mercoledì 30 dicembre 2009

L'ULTIMO RACCONTO DELL'ANNO: "UN SACCO DI PENSIERI"

Pensò dietro di sé, e il pensiero gli si aggrappò alla schiena come uno zaino che si riempiva di difficoltà man mano che la strada diveniva più agevole.
Non riusciva a liberarsi dello zaino, che aveva preso forma, incollato alle sue spalle.
Meditò furbescamente di farsi rubare il contenuto da qualche malintenzionato.
Si addentrò nel quartiere proibito e ne esplorò il perimetro, fin quando due neri saltarono fuori come dal nulla che era più nero di loro e lo presero a calci.
Non sentiva dolore, lo zaino proteggeva il suo corpo dalle botte.
Non ci fu niente da fare. I due avevano cercato di liberare quell'enorme borsa dalle spalle della vittima, ma era come attaccata alla carne.
Allora la aprirono, cercando di svuotarla ma, appena ci misero le mani dentro, risucchiò come fosse un aspirapolvere i due malcapitati e li ridusse ad una semplice difficoltà in più. Con il suo bel peso.
Adesso era persino ridicolo, un uomo di media statura, con due braccine da impiegato e questo gigantesco fardello dietro le spalle. La gente non credeva nemmeno agli occhi di quelli che lo additavano e si fermavano incuriositi al suo incedere appesantito ma indifferente, gobbo e rassegnato.
Immaginava la fatica che avrebbe fatto a trovare la posizione per dormire, per sedersi a mangiare, per andare al gabinetto. Nessuna donna avrebbe voluto fare l'amore con lui, neanche la più squallida delle prostitute.
A mezzanotte si presentò, ormai stremato, al pronto soccorso.
"Si tolga quello zaino, altrimenti non passerà dalla porta" lo avvertì il receptionist.
"Magari potessi..." sbuffò lui "sono qui per questo"
Il medico di turno era esterrefatto. L'infermiera si sporse troppo e ci rimise la parrucca bionda.
"Non sapevo che avesse i capelli corti..." sorrise il medico, notandola seriamente imbarazzata.
"Insomma, vogliamo risolvere il problema?"
Provarono con un bisturi, ma un tascone dello zaino inghiottì pure quello. Un giovane apprendista, appena laureato e col pallino dell'omeopatia suggerì di somministrare all'insolito paziente un calmante.
Dopo due ore lo zaino si afflosciò, riducendo sensibilmente il suo peso.
Aveva eliminato qualche difficoltà, ma non ne voleva sapere di staccarsi.
"Infermiera!"
La donna dai capelli corti aveva già capito. Era l'ultimo tentativo, per il bene della scienza, per entrare nella storia e per recuperare la sua parrucca.
Si spogliò ed iniziò a lavorare sopra all'omino con lo zaino. Mentre l'uomo pareva non rispondere alle sue sollecitazioni, lo zaino s'irrigidì, raggiungendo dimensioni insospettabili, scalzando l'infermiera dal lettino e risvegliando il paziente.
"Siete dei buoni a nulla, guardate cosa avete combinato!"
Si rivestì e guadagnò l'uscita.
Adesso il borsone era sicuramente più leggero, ma sembrava ci fosse dentro una canoa, il poveretto doveva piegarsi e tenerlo, eretto, in posizione orizzontale.
Man mano che gironzolava per la città, cresceva la curiosa partecipazione delle persone che lo incontravano e si chiedevano perché mai recasse con sé quell'incredibile zavorra, e soprattutto cosa ci fosse dentro.
"Non l'aprite, o sarà peggio per voi!" gridava a tutti.
Purtroppo non fece a tempo ad accorgersi di un bambino curioso, che divenne il primo passeggero della canoa.
Non mi resta che il suicidio, pensava.
Ad un tratto ebbe un'idea.
Ma sì, come aveva fatto a non pensarci prima?

FINE PRIMA PARTE

martedì 29 dicembre 2009

L'ULTIMA POESIA DELL'ANNO: VIVERE ALLA GRATIS

Esentarsi dall’ora di religione
E di educazione Risiko
Immolare il fegato
All’altare del dio bourbon
E suonar commossi altri organi
In un salmo idiota
Con un titolo d’amore
Smettere di tirar pugni al bar
E, a intervalli aritmici,
di tirare cocaina
di fumare marijuana
di impastigliar la mente
e i nervi
di scambiare la vodka
con i sali minerali
ma avere fughe minorenni
per il gusto del vero
e per mantenere
aneliti illegali
rensugar chili di maccheroni
di pancetta panna e peperoncino
allungando la solfa
con gravi e sapienti
dosi di salsa cruda
poi, non contenti,
dedicare la ricetta
a un noto cantautore folk
senza voce in capitolo
capitolare sul mito
di capitan Tuttofare
recitando il rituale
di chi è sconfitto
proprio mentre stava
perdendo male
morire d’amore
o di mandorle amare
col senno di poi
sul seno di lei
morire nel sonno
sognando di vivere

domenica 27 dicembre 2009

TIFARE GENOA IN AFRICA FA BENE ALLA SOLIDARIETA' (da La Provincia)

Quando Alfredo del Curatolo, giornalista, scrittore, cantautore, performer, chef, insomma, uomo dal multiforme ingegno si disse, e disse agli amici, «mollo tutto e vado, anzi torno in Africa», ormai cinque anni fa, tutti i suoi conoscenti si posero una fondamentale domanda. Non «di che vivrà, come farà, ce la farà?» e neppure «ma sei sicuro di riuscire davvero a lasciarti l’Italia alle spalle una volta per tutte, a diventare un keniota, a considerarti un turista a casa tua ogni volta che vorrai tornare indietro?». No, niente di tutto questo. La domanda che tutti gli amici di “Freddie” si posero è: «Ma è pazzo? Come farà a seguire il Genoa?». La squadra del cuore, quella che non si può dimenticare, quella che non si può cambiare neppure cambiando stile di vita, nazionalità e pure continente. Difficile seguire il campionato, le sorti del più antico “cricket and football club” d’Italia da laggiù, appassionandosi alle sorti dell’undici di Gasperini senza esserci, senza leggere la «Gazza» tutte le mattine, senza seguire gli interminabili dibattiti televisivi, insomma, tutto quanto fa calcio quassù.
Difficile, forse un tempo, ora di meno nell’era del satellite e, comunque, il difficile non è mai impossibile. Così Freddie ha fondato il «Genoa club Malindi» e, ora, ha tradotto questa esperienza in un libro presentato prima a Genova, ovvio, e poche ore prima di Natale anche a Como, a Villa del Grumello, grazie all’associazione Karibuni che realizzerà il progetto finanziato proprio dai proventi del volume edito da Antonello Cassan editore di «Liberodiscrivere»: una scuola calcio ideato dalla onlus comasca in collaborazione con il Genoa in favore dei ragazzi del distretto di Malindi che si legheranno, così, ancora di più a quella che è diventata anche la loro squadra del cuore. Un’esperienza che del Curatolo sintetizza così: «La squadra più antica d’Italia che torna nell’Olimpo del calcio, un manipolo di tifosi che la seguono con ansia ed entusiasmo dall’Africa, i loro amici kenioti che guardando le partite in tv ne sono conquistati. "Genoa club Malindi" non è soltanto la storia di una passione calcistica, ma anche uno spaccato della vita dei nostri connazionali nel Continente Nero, perché il "mal d’Africa" a volte ricorda la fede incrollabile in un team sportivo, specialmente se si tratta del Genoa, culla della civiltà pallonara così come l’Africa è culla dell’umanità».
Il tutto, come sempre accade con Freddie, con grande ironia e tanta voglia di giocare, anche restando lontano dal campo del Ferraris.

Alessio Brunialti

giovedì 24 dicembre 2009

NATALE

Si ringrazia Gesù per aver inventato il Natale.
Si ringrazia Fabrizio De André per avere inventato Gesù.

(Delcu & Sapo, "Nero Natal" 1990)

LA VIGILIA


Come il bocciolo che attende la rosa
come il silenzio il suo colpo di tosse
un rosso tramonto la sera odorosa
le stelle lucenti, nuvole mosse.
Come l'altare aspetta la sposa
oggi vorrei che la vita attendesse
che questo cuore sempre vivesse
la dolce vigilia di qualche cosa.

Freddie del Curatolo

mercoledì 23 dicembre 2009

IL MERCANTE IN FIERA DI MALINDI PER BENEFICENZA (da www.malindikenya.net)


Un gioco nuovo partorito dalla fervida mente del disegnatore milanese Max Banfi e di Freddie del Curatolo. Sabato 26 dicembre al White Elephant alle 20.30 (con cena a buffet di cui parte del ricavato va in beneficenza a Karibuni Onlus) va in scena il "Mercante in fiera di Malindi", tipico gioco natalizio rivisitato in chiave keniota, con carte che illustrano arti e mestieri malindini. Si potranno acquistare, all'asta bandita da Freddie, "L'askari" o "il Tuk Tuk", ma anche aragosta e granchio, o "Il giocatore del casino" e "La studentessa di Nairobi", figure neanche tanto retoriche. Il ricavato del gioco, i cui vincitori avranno comunque premi messi a disposizione da negozi e attività malindine, andrà in beneficenza alla Onlus Karibuni per la costruzione del pozzo nella scuola elementare di Gede. Per partecipare al Mercante in fiera più originale dell'anno è sufficiente prendere parte alla cena, alle 20.30. Si consiglia di prenotare, telefonando allo 0733/809963.

martedì 22 dicembre 2009

IL CALCIO DOVREBBE ESSERE PASSIONE (da www.gigicagni.it)


