Corriere della Sera dell’anno scorso che descrive così l’hinterland di Malindi, quartieri come Mtangani, dove molti italiani hanno costruito la propria casa e dove c’è l’orfanotrofio della Blessed Generation, ma anche le prigioni: “alla periferia di Malindi dove convivono prostitute, assassini, pedofili, ubriaconi, banditi, teppisti, terroristi e comunque l’umanità derelitta e delinquente della costa keniota”.
Ne deduco che il cuoco del ristorante rinomato vicino a casa mia sia un assassino (l’avevo detto io, quelle ostriche erano sospette), l’houseboy della famiglia romana che mi ha ospitato a cena l’altra sera è un bandito (e un attore, perché interpreta la parte del perfetto rimbambito così bene…), il factotum dell’orfanotrofio è un teppista (l’ho visto infatti graffitare un murales), la segretaria dell’agenzia di viaggi una prostituta (ti attrae dicendo di essere sposata con un tour-leader di Mombasa), il vicedirettore della banca un terrorista (forse informatico…) e “mzee” che vende le vongole un ubriacone.
Che umanità derelitta e delinquente ho a due passi da casa…e sono ancora vivo…con un misero conto in banca aperto da uno di Al Quaeda che da un momento all’altro si farà saltare in aria mentre faccio un versamento sul conto della segretaria dell’agenzia di viaggi che mi ha appena attaccato l’Aids…per finire nelle grinfie di uno chef che mi avvelena con un parfait di granchio….
Un attimo, ma il nonnetto che vende le vongole è DAVVERO un ubriacone!
Vuoi vedere che il Corriere aveva ragione?
Quasi quasi telefono a Bono degli U2, ho bisogno di alcune sue parole di conforto…
Per fortuna c’è ancora chi fa notizia, altrimenti le notizie se le fanno da soli.

sabato 1 novembre 2008

GLI ALBUM DEL DECENNIO: YUSUF "AN OTHER CUP"


Ventotto anni sono una bella fetta di esistenza, specie se trascorsi nella quiete e nella ripetitività di piccoli riti quotidiani. Per chi ha già barattato il certo con la promessa, i beni materiali con la spiritualità, il successo con l’anonimato, ventotto anni sono il volo di una farfalla.
La farfalla vola con la sua quotidiana leggerezza sulle miserie umane, sulle contraddizioni e sull’assurdità di talune posizioni e imposizioni. La farfalla canta con la grazia che le riconoscevamo tre decenni fa, arrangia i brani con quel cocktail di pop “flower power” e folk, con le ritmiche acustiche appoggiate ai suoni netti di rullante, i fiati accennati e un pianoforte riesumato dagli anni Sessanta di John B. Sebastian e soci.
La farfalla tornò bruco (o sublimò in qualcosa d’altro, chi può dirlo) nel 1978, dopo aver dato alle stampe “Back to earth”, il primo “non-disco-d’oro” della sua carriera. A quei tempi il mondo lo conosceva come Cat Stevens, londinese cipriota nato Stephanou Georgiou.
La poetica elementarità dei suoi testi (“Father & son” e “Morning has broken” sono da moderno Erodoto), la sua voce confidenziale e viva, segni peculiari di uno dei più grandi cantafavole dei nostri tempi. “Peace train”, “Catch bull at four”, perfino ballatine romantiche come “Sad lisa” o “Lady d’Arbanville”, canzoni indimenticabili. Poi il bruco e il buco di ventotto anni. Stephanou-Cat diventa (e per sempre) Yusuf Islam. In tempi di scelte serene, cerca quella risposta che da sempre aleggiava nei suoi pensieri e pensierini, e la trova nel dio più forte, più sicuro di sé e (a volte) oltranzista. Vi si dedica al punto che per un quarto di secolo non toccherà le corde della chitarra né più quelle dell’anima dei suoi ascoltatori. Mentre “Tea for the tillerman” continua a vendere copie su copie e “Wild world” viene cantata anche dall’ultimo giamaicano di Miami Beach e dal primo panamense di New York (in versione reggaeton, chiaramente), Yusuf insegna inglese in una scuola coranica sulle rive del Tamigi e il figlio suona al posto suo la chitarra.
Poi qualcosa accade. Le ali riprendono a sbattere una mattina, il tempo di un paio di interviste, di virgolettati riportati con la solita approssimazione da certa stampa. La voglia di dire la propria con il mezzo caro un tempo, quello migliore: la musica.
Ecco spiegato “An other cup”, un’altra tazza per noi boscaioli dell’anima, tagliatori di testi e accatastatori di musiche in mp3. Tempi strani, cinici, barbari in cui l’odio non è più nemmeno un effetto collaterale dell’amore. E il tempo (che per una farfalla che ha scelto l’eternità è un concetto davvero astratto) sembra essersi fermato sulle note di “Where do the children play”. Ecco Yusuf- Farfalla nel parco con i bambini nel pomeriggio (l’iniziale “Midday”) che evita la città dopo il buio e fa partire i fiati sui tappeti di chitarre del fido Alun Parker come fanali d’auto nella sera, ecco il seguace del profeta che evita le facili profezie e sceglie sentieri battuti negli anni addietro quando s’inventava altri mondi dentro di sé, per non dover ammettere che fuori c’è n’è sempre inesorabilmente uno solo (“Maybe there’s a world”, “Heaven”). Diavolo, anzi angelo d’una farfalla, sono brividi veri sulla cover di “Don’t let me be misunderstood” di Nina Simone. Classe che riaffiora come tesoro nascosto, parole celeberrime per fare arrivare un concetto chiaro: “non fraintendetemi, sono uno dalle buone intenzioni”. Una pietra sopra alla Fatwa su Salman Rushdie?
Ci sono tutti i suoni e i colori del tempo immobile, la voce anche è quella di allora, nessun segno d’invecchiamento da quando paragonava Buddha a una scatola di cioccolatini. Ci sono le splendide ingenuità di un pacifista che si è bendato gli occhi per troppo orrore e ora vede una luce che è la stessa di sempre ma quasi la scopre nuova. “Greenfields and golden sands” è un quasi inedito datato 1969 e sembra coevo della bellissima “One day at a time” e i nostri giorni appaiono soltanto con i vocalizzi di Youssou Ndour in “The beloved”, dove un vago sapore arabo non distoglie dal volo della farfalla. Se i tempi che viviamo vi piacciono, “An other cup” è un disco anacronistico, facile, ingenuo o fors’anche paraculo. Altrimenti è un piccolo raro capolavoro che profuma d’eternità e “Heaven” è la canzone da portarsi dietro per i momenti di sconforto da qui alla mortalità.
In un tempo di graduatorie, di amici e/o nemici si può sempre decidere con chi stare. Ma a una meravigliosa farfalla in volo verso un paradiso sognato così a lungo, cosa volete che importi?

Alfredo del Curatolo