C’è un termine che oggi non viene usato,o quantomeno usato poco, è: “PASSIONE”. In tutti gli ambiti lavorativi difficilmente si vedono persone trasmettere con i propri occhi il piacere e la voglia di comunicare il desiderio di migliorarsi per ottenere il massimo nella propria attività. E’ il mio cruccio di oggi, e la colpa è del sistema che si è instaurato nell’era moderna e cioè: tutto deve essere fatto in fretta per ottenere il massimo subito, senza costruire basi solide per la durata nel tempo visto che, sembra, il domani non interessi a nessuno. Poi, però, ti capita di conoscere in Kenya un personaggio come Freddie che quando parli di calcio e soprattutto di Genoa si illumina e sprizza passione da tutti i pori. A Malindi ha costituito un Genoa Club e ha scritto un libro (clicca sull’immagine se vuoi maggiori info o per acquistarlo) che accomuna il continente africano al Genoa. Sta anche istituendo una scuola calcio per fare appassionare al calcio italiano i bambini del luogo, perché loro seguono il calcio inglese e quindi le squadre britanniche. Se vi capiterà di leggere il suo libro (Genoa club Malindi cronaca di una stagione indimenticabile dall’africa all’europa) capirete il motivo per cui ho accennato a questo episodio sul mio blog che dovrebbe parlare di tecnica e di tattica. Penso che chi ama il calcio come me ne avrà capito il motivo e cioè, se parli con persone che vivono a 8000 km dall’Italia e che anni fa quando non era ancora arrivato il satellite avevano una radio militare per sentire le cronache delle gare riunendosi in una casa per fare il tifo alla propria squadra,sfottò compresi, non si riesce a comprendere perché chi ha la possibilità di viverlo in diretta sta cercando di renderlo sempre meno appassionante, più egoistico e strumentale. Senza PASSIONE ne abbiamo voglia di parlare di tattica e tecnica! Se è il denaro lo scopo principale, difficilmente ci si può migliorare, perché l’ obiettivo principale è il guadagno e non la programmazione di un futuro che ci possa permettere di GODERE di questo splendido sport. Fortunatamente la storia ci ha insegnato che è sempre questione di cicli,basta avere pazienza e continuare a trasmettere con le proprie azioni, conoscenza e passione e tutto tornerà ad essere godibile come lo era. Il mio non è pessimismo, anzi, al contrario, ho la convinzione,visto i risultati che stiamo ottenendo, che sarà inevitabile tornare all’essenza dei valori che hanno portato il calcio ad essere il gioco più amato nel mondo.

Gigi Cagni

lunedì 21 dicembre 2009

LA ZAMPA, LA NUVOLA E LA SFIGA DELL'AFRICA

Nonno Kazungu sedeva all’ombra del grande baobab, quello che da cento generazioni ascolta le storie del villaggio e non hai mai sentito una bugia. Qui il vento raccoglie le menzogne all’istante e le mescola alla polvere della grande strada argillosa. Restano basse, terrene come le vere miserie umane, che sono più misere del piatto di polenta e fagioli del lunedì. Solo le parole umili e sincere raggiungeranno le nuvole. Per quelle non ci vuole un gran vento, basta un leggero soffio.

“Hanno rinviato la partita del Genoa, Kazungu. E’ saltata la vendita per beneficenza del mio libro che avrebbe aiutato i bambini della scuola calcio rossoblu di Gede”
La smorfia del nonno era allo stesso tempo un punto di domanda di rughe e un’imprecazione di sorriso.
“Perché l’hanno rinviata?”
“Per il ghiaccio”
“Mah…qua al massimo per il ghiaccio l’uomo bianco si prende una cagarella, quando si beve una caipirinha”
“Eh, lo so Kazungu, ma nei giorni scorsi, come dice Kitsao, il Dio dell’Italia aveva la forfora”
“Troppi pensieri…”
“Comunque niente partita, e niente fondi per iniziare la costruzione del pozzo per l’acqua”
“E senza pozzo, niente acqua per il cemento, l’erba del prato…”
“E senza cemento, niente spogliatoio con le docce, che poi avranno anche loro bisogno dell’acqua”
“La solita sfiga dell’Africa”
“Sì, ma la sfiga dell’Africa non è quasi mai casuale, spesso c’è dietro la mano dell’uomo. Intendiamoci, quella mano può essere bianca o nera. Ma resta una mano, non è una zampa o una nuvola”.
“Hai ragione Kazungu. Peccato, però. Era tutto pronto, la società aveva appoggiato l’iniziativa (poi magari un giorno darà anche dei soldi veri…) e l’altoparlante dello stadio avrebbe diffuso un comunicato a più riprese, i volontari dei Grifoni in Rete erano già organizzati…”
“L’Africa è abituata a perdere i treni. E dire che ne passano così pochi…ma ha sempre la pazienza di aspettare una nuova occasione, una nuova zampata!”
“L’occasione arriverà, mio caro nonno, ma sarà certo minore. A Natale tanta gente avrebbe comperato il libro come regalo, se la faremo contro il Catania o più avanti, non potremo contare su questo effetto”
“Certo…per fare delle cose buone ci vuole sempre una scusa…altrimenti non ne abbiamo il coraggio”
“E’ così. Però per iniziare basterebbe che tutti quei tifosi che hanno ringraziato la Prefettura per il rinvio della partita, perché avevamo i giocatori stanchi e infortunati, o perché c’era la neve ci avrebbero messo due ore in più ad arrivare allo stadio, comprassero una copia del libro. Sarebbe già una buona partenza per noi”.

Io invece ho dei ringraziamenti veri da fare. E sono quelli ai fratelli dei Grifoni in Rete che, coordinati da Pato, con il presidente Ski, Giovanna e tutti gli altri, si erano già organizzati, sotto un freddo che nonno Kazungu nemmeno si sogna, per vendere il libro all’interno dello stadio con il solo intento di aiutare un amico lontano a fare qualcosa di buono e di rossoblu per un po’ di bimbi in Kenya. Un treno di ghiaccio se n’è andato senza di noi, ma avremo tante altre occasioni per vincere le nostre sfide alla miseria e all’indifferenza, con una zampata o un soffio di nuvola. Grazie fratelli, buone feste!

sabato 19 dicembre 2009

UNA SCUOLA CALCIO ROSSOBLU IN KENYA. LIBRI IN VENDITA PER FINANZIARLA


DOMENICA 20 DICEMBRE PER GENOA-BARI VENDITA BENEFICA DEL LIBRO “GENOA CLUB MALINDI”. IL RICAVATO ANDRA’ ALLA ONLUS
KARIBUNI PER UN PROGETTO DI CALCIO E SOLIDARIETA’ IN KENYA
LA SOCIETA’ GENOA SOSTIENE IL PROGETTO, NATO DAL BEL LIBRO DI FREDDIE DEL CURATOLO, SCRITTORE GENOANO CHE VIVE A MALINDI E SI OCCUPERA’ PERSONALMENTE DELLA SCUOLA CALCIO


Uno scrittore che vive in Kenya, in mezzo a una realtà povera e piena di problemi, un’associazione Onlus che da anni lavora per migliorare le condizioni di vita a migliaia di bambini, una società calcistica che decide di collaborare per dare una speranza a molti di loro attraverso il giuoco del calcio, che li può educare, togliere dalla strada e invogliare allo studio.
Nasce così il progetto della Scuola Calcio Genoa a Gede, vicino a Malindi.
Un progetto che ha iniziato a sostenersi con la vendita di un libro molto appassionato e decisamente genoano: “Genoa Club Malindi”, in cui si raccontano le vicissitudini dei grifoni d’Africa e la vita di tanta povera gente che si avvicina al calcio e al mondo rossoblu, i cui valori ricordano tanto la storia della squadra più antica d’Italia e il cui amore dei tifosi rimanda a un sentimento profondo ed eterno come il “mal d’Africa”.
Domenica 20 dicembre, in occasione della partita di campionato Genoa-Bari, fuori dallo stadio Luigi Ferraris la Karibuni Onlus, attraverso tanti tifosi che si sono offerti volontari, appronterà banchetti con la vendita del libro, edito dalla casa editrice genovese “Liberodiscrivere”, il cui ricavato andrà interamente a finanziare il progetto, che prevede il rifacimento di un campo da calcio in una scuola elementare vicino a Malindi, la costruzione di uno spogliatoio con docce e servizi, di un’aula per le lezioni di sport, una recinzione e il pozzo per l’acqua. Queste le basi per la scuola calcio, che il Genoa Cfc aiuterà nel suo sviluppo. Per il primo anno saranno scelti 25 bambini tra i nove e i dodici anni, in base anche al rendimento scolastico, e verranno portati alla fine del ciclo scolastico (in Kenya le elementari durano 8 anni) con la possibilità di avere borse di studio grazie anche agli allenamenti e all’inserimento nella scuola calcio. Anche i tifosi potranno interagire, aiutando direttamente i ragazzi con le adozioni a distanza tramite Karibuni Onlus. (informazioni su www.karibuni.org). Si tratta della prima iniziativa “no profit” di questo genere da parte di una società calcistica in Italia.
E come sempre, i primi siamo noi genoani!


ACQUISTATE UN LIBRO O REGALATELO PER NATALE! AVRETE FATTO UNA PICCOLA GRANDE AZIONE
TUTTA ROSSOBLU PER AIUTARE I BAMBINI KENIOTI.

venerdì 18 dicembre 2009

ARTIGIANO DI PAROLE: TRE RECENSIONI PER TRE FRATELLI


Quando un fratello ha un figlio, specie se è il primo, è un giorno in cui la gioia ha la precedenza su tutto il resto. Ci vuole un po’ di tempo prima di metabolizzare e guardare tuo nipote con occhio critico, distaccato, imparziale. A volte non ci si riesce mai.
La stessa cosa è accaduta per il disco d’esordio di un fratellino che oltretutto è stato missato, prodotto, e per buona parte arrangiato e suonato da un fratellone. Mai potrò essere obbiettivo e lanciarmi in un singolo, neutrale giudizio.
Così meglio essere doppio, anzi triplo.
Perché in tre siamo.
Tre fratelli.

RECENSIONE PER PIERETTO

“L’ARTIGIANO INQUIETO SOSPESO TRA RABBIA E POESIA”

Quando pensi a un artigiano, pensi a uno di quei mestieri quasi dimenticati dall’uomo moderno.
Al mestiere, alla pazienza, all’arte al servizio della quotidiana lotta per il pane, all’umiltà, alla semplicità e alla sincerità della vendita al minuto, alla cura dei particolari, al rispetto delle tradizioni o dell’idea primordiale. Se un cantautore si definisce “Artigiano di parole”, lo farà con la presunzione di chi vuole chiamarsi fuori dalle elette schiere e staccarsi preventivamente le etichette su vestiti finto consunti? Oppure cavalcherà mode “vintage” recuperando suoni e stilemi dei decenni scorsi? O ancora, ci dirà qualcosa contro la mercificazione, la globalizzazione della canzone, sia pure quella d’autore?
Niente di tutto questo, “Artigiano di parole” è un esordio discografico puro e vivo come uno scalpello che incide sul legno, netto e arrabbiato come un martello che batte sul ferro. Morbido e avvolgente nei suoi momenti intimisti come mano che intaglia, ruvido e spietato nelle esplosioni rock a guisa di arnese da fabbro.
Puro e vivo, perché trasuda dell’energia dell’autore, il brianzolo Paolo Pieretto. Trent’anni, da una decina convinto che la musica sia la sua bottega, schietto e sofferto come chi ha fatto l’operaio per pagarsi la vita da cantautore, mica cazzate da biografie di X Factor. E allora ben vengano sette, otto anni per scrivere le canzoni (ma è solo l’arco temporale, spesso sono uscite di getto e “buona la prima”), ben vengano trentasei mesi perché queste diventino album. Perché di un artigiano si valuta l’oggetto finito, non il tempo impiegato o gli strumenti utilizzati.
Il viaggio incomincia con l’invito di “Sei veramente pronto?”, rockeggiante ballata generazionale che attraverso una domanda che ha già in sé la risposta (negativa) analizza l’indolenza dei giovani di oggi, l’incapacità di lottare per un ideale. Ed è una sorta di legenda del disco, perché Pieretto, con questa rara commistione tra candore e cinismo, tra rafano e miele, ci porta attraverso sentieri di campagna che rincorrono storie anche infantili, sogni germogliati di dentro e sublimati in ambizioni, stile di vita, aneliti di libertà, pensieri ricorrenti divenuti prese di posizione nette e violente. Accade in “Supermarket Italia”, brano datato ma mai fuori moda (purtroppo), in cui si scava nelle radici del razzismo italiano, chiamando in causa paure ancestrali e il mai risolto conflitto d’interessi tra peccato e assoluzione che regola la morale cattolica nel nostro Paese. Di questa insofferenza ci sono tracce anche in “A un metro dalle nuvole”, dove l’intimità e la poesia trovano improvvisi lampi di nichilismo e squarci anticlericali (“sotto le tombe dei papi e i loro ori/dio che possano bruciare con tutti quanti i loro dei/per altri mille giubilei”).
L’artigiano vive di inquietudini, senza queste il suo mestiere non si rivelerebbe con gusto e musicalità. Di questa serena e propositiva rassegnazione è fatta “Stanotte”, che invita a riappropriarsi almeno dei sogni, e di sentimenti genuini vive la politica, dell’impossibilità di non farsi domande la sospesa suite “I nostri piccoli passi” per tornare “A un metro dalle nuvole”, che meglio di ogni altro quadro esprime il pensiero dell’autore, con un verso che il più grande Artigiano di tutti, Léo Ferré avrebbe amato con un sorriso (“…gli anarchici sono come i miei capelli/sempre di meno sempre più ribelli/sarà che sono rimasti gli ultimi/ma mi sembrano i più belli/ma mi sembrano i più veri…”) . Oltre al divertimento di “Bambino disobbediente”, che sembra spostare leggermente il tiro ma svela anche il lato ironico di Pieretto, altrove coperto dallo spirito “contro”, ci sono anche episodi minori, forse ingenui o mai ritoccati per troppo amore (Luna Brigante). Ma per un artigiano le canzoni sono figli, e vanno cresciute nel rispetto della propria somiglianza. Guai a imbastardirle. In un esordio discografico si può perdonare qualche caduta di stile, qualche licenza grammaticale di troppo e un linguaggio non sempre omogeneo. L’importante è come Paolo porge le sue creazioni. Senza la supponenza che mostrano oggi molti di quei rari, auto referenziati “artigiani” che si ritengono fenomeni “di nicchia”, ma con la naturale schiettezza di chi racconta di sé e delle proprie sconfitte interiori, per raccontare quelle della gente comune e chiamare a sé, con l’immenso bisogno di accettazione e identificazione, chi condivide lo stesso suo amore per la vita. Di questo amore, profondo e senza limiti per la canzone e per chi a lui ha dato affetto incondizionato, Paolo ci fa partecipi e ci emoziona nella “ghost track” che da il titolo all’intero lavoro. Senza la presunzione di recensori seriali o primedonne della penna, privi della saggezza e della coscienza di un padre, ma avendo conosciuto l’artigiano per quello che è, possiamo dare per certo che mamma Gianna sarebbe stata fiera di questo album, almeno quanto lo era del grande cuore del suo piccolo Artigiano di Parole.


RECENSIONE PER CUFONE

“L’EQUILIBRIO E IL PIACERE DI UN ALBUM SENZA TEMPO… NE’ TEMPI”

Franco Cufone. Sound Engineer, musicista, arrangiatore e ora anche produttore. Mago degli editing, con decine di album all’attivo, ha missato tra gli altri Pitura Freska ed Elio e le storie tese, più un novero di artisti minori e di gruppi jazz e fusion, piuttosto che dance e post-punk. Così è perché Cufone si nutre di musica a 360 gradi e cerca di assorbire il buono da ogni genere e proposta. Finalmente con “Artigiano di Parole” questo versatile e imprescindibile “regista” della discografia, artista aggiunto dietro le quinte, si mette in mostra con un lavoro che, grazie anche a Paolo Pieretto, gli somiglia molto. Semplice ma non banale, discreto ma non dimesso, cantautorale ma non di nicchia, rock raffinato ma mai snob. Fondamentalmente un lavoro onesto, dal grande cuore e per nulla invadente, ma affatto anonimo. Marchio di fabbrica, l’editing all’inglese (ma poco pop) che tiene la voce poco più che allo stesso livello degli altri strumenti. Voce che esce nelle ballate lente e che, per chi è abituato alla musica italiana, affoga un po’ tra maree di chitarre e il pienone della sezione ritmica. Il lavoro di Cufone è comunque immenso e fondamentale per “Artigiano di parole”, disco che senza di lui non sarebbe mai uscito in questi termini e con tali risultati.
Peccato per la traccia iniziale, “Sei veramente pronto?” che è un’occasione non persa ma buttata un po’ lì. Il pezzo c’è, la vocalità di Pieretto è al massimo delle sue possibilità, ma l’arrangiamento non cresce e passi per il primo ritornello, nemmeno il secondo lo lancia. Sarebbe bastata una costruzione ritmica diversa, un fender rhodes o comunque un tappeto glorioso di tastiere. Oppure, diversamente, un’esplosione di metallo nelle chitarre. Il brano, che ha un forte potere emotivo, finisce come è iniziato e risulta un po’ piatto. Un’intuizione alla Carlo U. Rossi (l’arrangiatore degli archi di Viva la Vida dei Coldplay) non era sgradita. Il pelo nell’uovo, tuttavia, è proprio all’inizio, poi l’album si snoda tra episodi decisamente ben strutturati (“Echi di luna”, “I nostri piccoli passi”) e arrangiamenti compositi su cui si è osato ma, a mio avviso, non abbastanza (“Supermarket Italia”, “Stanotte”, dove il cantato rimane un po’ a se e quello “Stanotte U. Stanotte” provoca un ingenuo sorriso, sotto il tappetino rock così leggero). C’è da dire che Franco U. Cufone non ha scelto personalmente tutti i musicisti (però si è affidato al solito grande Jantoman per certi fronzoli) e non è colpa sua se a volte la sezione ritmica non è all’altezza della scrittura musicale (con tutto l’amore possibile per Davide U. Livio, contrabbassista reggae di chiara fame), così come non sempre la voce di Pieretto è all’altezza delle evocative atmosfere nelle suite dove c’è raffinatezza a pacchi.
In definitiva, comunque, un bel lavoro e soprattutto un album partorito nei tempi consoni a far rendere in maniera ottimale il buon Cufone l’Africano. Un lavoro finalmente anche suo e portato a termine con gioia, orgoglio e voglia di trasmettere qualcosa, anche solo con uno strumento al posto giusto o un “vestito” musicale particolare. In questo Cufone è un vero “Artigiano del suono”.



RECENSIONE PER FREDDIE

“UN ALBUM CHE ANNUVOLISCE DI SGUINCIO TRA I CHIARISCURI”


Partiamo dai testi, che poi è il mio mestiere. Innanzitutto le scarpe non si indossano, ma si calzano. Capisco la licenza poetica, capisco l’amore per i folk singer americani (per loro è normale dire “dress the shoes”, magari “blue” and “suede”, ma quelli avevano Toro Seduto, bellissima persona, per carità, duro e puro, quando da noi Dante era già antiquato) ma per uno che ritiene più importante la marca dei suoi stivali che quella della chitarra, pare il minimo che conosca anche il verbo che se li gestisce. Peccato, perché “I nostri piccoli passi” ha un’atmosfera dolce e coinvolgente, squarciata però da domande che non solo non fregano un cazzo a nessuno (“Quanto distano le stelle più vicine dalle scarpe che indosso”), ma quasi fanno rimpiangere Marzullo perché non sono capaci di darsi una risposta (“Non lo so”) però ci rassicurano con un calcolo quasi matematico (“Certamente molto più della somma dei passi che ogni uomo in una vita muoverà”). Grazie, Pieretto per queste grandi verità, ne avevamo proprio bisogno in tempi balordi come i nostri. Speriamo che in un secondo, in un terzo album tu ci possa regalare altre inconfutabili verità. Posso suggerire “Quanto costano le case a Fiumicino/dalla spiaggia fino al fosso/certamente molto più dei biglietti degli aerei che ogni uomo in una vita comprerà”. Magari il calcolo è anche più interessante…
Passiamo agli errori veri e propri, che nessuna licenza poetica e nemmeno una licenza di caccia per sparare fucilate alla grammatica italiana possono cancellare: il plurale di “chiaroscuro” è indiscutibilmente “chiaroscuri” e non “chiariscuri”. Per carità, la cultura e le basi della lingua italiana sono un optional, ormai. Da ignoranti si può fare carriera politica, si può diventare giornalisti, imprenditori, attori. Evidentemente anche cantautori. E ci sono anche ignoranti che mi emozionano. Però quel che non sopporto è la presunzione (di chi si crede migliore di me) di poter fare a meno delle regole della nostra lingua e poi pretende di criticare un testo di De Gregori o le sospensioni di Vasco. Prima dell’incisione dell’album, avevo già fatto notare questo strafalcione a Pieretto, ma lui col candore tipico di chi ha saldato parti meccaniche per sei ore e può permettersi di mandarti a quel paese, mi spiegò che a quei testi era affezionato e non li avrebbe cambiati per niente al mondo. Le sue canzoni nascono da sole e vengono fuori già con le parole. Già, le sue canzoni son come i fiori nascon da sole son come i sogni. Infatti esistono anche i brutti incubi e i fiori che odorano di merda.
Ma attenzione, pur facendosi beffe della grammatica italiana e sciorinando versi come un ungherese approdato a Lecce durante la seconda guerra mondiale, il metalmeccanico di parole ci regala addirittura un neologismo, che (ma guarda l’umiltà…) mette però tra virgolette. (Quand’ero sole “annuvolivo” per la paura di apparir sereno).
Ma che bella forma verbale! Peccato che esista già un verbo che esprime questo concetto, che è anche riflessivo e ci sta bene in metrica: rannuvolare. E non c’è bisogno di usare il pronome, quindi “Quand’ero sole rannuvolavo” sarebbe stato perfetto. Però, quant’è bello inventare parole, e poi la canzone è nata così, mentre cantava in uno spiazzo antistante la cooperativa di Cernusco Lombardone…quindi…d’altronde se Bob Dylan “down in the street beside the Duluth general store” avesse scritto “When i was sun, i inclouded myself” oggi saremmo tutti lì a cantarla, soffiando su sbilenche armoniche e aggiustandoci la tesa del panama.
Ah, che bello essere un “hobo” di Paese…
Per il resto, a parte il fatto che mi piacerebbe vedere una lacrima in salita (“Di notte ci inseguiamo come lacrime in discesa”) magari vincere il Gran Premio della Montagna, voglio tranquillizzare il ragazzo: è da qualche anno che un’idea non spaventa più nemmeno un bambino del Darfur e chiunque sarebbe pronto a dimostrare al Neil Young di Casatenovo che un pugno in pieno viso fa più male di qualsivoglia pensiero espresso, o anche con la moka. “Perché un’idea” è un testo che poteva apparire superato anche se scritto nel 1969 e magari Bennato, il Re dei luoghi comuni e idolo nostrano del tornitore di parole, ci avrebbe marciato benino fino a metà dei Settanta. (“Perché un’idea fa più paura di una guerra sanguinaria…”).
Va bene il disco d’esordio, va bene riesumare brani scritti schiacciando gli ultimi brufoli della pubertà, ma metterli su disco e pretendere di farli ascoltare agli amici…Per fortuna che tutto si appiana, che il cuore torna ai suoi battiti regolari quando appare una luna “di sguincio”. Ah, ecco! Allora sì che siamo in mezzo alla Poesia…una bella luna brianzola di sguincio ci mancava. (“Luna di sguincio, luna che dormi”). Peccato non ci sia anche una stella balenga, un ciful di vento, un caldo dell’ostia e un cielo del menga…
Sembra che dovremo attenderci un secondo disco, perché l’artigiano scrive, scrive, scrive…con eroica propensione alla strage d’innocenti. Allora non è vero che “gli eroi son tutti morti”. No, infatti non è vero. C’è n’è uno in circolazione a cui auguriamo una lunga e serena esistenza.
E’ la compagna del Pieretto, persona adorabile e saggia che deve sorbirsi probabilmente un giorno su due una nuova composizione sgrammaticata, zeppa di neologismi e di idee che vanno oltre i divieti delle leggi e i silenzi dei giornali. Fino a quando, perché come la pazienza anche l’eroismo ha un limite, lo prenderà per mano e gli sussurrerà soavemente: “Vieni Paolo, vestiamoci di stelle, andiamo ad ammirare una luna di sguincio, lasciamo un sasso ad ogni minimo passaggio e restiamo a guardare il cielo riflesso nei nostri occhi al cielo. Però, mi raccomando, lascia stare la chitarra e per una volta trombami, santo Iddio!”

mercoledì 16 dicembre 2009

COSI’ FAN TUTTI: DIECI ANNI DI MUSICA


Non è soltanto la televisione, né l’eco da balera di chi, aggiustandosi il papillon e sfoderando un sorriso largo come l’apertura alare di Gianni Morandi e profondo come la scollatura di Sandra Milo, evocava i “favolosi anni Sessanta" e poi gli anni di piombo, gli edonisti anni Ottanta, il declino dei Novanta… non è l’unico motivo per cui anch’io mi sottopongo al giochino di fine 2009.
Ora tocca riavvolgere il nastro del primo decennio targato duemila, tanto per archiviare un nuovo file, perché di questo (e di jpg, e di mp3 e di filmati su youtube) è ora piena la nostra vita. Meglio catalogarla, suddividerla, frazionarla, creare sottocartelle sottocutanee…tanto per non rendere il ricordo dissimile dal presente.
E allora eccoci: pronte le classifiche di Freddie!

I DIECI DISCHI CHE MI HANNO EMOZIONATO, DIVERTITO, RILASSATO, IMPEGNATO, MODERATO, ESALTATO, AMMANSITO E TRASPORTATO DI PIU’ TRA QUELLI CHE MI VENGONO IN MENTE PER PRIMI:

STRANIERI:

Fiona Apple: “When the pawn”
Eric Burdon: “Soul of a man”
Nick Cave: “No more shall we part”
Mark Knopfler: “Shangrila”
Aimee Mann: “Lost in space”
John Mellencamp: “Life, death, love and freedom”
Steely Dan: “Everything must go”
Yusuf: “Another Cup”
Michael Franti & Spearhead: “Everyone deserves music”
Amy Winehouse: “Back to black”

ITALIANI:

Giorgio Gaber: “La mia generazione ha perso”
Bobo Rondelli: “Per amor del cielo”
Ivano Fossati: “Lampo viaggiatore”
Stefano Barotti: “Gli ospiti”
Daniele Silvestri: “Unò duè”
Vinicio Capossela: “Da solo”
Macina e Gang: “Nel tempo e oltre cantando”
Massimo Ranieri: “Oggi o dimane”
Bobo Rondelli: “Disperati intellettuali ubriaconi”
Jannacci Enzo: “L’uomo a metà”

Prego, i vostri…o i miei se credete me ne sia dimenticato qualcuno!
Anzi…vi frego citandovi altri artisti che mi hanno lasciato qualcosa: Anthony & The Johnson, Sodastream, India.Arie, Corinne Bailey Rae, Dave Matthews Band (per “Busted Stuff”), Mario Biondi (ora per la splendida versione di “Winter in America” di Gil Scott Heron), Donald Fagen (“Morph the cat”), qualcosa dei Macaco, Buddy Guy, James Taylor e…tanto se me ne viene in mente un altro modifico il post!

Non resta che augurarmi e augurarvi altri dieci anni di buona musica.
Che sia la colonna sonora di una buona vita.

mercoledì 9 dicembre 2009

CHE CINEMA, MALINDI !

Che Malindi sia il set ideale per ogni film non è un mistero. Non soltanto quelli che sono stati girati in passato e che potrebbero essere ambientati qui in futuro, ma anche quelli quotidiani che sfilano sotto gli occhi di noi tutti, le incredibili sceneggiature fornite da chi ci vive e si imbatte in storie che altrove potrebbero sembrare inverosimili. Altro che Bollywood, in questi film esotici c’è proprio di tutto: amore, mistero, abbandono, imprese eroiche e vili bassezze, piccoli grandi gesti quotidiani e storie fantastiche. Per non parlare dei dialoghi: lungometraggi che iniziano in kiswahili e finiscono in bergamasco, oppure documentari in inglese sottotitolato in inglese per far capire qualcosa anche agli inglesi stessi.
Insomma, che stupenda e infinita pellicola è la nostra cittadina. Proprio per questo meriterebbe un Festival del Cinema come altre località turistiche famose, come Cannes e Venezia. E per il premio, noi di statuette (d’ebano) ne abbiamo quante ne volete!
Eccovi allora in anteprima le nomination del Festival del Cinema di Malindi!

BALLANDO SOTTO LE ASCELLE
(Genere: Fantastico – Regia di Frank Mbuzi)
Un’appassionante e romantica favola metaforica sull’amore e sull’integrazione degli italiani a Malindi. E’ la storia di un pensionato italiano, Geremia, alto più o meno come il Ministro Brunetta, che s’invaghisce di una ragazza masai e la asseconda nella sua passione principale, che è il ballo nelle discoteche locali, dopo le due del mattino. Il povero vecchietto, pur di non lasciare la sua conquista da sola, si lancia ogni sera in pista, tra corpi che sudano e si strofinano e soprattutto guardando tutti all’altezza delle ascelle. Con l’attività motoria e il caldo, viene rapito da effluvi intensi d’Africa che in breve tempo diventeranno una sorta di droga e lo trasformeranno. Fino a quando, una mattina, si risveglierà completamente negro e fiero di esserlo…Commovente la scena dell’incontro con il suo compaesano sulla spiaggia, che abbracciandolo (in ginocchio) gli sussurra “Ora nessuno riderà più di te soltanto perché sei un nano!”

ULTIMO MANGO A MALINDI
(Genere: commedia – Regia di Nani Morettoni)
Durante la stagione delle piccole piogge, non si trovano più manghi. Una disdetta per il giovane Kaingu detto Giancesare che vuole conquistare la bella mzungu Caterina che ne è ghiotta. Quando finalmente, dopo innumerevoli ricerche, ne troverà uno grande e bellissimo, il perfido beach-boy Mwangolo detto Pierferdinando glielo ruba scappando in tuk-tuk. Dopo un inseguimento per tutta Malindi, il lieto fine. Kaingu detto Giancesare riuscirà a portare il mango, un po’ ammaccato per il vero, alla sua Caterina che però nell’attesa ha già divorato dieci papaie e non può giacere con il suo amato per via di una dissenteria fulminante. Indimenticabile la scena cult d’amore del rapporto contro natura con il Blue Band.

TRE UOMINI E UNA SHAMBA
(Genere: Grottesco – Regia di Alcool, Chapati e Charcoal)
Un classico di Malindi. Un italiano acquista un bel terreno a Mayungu per costruirci un residence a quattro stelle. Paga un prezzo d’occasione e riceve il suo titolo di proprietà. Ma quando si reca sul posto, trova già un muro di recinzione di corallo. L’ha eretto un altro italiano, che (dopo liti furiose e urla che coprono le reciproche ragioni) si scopre avere lo stesso title-deed intestato a quel terreno. Nasce una disputa tra di loro e tra i loro avvocati Omanji e Obevi, fino a che si rendono conto che in realtà chi ha fregato entrambi è l’ex proprietario del terreno, un ricco commerciante di origine araba. I due italiani decidono allora di allearsi, riuniscono gli avvocati Omanji e Obevi e si rendono conto anche che i due legulei hanno lo studio in comune. Tornano con loro nel terreno di Mayungu e scoprono che un terzo italiano nel frattempo vi ha già costruito una casa…il finale non ve lo raccontiamo ma potrebbe essere: 1. I due bloccano i lavori del terzo e (dopo liti furiose e urla che coprono le reciproche ragioni) scoprono che anche lui ha un titolo di proprietà intestato a quel terreno. Nasce una disputa tra di loro e i loro avvocati fino a che si rendono conto che in realtà chi ha fregato tutti e tre è sempre lo stesso ricco commerciante di origine araba. 2. Cercano di spiegare al nuovo inquilino che in realtà quel terreno è diviso in tre e provano inutilmente a vendergli le loro quote. 3. Presi dalla disperazione i due italiani occupano la casa e decidono che per una questione di principio rimarranno lì dentro fino a che i loro avvocati non verranno a capo della cosa. Il film prevede ovviamente un seguito: “Così è la vita in Kenya”.


FUGA DA ALRAZAK
(Genere: azione – Regia di Takeshi Katana)
Un’agguerrita coppietta di pensionati, Silverio e Robinia, che alloggiano in un appartamentino sul mare di 17 metri quadrati e vivono con la minima, accumulano debiti di gioco frequentando la cooperativa dei pescatori locali e sfidandoli a bao, una specie di dama locale. Sono sul lastrico, ipotecano l’appartamentino e tentano anche il suicidio, ingerendo dieci mandaazi a testa acquistati in un chiosco del centro con gli ultimi cinquanta scellini rimasti. Quando nella disperazione comunicano all’houseboy Vincenzino che sono costretti a licenziarlo, questi espone loro un piano diabolico. Vendendo il monoloculo sul mare e intascando il poco che rimane, saldati i debiti, possono prendere in affitto una stanza proprio sopra a un noto negozio di telefonini ed elettrodomestici di Malindi. Da lì, con pazienza si potrà progettare il colpo del secolo, perché in Kenya i piccoli negozi non hanno sistemi d’allarme. Con il bottino della refurtiva i due potranno ricominciare da capo costruendosi una capanna a Matsangoni, villaggio natale di Vincenzino, a pochi chilometri dal mare. E giocando a bao usando i fagioli al posto dei soldi…come finirà il colpo?


L’ULTIMO IMPRENDITORE
(Genere: Epico – Regia di Bernardo Bertucce)
Un capolavoro della cinematografia malindina. E’ la storia di un predestinato. In Italia, in provincia di Brescia, Furio Ghiriami faceva tutt’altro: rappresentante di calzature. Ma un giorno, per caso, si imbatte in un piccolo incidente stradale. Il facoltoso signore coinvolto nell’incidente è imbestialito perché scendendo dall’auto si è rovinato le scarpe. Stava per partecipare al Consiglio di Amministrazione di un’importante azienda, così Furio Ghiriami non ci pensa due volte ed estrae un campionario delle sue calzature. Fortuna vuole che Furio abbia il 42, numero del ricco uomo d’affari che non sa come ringraziarlo. “Mi ha salvato da una situazione imbarazzante, mi chiami, le farò una sorpresa”. Dopo due giorni Furio, incuriosito, chiama l’uomo d’affari e lui gli promette una vacanza in Kenya nel resort che ha appena acquistato. Così Furio si reca a Malindi e scopre il paradiso terrestre. “Vuoi fare il mio uomo di fiducia qui?” gli chiede il ricco signore. “Con vero piacere” risponde Furio. Il vivace bresciano s’innamora di una procace studentessa locale e le paga volentieri l’università, nel frattempo s’intrattiene anche con una segretaria d’azienda e un’operatrice turistica. Fino a quando i soldi dello stipendio del suo datore di lavoro non bastano più. Quindi decide di tornare alle origini e di fare le scarpe a tutti i ricchi uomini d’affari di Malindi. Fino a quando sarà lui a costruire il resort più lussuoso e confortevole di tutta la costa. Un palazzo di dodici piani in riva al mare tra Watamu e Kilifi, a forma di stivale. In onore non soltanto al suo Paese natio.

lunedì 7 dicembre 2009

RECENSIONE DI "GENOA CLUB MALINDI" su PianetaGenoa1893


Ci sono libri che ci passano sopra ,come un evento atmosferico. Ci sono libri che, invece, ci cambiano, senza che all'inizio ce ne rendiamo conto: “Genoa club Malindi “ è una di queste letture.
Come definirla? Per fortuna,non è possibile ricondurla ad un unico genere:scorrendone (anzi,divorandone!) le pagine troviamo il saggio,il racconto,la rievocazione autobiografica...insomma,una infinità di spunti,utili alla riflessione.
Per noi che amiamo, viviamo, ci occupiamo di Genoa è un grande onore scoprire l'autore come “uno di noi”. «Non ho inciampato nell'esistenza di un altro uomo o donna - scrive l'autore Freddie Del Curatolo - non ho diviso il destino con un personaggio famoso o con un parente stretto. Fin da ragazzo ho legato gli avvenimenti più belli o più tragici della mia vita con il Genoa o con l'Africa. Non l'ho mica fatto apposta. E' successo così».
Il Genoa e l'Africa; due importanti punti di riferimento. Freddie se li è costruiti a poco a poco; anzi,se li è ritrovati addosso, come una seconda pelle. Paradossalmente, due mondi tanto lontani trovano una insospettabile possibilità di dialogo,al punto che anche i “compagni di viaggio” malindini, coloro che si trovano a condividere la quotidianità, anche attraverso il calcio imparano a considerare gli occidentali in modo diverso.
Per contro, l'immagine di Malindi che emerge da queste narrazioni è infinitamente al di sopra e lontana anni luce dagli stereotipi legati al turismo di massa, al turismo “tutto compreso”, ad un “mal d'Africa” di maniera, poco sentito e molto esibito.
Ci sono immagini che mi piace ricordare,senza svelare nulla dei contenuti molto più articolati: la coppia che, in viaggio di nozze, decide di devolvere il denaro ottenuto in regalo ad un progetto umanitario (al quale aderisce anche il presente volume,con i fondi ricavati dalla vendita, per aiutare l'onlus Karibuni); i volontari che si battono ogni giorno per migliorare le condizioni di bambini e di giovani altrimenti condannati a vivere e a morire in strada; la soddisfazione provata alla realizzazione di un ospedale in grado di curare la popolazione. Il tutto intervallato dalle vicende personali dell'autore,dalle partite del Genoa, dalle imprese del Principe Milito, dalle gioie e dalla trepidazioni che il gioco del calcio regala a chi lo vuole vivere sino in fondo,in modo autentico e non opportunistico.
Un racconto emozionante, imprevedibile, che ha il pregio di mostrarci una realtà (l'Africa) da un altro, inconsueto punto di vista, più di quanto potrebbero fare mille discorsi sulla prospettiva interculturale. Ai miei occhi,”Genoa club Malindi” ha anche un altro,rarissimo pregio: quello di mostrarci come la vita possa essere un'avventura meravigliosa...soprattutto all'ombra del Grifone.
Monica Serravalle
(www.pianetagenoa1893.net)

martedì 1 dicembre 2009

IL RESIDENCE CHE NON C'E'

(parodia de "L'isola che non c'è" di E.Bennato, presentata da Freddie e Cufone nel loro spettacolo maliparodia de "L'isola che non c'è" di E.Bennato, presentata da Freddie e Cufone ieri sera nel loro spettacolo malindino @ Lorenzo Il Magnifico).

Seconda ascella a destra dentro il pulmino
Poi in tuk-tuk fino al parco marino
Poi il sentiero lo trovi da te
Porta al residence che non c’è

Forse questo ti sembrerà strano
Ma a Malindi è un fatto quotidiano
E ora sei quasi convinto che
Chi la preso nel culo sei te

E a pensarci che pazzia
Quell’anticipo ch’è volato via
E chi è esperto di Malindi lo sa
Che quei soldi non li rivedrà

Son d’accordo con voi non esiste avvocato
Che mi dia il title-deed di quel plot
E se non c’è la strada non c’è acqua e corrente
Forse è proprio il residence che non c’è

Ma sarà l’invenzione di un furbastro diventato imprenditore
Se ci credi ti basta perché, chi l’ha preso nel culo sei te

Son d’accordo con voi, niente bagni ne porte
Ma che razza di residence è?
E se non c’è l’askari neanche il tetto in makuti
Questo è proprio il residence che non c’è – che non c’è

Seconda ascella indietro fino a Mombasa
E poi in aereo che si ritorna a casa
Col bruciore didietro perché
T’han venduto il residence che non c’è

E ti prendono in giro se continui a cercarlo
ma puoi darti per vinto perché
chi ti ha abbindolato e ti ride alle spalle
coi tuoi soldi ne ha fatti altri tre!

sabato 28 novembre 2009

FREDDIE E CUFONE SHOW A MALINDI !


Finalmente Freddie e il suo fido scudiero alla chitarra, Franco Cufone, si ritrovano a Malindi e possono offrire un assaggio dello spettacolo che tanto successo ha riscosso in Italia, anche a chi risiede in Kenya e a chi si trova a Malindi e non lo ha ancora visto. L'occasione è data, luned' 30 novembre alle 20.30, dalla presentazione del nuovo libro di Freddie (edito in Italia da Liberodiscrivere) dal titolo "Genoa Club Malindi", una storia di mal d'Africa e di tifo sportivo, che si intrecciano con storie di vita vera e con l'immarcescibile nonno Kazungu, uno dei personaggi più emblematici partoriti dalla penna dello scrittore ironico e calato nella realtà keniota. Sarà l'occasione per ascoltare qualche canzone "mitica", come "Per colpa di un masai", o anche la nuova "Boda Boda" che ha spopolato su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=WxGygOhiY0E) ma anche per divertirsi con le versioni swahili di classici italiani, come "Una rotonda sul mare" che diventa "Moja roundabout baharini" e "Ancora" di De Crescenzo che si trasforma in "Ngine". E ancora brani dello spettacolo "Malindi,Italia" come "L'isola" e "Doctor Livingstone". Chissà, forse qualcuno si ricorderà di uno storico, strampalato complessino che quindici anni fa riempiva i locali col suo rock "alternativo kabisa". Si chiamavano Freddie & The Askaris, e indovinate chi era il cantante e chi il chitarrista... Lunedì 30 novembre, ore 20.30 da Lorenzo Il Magnifico (Mwembe Resort)

venerdì 20 novembre 2009

NONNO KAZUNGU E I NABABBI

“L’unico modo per diventare
milionario a Malindi
è arrivarci miliardario”
(Mzee Eugenio)


Nonno Kazungu era un uomo saggio.
Raramente lo si sentiva lamentarsi.
Con pazienza e il raro dono della programmazione, negli anni si era costruito un benessere che investiva tutto il parentado e che gli regalava una vecchiaia confortevole: capanna di cemento misto fango misto sabbia misto argilla misto merda di vacca, pavimento di cemento misto terra misto paglia mattonelle semisbriciolate che erano avanzate al muzungu, veranda misto radura e toilette mistocagandoaddosso. Poi tetto di makuti rivestito di mabati rivestito a sua volta di makuti (“anche l’estetica vuole la sua parte, ma l’importante è che non piova in casa” era il pensiero del nonno), letto rivestito stracci, guardaroba rivestito polvere e arredamento rivestito nudo. Infine optional come sedie a tre gambe, tavolo a due mani, una mensola a testa e un comodino a parete (la stessa mensola travestita); roba di lusso, che pochi potevano vantare.
I suoi reumatismi erano al sicuro, la notte.
Tutto il suo villaggio godeva della capacità amministrativa del vecchio: staccionate fiorite a delimitare il terreno, pentolame resistente, un orto da fare invidia a un qualsiasi agriturismo padano, una squadra di calcio di caprette (riserve comprese), tre mucche da latte (Federica, Fabiola e Angelina, chiamate così in onore di tre famose muzunghe di Malindi che, si diceva, si erano comperate delle tette nuove in Italia di taglia superiore) e un pozzo, la spesa più cara di tutte, finanziata per metà da due italiani che si erano presi a cuore la sorte del nipotino Ray, nato con una grave malformazione alla cornea ma con un gran talento per la musica.
Dopo averlo fatto curare avevano migliorato il suo habitat naturale.
Un anno dopo avevano deciso di chiederne l’affidamento per farlo studiare in conservatorio del Nord Italia.
Insomma, rispetto a molte altre realtà giriama, a Kakoneni sorgeva un villaggio “borghese”.
“Ma se fossi stato ancora più ricco? - elucubrava Kazungu – con la mia testa e il mio altruismo avrei dotato tutta Kakoneni di tetti di mabati, avrei aperto un locale con la televisione via satellite per seguire il Liverpool e alle sei di sera, col sottofondo di My way, mi sarei bevuto un Mojito preparato col Safari Rum, mi sarei comperato un grosso fuoristrada, anzi un pulmino che Tumaini avrebbe usato per portare i bambini nella migliore scuola di Malindi e mio nipote Kitsao sarebbe diventato un premio Nobel.
Le donne del villaggio farebbero la spesa al new market e potremmo mangiare anche il riso pilao, le braciole di maiale e il sailfish affumicato (lo so, è una debolezza, ma ne vado pazzo, con due cipolle e del pomodoro tritato…l’avete mai provato con la polenta?)”. A Furaha comprerei una tastiera nuova con tutti i tasti, anzi: un’orchestra!
Poi si rabbuiava e pensava che magari con tanti soldi in tasca e in testa, avrebbe potuto anche ammattire.
Darsi alle donne di stradast, drogarsi di whisky kikuyu come il Tremebond 7 o il Simba Mbito e rincoglionirsi con le macchinette del poker.
Insomma, finire come i tanti italiani che aveva conosciuto a Malindi, arrivati bilionari e ripartiti, qualche anno dopo, con le tasche vuote e il sedere pieno.
“Essere troppo ricchi può dare alla testa, si perde il contatto con la realtà e con Madre Natura, non si riesce a valutare quel che è giusto e quel che dovrebbe essere giusto (di sbagliato, grazie a Dio, in Natura c’è solo l’uomo). Essere benestanti porta mille problemi in più, finti amici che ti chiedono prestiti, parenti che propongono affari e investimenti, vicini di casa che ti mostrano il figlio sciancato, la moglie orba, il fratello muto, la zia schizofrenica, il cognato monco, la nonna col Parkinson e il cane con la psoriasi.
Lui piange aiuto e tu gli chiedi:
“Ma solo tu sei normale, in famiglia?”
“Sì…perché?”
“Tieni, prendi questi e scappa!” gli dici, mettendogli in mano i soldi del biglietto per Kisumu.
C’è un antico proverbio keniota che recita: “tanto più rigoglioso sarà il tuo shamba, tanto più crederai che la pioggia mai lo allagherà”.
No, l’eccessiva agiatezza non fa per noi giriama, ma credo che a tutti gli uomini, se non ci nascono, crei dei problemi.
E anche se ci nascono!
Mi ricordo il figlio di uno degli uomini più potenti d’Italia, quello della Juventus. Prese una suite in uno dei più bei villaggi turistici della costa, poi però campeggiava nei tuguri più infimi di Maweni o di Shela in compagnia di spacciatori e altri muzungu strafatti come lui. Ah, tagiri…tagiri”.
“Tajiri” si dice in swahili, quando uno è molto ricco.
Non appena tagiri te la mettono in quel posto - diceva sempre il mio boss”.
Una delle peculiarità degli italiani che sono sbarcati a Malindi, negli ultimi trent’anni, è quella di aver rappresentato tutti i ceti sociali; dal multimiliardario al povero in canna.
Molti sono arrivati all’Equatore con la tessera del benessere, magari dopo aver venduto un’azienda quotata in borsa o riscuotendo gli affitti di intere palazzine in Italia, alcuni ritirano alla Barclays pensioni statali inferiori solo allo stipendio dei ministri a Nairobi, altri hanno speculato con l’edilizia o la compravendita di terreni e oggi si possono permettere una vita agiata all’occidentale: villa con piscina, almeno dieci persone di servitù, chef di livello, attività in perdita per far vedere che te lo puoi permettere. Questi sono gli status dell’italiano sulla costa keniota.
Ma in Kenya non ci sono solo i ricchi. Nel tempo sono sbarcati tanti uomini piccoli. Sono coloro che hanno intravisto in questo angolo di paradiso la possibilità di riscattare una vita grigia, una mediocrità più o meno felice e meritata in Italia.
La parola “nababbo”, deriva dall’arabo nawab e si riferisce ai governatori mussulmani in India. I primi erano proconsoli mandati in avanscoperta che si autoproclamavano principi e sultani di quelle lande, sostenendo appunto una vita sfarzosa ai danni delle genti che andavano (a regola) a convertire ed aiutare.
Quante volte si è sentito dire che tanti italiani sulle rive dell’oceano indiano fanno la vita “da nababbi”. Magari c’è anche qualcuno che prende alla lettera l’antico significato della parola ed oltre a riempirsi la giornata di piaceri, aiuta e converte la popolazione indigena.
Non basta più la villa con piscina…che ne dite se nello status ci infiliamo anche un orfanotrofio? Fa tanto eco-chic…
Nonno Kazungu lo ripete spesso ai suoi: anche se non è facile crederci, non esiste un solo tipo di muzungu, le loro risorse non sono infinite e anche la base di partenza può essere diametralmente opposta.
Altrimenti come ci spiegheremmo che c’è chi risiede in faraoniche residenze con ruscelli, cascatelle, saloni immensi old colonial dove prendere il tè e giardini verdi new brianzol in cui perdersi, e allo stesso tempo ci sono connazionali che abitano in miniappartamenti di concezione arabindiana talmente angusti, sporchi e malmessi che perfino gli scarafaggi guardano gli annunci sul Nation per cercarsi un altro posto dove andare ad abitare?
Spesso quest’ultima categoria di persone viene a Malindi proprio perché attratta dalle storie della prima categoria.
In Italia è impensabile che un impiegato di Trenitalia in mobilità possa incontrare in un bar e parlare del più o del meno con l’azionista di maggioranza di una beauty farm che ha ancorato lo yacht a Portofino. A Malindi basta recarsi al Casino, o in un ristorante italiano, per stringere la mano a un vip. Si può fare la corte alla stessa ragazza che la sera prima è uscita a braccetto con il proprietario di un resort da favola e ci si trova su un isolotto di sabbia che affiora al largo di Watamu a giocare a pallavolo con Flavio Briatore e Elisabetta Gregoraci.
Questo sì che è benessere!
Avere una fidanzata bella come Naomi Campbell, una villetta a due passi dal mare col giardino in cui grigliare aragoste, fare una puntata ai tavoli verdi o un safarino ogni tanto con il proprio fuoristrada…quanto può costare un’esistenza del genere?
Poco, rispetto agli standard italiani…se immaginate il prezzo di una villa a Positano, San Teodoro, Forte del Marmi o Santa Margherita Ligure, quello di una escort ucraina bella come Eva Herzigova che vi faccia da fidanzata e il prezzo dei crostacei al mercato del pesce.
In Kenya si può essere ricchi anche se non lo si è.
Quindi è vero che esistono i due tipi d’italiano di cui sopra, il nababbo e l’indoarabizzato. Ma è altrettanto vero che a volte possono essere la stessa persona, che arrivò in Kenya con sogni di grandeur e in poco tempo si è vista costretta a ridimensionare il tutto. Dalla megavilla a un miniloculo, dalla piscina con le cascate a una doccia che perde, dalla sorella di Naomi Campbell alla cugina di Whoopy Goldberg.
Ma si può sempre raccontare la stessa storia a chi vive lontano, in Italia, e riceve cartoline digitali via e-mail che odorano di spiagge esotiche, sole mare, relax e piacere.
Le risposte arrivano puntuali. Ci vorrebbero immagini di freddo, stress, traffico, smog, nebbia, rogne e malinconia a commentarle.
“Quasi quasi vengo a trovarti in Africa, amico mio…”
“Dài, che acquistiamo insieme una villa con piscina!”
“Ma tu non ce l’hai già?”
“…ma ne prendiamo una più grande, no?”
Perché all’Equatore, a differenza del mondo occidentale, si può sempre ricominciare…
E’ una questione di principio.
Principio d’imitazione.

martedì 17 novembre 2009

L'UOMO DEL GALANA RIVER

A me Serse Cosmi ricorda Karisa.
Sarà per quel cappellino della Ken Gen, la società elettrica nazionale, calcato sulla testa tonda e bitorzoluta come fosse quello dei Baltimore Orioles, sarà per la faringe tonante come un subwoofer o chissà per quale altro motivo. Anche perché Karisa di calcio non ha mai capito un accidente.
Oddio, per la vita che fa non è fondamentale. L’entusiasmo che ha è più importante delle sue attitudini, la capacità di convincere gli altri che i suoi metodi sono vincenti è diventata un marchio di fabbrica. Per intenderci, Karisa è uno che sta un pomeriggio al bar senza bere nemmeno una tusker, che non sai se la gente gli è amica, lo rispetta o pensa che sia un coglione.
Il villaggio in cui è nato si appoggia dolcemente su un lento declivio argilloso che va al Galana, il grande fiume della Savana. Durante la stagione delle piogge non ci va solo il declivio, ma anche mezzo villaggio, con i coccodrilli ad attenderlo fiduciosi, come un anniversario di nozze, il ricordo di un banchetto indimenticabile. Ogni volta le capanne vengono ricostruite nello stesso punto, nonostante in Kenya non esista la speculazione edilizia e non si sia ancora rivelato Bertolaso.
E’ che gli altri spazi sono occupati dai campi coltivati. Mais, pomodori e spinaci sono la vita di ogni giorno, quindi ben più importanti della morte di un giorno all’anno. Così, tanti anni fa, se n’è andato anche il padre di Karisa. Lui passava ore sul fiume a pensare a cosa avrebbe fatto da grande, perché il lavoro del babbo, nella fabbrica di cemento di Bamburi, proprio non gli piaceva.
Così Karisa, sulle rive del Galana River, ha iniziato a parlare con i coccodrilli che si sono mangiati suo padre. Sarà stato per il tono di voce unico in tutta la Savana, certo più animale che umano o per i discorsi violenti e diretti come l’agguato d’un leone, ma a poco a poco Karisa è riuscito ad addomesticare i coccodrilli.
Qualcosa gli diceva che il risultato raggiunto non avrebbe rappresentato soltanto un modo per non pensare alla precarietà della vita, ma che poteva diventare uno stile di vita, e anche un mestiere.
La voce si sparse in poco tempo. Dopo qualche anno Karisa aveva sotto di se una decina di coccodrilli che rispondevano alle sue sollecitazioni, come se invece di essere in un angolo sperduto di foresta all’equatore fossero nell’arena umida e polverosa di un circo finto-esotico in una vigilia di Natale della bassa padana.
Così la “Snake and Crocodile Farm” di Malindi lo ha voluto come attrazione principale per i suoi spettacoli pomeridiani. Centinaia di turisti ogni giorno hanno assistito per anni alle evoluzioni dei coccodrilli e hanno fotografato la sua mano nelle fauci aperte, il rodeo cavalcando il più ribelle, fino ai giochi estremi.
Karisa mi ricorda Serse Cosmi, e non solo fisicamente.
Sarà che da quei coccodrilli selvaggi e irascibili non ti saresti mai aspettato nulla di buono, figuriamoci lo spettacolo. Sarà perché è la sua anarchia intellettuale e logistica a spiazzare, e il suo carisma ad aver convinto gli anfibi a stare al gioco.
Nessuno conosce il segreto di Karisa, così come in pochi provano ad analizzare le doti di Cosmi.
C’è chi dice che di nascosto faccia bere loro il vino di palma prima delle esibizioni, che ormai i suoi cocchi sono “palm-wine-addicted”, ma negli spettacoli africani non c’è l’antidoping.
Karisa ha voluto fare il grande salto. Attratto dalla popolarità, più che dal guadagno, si è trasferito al grande “Croco-Park” di Mombasa. Gli hanno dato nuovi coccodrilli, si è portato dietro solo il vecchio Bango, quello che sembra ridere sempre. Pubblico più vasto, una piazza calda, turisti da tutto il mondo. I primi mesi sembrava che i nuovi amici rispondessero alla grande, poi lui è rimasto attratto dalla vita notturna della grande Mombasa, dalle mille attrazioni della costa. Forse si è sentito appagato dall’essere un personaggio e ha trascurato i suoi amati coccodrilli.
Chissà, se quando ha perso il lavoro si è reso conto che erano stati proprio loro a dare un senso alla sua vita, e non viceversa. Che il timido e pensieroso ragazzo che passava interi pomeriggi sulle rive del Galana o al bar senza bere non aveva sogni che non avessero squame, denti aguzzi e lunghe code. Per un po’ di tempo di Karisa si sono perse le tracce. Qualche spettacolo qua e là, a Kilifi, Diani, brevi performance anche al Nord.
Il suo villaggio è tracimato per metà lo scorso giugno, ma lui non era lì. E’ arrivato subito dopo e si è messo a rifare di fango e sterco la capanna che da tanti anni non ospita che qualche parente.
Tra una fatica e l’altra, è tornato sulle rive dell’amato e odiato Galana. I coccodrilli sono sempre lì e con i più giovani ancora riesce qualche trucco. Dai, che si fa la squadra e si ritorna a Malindi…
Domenica andrò a trovare Karisa. Sono certo che lo troverò in forma, pieno d’entusiasmo. Parlerà del passato come di una grande occasione vissuta, di un pulmino che lo ha raccolto in Savana e gli ha fatto girare il Paese, come di una fortuna inestimabile di cui ancora, quando si sporge, riesce a sentire il profumo. Lo farà senza rimpianto ma, io lo so, sotto i bassi naturali del suo vocione e negli angoli di argilla degli occhi, salirà un’ombra di malinconia.

per Grifoni In Rete (www.grifoni.org)

sabato 14 novembre 2009

KENYA 2050

Il viaggio era stato abbastanza disagevole: le hostess robot della Pterodattil Travel erano andate in corto circuito, una dopo l'altra, un paio d'ore dopo il decollo.
Soliti inconventienti dei viaggi lowest-cost.
Dapprima avevano iniziato a servire il the e il caffè bollente, con il solito getto dal dito indice della mano (destra caffè, sinistra the), addosso ai passeggeri invece che nelle tazze.
Poi a una di loro si è invertito il programma dello sparecchiamento veloce con quello dell'intrattenimento erotico per i clienti della Superfirst class.
Ne aveva fatto le spese un pensionato in astinenza da viagra, che a momenti ci restava secco, mentre dalla testa dell'aereo si sentiva una erre moscia reclamare: "mettiti quella forchetta nel culo, brutto ammasso di lamiere". Certo che se vuoi i servizi della superfirst, non dovresti viaggiare con i charter. E' come andare a mangiare il sushi al fast food.
"Mi dia un Mac Samurai, per favore..."
Mentre le cuffie digitali proiettavano nella mente l'ultimo James Bond, "Operazione Granita" in cui l'agente segreto è alle prese con lo scioglimento del Polo Nord, due stewart meccanici si inseguivano tra le poltrone, armate di scopettone strappando tutte le mascherine per l'ossigeno e parlando contemporaneamente sette lingue in stile "L'Esorcista".
Alla fine per i viaggiatori era stato quasi un sollievo vederli cadere con fragore di metalli e qualche ronzio di resa. Il volo era proseguito tra spuntini self-service e le assicurazioni del comandante quattordicenne John Katana Baraghelli:

"Benvenuti su "Pterodattil Commander", l'aerogame di realtà reale. Oggi abbiamo scelto la rotta C, stiamo giocando a livello di difficoltà medio e all'altezza del Sudan riceveremo un bonus di 30 mila chilometri che porterà il Comandante di questo velivolo in sesta posizione nella graduatoria mondiale Online dei piloti di charter. Ci scusiamo per l'inconveniente delle hostess robot, al ritorno vedremo di rimediare proponendo un concorso a premi con la possibilità di un viaggio sulla scialuppa-shuttle sopra le piramidi d'Egitto, con scalo nell'oasi virtuale di Luxor".

L'alba sul Kilimanjaro innevato fu uno spettacolo che ci colse impreparati. Ah, questo vecchio pazzo mondo!
Tutto quel bianco accecante e il fucsia striato del cielo fecero stropicciare gli occhi di chi si risvegliava e modulare flebili suoni di stupore.
Indirizzai il finestrino ottico in direzione delle pendici della grande montagna e attivai lo zoom.
Vidi cervi, daini, lo stambecco reale, l'orso bianco e le tracce dello Yeti Masai. Per chi fosse riuscito a fotografarlo, c'era in premio una fotocamera digitale da 98 megapixel.
La neve ricopriva in parte anche il parco dell'Amboseli. Mi avevano detto che ci sarebbe stato pericolo di ghiacciate, andando a Malindi in gennaio, ma io avevo scelto questo viaggio per vedere gli animali più rari: l'arrivo della lince maculata in savana, il leone da spiaggia, la giraffa domestica, i bambini somali obesi, l'imprenditore onesto di Nairobi e le altre specie mutanti del terzo millennio africano.
A me della tanto decantata Atlantide dell'Oceano Indiano dall'enorme cielo-soffitto di corallo, non importava un granchè.
Sbarcammo all'aeroporto di Mombasa alle sette. Il rullotrasporto si era bloccato, quindi fummo costretti a camminare con i bagagli, recuperati con la case-card dal ventre dell'aereo, per duecento metri lungo un bracciotunnel con temperatura inferiore allo zero.
L'inverno africano non scherza per niente.
Nelle capsule-dogana invece il riscaldamento funzionava a palla. Come al solito i raggi infrarossi mi spogliarono, mi esaminarono e trovarono qualcosa che non andava.
Una boccetta di collirio e la lima per le unghie.
Si accese una luce blu ad intermittenza e partì un suono arabeggiante di sirena.
Mi sentivo all'interno di un jukebox. Arrivò l'ufficiale di dogana, un uomo di colore mingherlino che si muoveva su un monopattino elettrico con il visore a cristalli liquidi.
Mooolto lentamente.
Comunicò attraverso il monitor, senza aprire la capsulona in cui ero prigioniero.
"La boccetta è contro le regole, non si possono trasportare corpi liquidi" mi disse in italiano, con vago accento brianzolo.
"Ma non è un alcolico, è una medicina"
"Nemmeno le medicine, se sono liquide, furbetti!"
"Sorry - feci io - non lo sapevo. E poi non esiste il collirio in polvere"
"Impossibile che lei non lo sapesse – disse l'ufficiale, ancora nella mia lingua e con inflessione sempre più lombarda – anche i pirla come te ne sono al corrente, il collirio te lo puoi comperare a Mombasa".
"Questo è speciale, è per proteggere dalle polveri semi-sottili. Poi ormai la boccetta passata, non è più pericolosa"
L'ufficiale tornò professionale.
"Vero signore, ma c'è questo coltellino"
"E' una lima per le unghie"
"Coltellino"
"Lima per le unghie"
"Può ferire"
"Le unghie..."
"Quanto mi dai?"
"Tienitela"
"Sicuro?"
"Sicuro"
"Ti trattengo anche la boccetta"
"Venti euro"
"Buona permanenza in Kenya"
"Grazie"
E' bello constatare che, malgrado questo pianeta sia irrimediabilmente nella merda, certi valori fondamentali di cui gli esseri umani sono meravigliosi latori, non si perderanno mai.
"Mi raccomando, si copra che fa freddo!"
La capsulona si aprì e io finalmente guadagnai l'uscita dell'aeroporto, pronto a vivere una delle ultime avventure della mia vita.

mercoledì 11 novembre 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: ENZO JANNACCI, "L'UOMO A META"


“L’argomento certo è scottante, la canzone lo sa”.
Sarzana, 29 gennaio 2003. Sul palco del Jux Tap, tempio della buona musica in Lunigiana, c’è un gruppo di vecchi amici che si divertono a suonare blues per Emergency.
Si chiamano Mauro Pagani, Vittorio De Scalzi dei New Trolls, Franz Di Cioccio (Pfm, è il caso di precisarlo?), Piero Milesi (arrangiatore del De Andrè di Ottocento, di Fossati e altri), il chitarrista blues Paolo Bonfanti e Reinhold Kohl, grande fotografo e bassista per hobby.
Alla fine del concerto, in un’atmosfera da rimpatriata di commilitoni, Pagani chiede un attimo di attenzione. “Vi devo far ascoltare in anteprima qualcosa di speciale”. Partono le note di “Un uomo a metà”, la canzone che dà il titolo all'album di Enzo Jannacci. Pagani lo ha prodotto insieme al figlio Paolo e ha aggiunto pochi ceselli, rispetto al lavoro di creazione, architettura sonora e sublimazione a cui siamo abituati. Mano a mano che il brano procede e la voce sobria scivola su una poesia malinconica e neorealista, gli occhi dell’uomo che ha attraversato i vicoli di mare di De Andrè, ha tenuto in braccio il bambino di Sidùn e ha urlato di dolore con l’africano Baderà Saek nella “Rundinella” di Ranieri, si inumidiscono. Emozione anche sul volto del goliardico Di Cioccio, dello sbarazzino De Scalzi e dello sparuto pubblico di amici, colleghi e addetti ai lavori rimasti a fare notte.
Potrebbe essere questo il miglior biglietto da visita di “Un uomo a metà”, che Enzo Jannacci ha scritto e musicato con il figlio e che speriamo non debba essere catalogato, come ormai troppo spesso accade, come il “testamento spirituale” dell’artista pugliese di padre, comasco di madre ma da sempre emblema della più accorata, vera, a volte scomoda milanesità in note. Lasciamo da parte la retorica e iniziamo col dire che in questo album ci sono due brani da far venire i brividi a chi è ancora capace di provare emozioni con la musica italiana. La title-track è uno dei brani più belli mai scritti da Jannacci (ascoltare il provino voce-piano inserito alla fine del cd) vive nello stesso clima della sofferta “Maria”, in cui l’ex chirurgo suona il pianoforte e la sua voce con la stessa intensità, figlia di una ritrovata vena compositiva e di una consapevolezza tornata a galla dalla nebbia dei Navigli e diradatasi proprio quando iniziava a intravedersi il tramonto. L’inciso recita semplicemente “Maria, cosa vuoi che sia”, ma dai tempi di Luigi Tenco nessuno era riuscito a farlo vivere con una tale sensazione di malessere accondiscendente, di tristezza che non ha “la vergogna di piangersi addosso”. A fare da contrappunto alla struggente, ferita poetica del cantautore c’è il violino di Pagani, che piange e grida dentro e fuori mentre (immaginiamo) gli si inumidiscono le pupille e non ci può ne vuole fare niente. Ma Jannacci è unico, come quelle sbronze di grappa buona che trascinano in discussioni senza senso, ti fanno ridere e piangere, ti portano ad amare e odiare il mondo nel giro di cinque minuti, giusto il tempo di una canzone. Così dopo “Un uomo a metà” si racconta la storia surreale di un sottotenente che sogna di regalare la pace ai poveri come se fosse un sacchetto di arance. E dopo la splendida “Maria” che ha perso tragicamente il primo amore, c’è Gino che ne sogna uno in maniera talmente grottesca da strapparti il sorriso. La misura, la lucidità, arriva con “Una vita difficile” e “Niente domande”, sottolineata dalla fisarmonica di chi conosce Enzo come fosse suo padre. Suo padre che “parla con quel resta del budino”, chiama i soliti buoni amici che guarda caso sono anche musicisti coi fiocchi. Si trasforma in crooner anni Sessanta (“Lungomare”) e si mette a far casino come ai tempi di Cochi e Renato (“Il pesciolone”), ironizza su di sè e sulla società in “Gente d’altri tempi” e piange di guerra in “Lungometraggio” per omaggiare infine Umberto Bindi perché, come canta lui stesso, “non si sbaglia a parlare, se chi muore vivrà”.

martedì 3 novembre 2009

GENOA CLUB MALINDI E LA ZAMPATA DEL LEOPARDO (per Settimana Sport)


Alla fine di Genoa-Lille, dalla tribuna del Ferraris, ho osato una telefonata intercontinentale a Malindi, Kenya. Volevo che il mio amico Kazungu avvertisse l’indomani i bambini della scuola elementare di Mida, piccola oasi di civiltà e speranza in mezzo alla natura selvaggia, che il loro “leopardo” aveva dato la zampata vincente allo scadere e che il loro maestro Freddie aveva esultato. Vivo dieci mesi all’anno con loro, con i piccoli kenioti che sognano di poter imitare un domani le gesta dei campioni di football. Prima di partire per l’Italia, per presentare il libro “Genoa Club Malindi” che il Genoa Cfc ha unito a un progetto di solidarietà, con gli scolari abbiamo fatto un gioco: ho detto loro di abbinare ogni giocatore del Genoa ad un animale della loro savana. Ho spiegato i ruoli e le caratteristiche di ogni giocatore, dopo aver tenuto la mia lezioncina sul “mal d’Africa” e il “mal di Genoa” che è riportata anche nel libro. Ebbene, i bimbi di Mida mi hanno stupito per l’ennesima volta; non solo hanno dato ad ogni calciatore un nome da animale ma, dopo averli disegnati, hanno scritto anche dei consigli per loro. “Sculli, tu sei il leopardo agile e veloce” ha scritto Karembo, “Biava, fai come il Gerenuk, una giraffa non molto alta che però salta molto alto”. Sculli era molto emozionato, martedì scorso quando a Villa Rostan gli ho consegnato il disegno. E il leopardo che c’è in lui ci tiene ancora in Europa, dopo la splendida e rocambolesca partita con il Lille. L’operazione di solidarietà che prende spunto dal libro “Genoa Club Malindi” va aldilà di queste simpatiche e un po’ magiche coincidenze. Infatti la Karibuni Onlus, che ha creato la scuola-gioiello di Mida e tante altre belle iniziative in Kenya, ha proposto il libro alla società rossoblu e il progetto che sogno da tempo: mettere in piedi una scuola calcio del Genoa in Africa. Un sogno che si realizzerà presto, grazie al presidente Preziosi e alla stessa Onlus. Inizieremo con 25 bambini, un campo da calcio e servizi. E’ un progetto abbinato all’educazione e alla sanità e migliorerà, attraverso premi e borse di studio, la vita dei ragazzi e delle loro famiglie. Chi ama il Genoa e sogna l’Africa o di fare qualcosa di tangibile per chi è meno fortunato di noi, sappia che da oggi ha un referente con il cuore da grifone laggiù. Comprando una copia di questo libro (Freddie del Curatolo, “Genoa Club Malindi”, edizioni Liberodiscrivere, € 10) si contribuisce a finanziare il progetto, ma tramite www.karibuni.org si può fare ancora di più. Il libro a Genova è in vendita presso i Genoa Store, online tramite la Fondazione Genoa o il sito dei Grifoni in rete (www.grifoni.org). Presto l’Associazione Club Genoani organizzerà anche una domenica di vendita dei libri e di raccolta fondi fuori dal Ferraris. Il Kenya si è già tinto di rossoblu, ora bisogna costruire il solido e duraturo ponte che colleghi Genova a Malindi. Per dare un calcio alla miseria e fare un goal di solidarietà.
Freddie del Curatolo

sabato 24 ottobre 2009

ORA "GENOA CLUB MALINDI" E' UN LIBRO!!!

4 novembre 2009 alle ore 18,30
Sala del Munizioniere, Palazzo Ducale Genova
Incontro spettacolo con il pubblico


“GENOA CLUB MALINDI” Di Freddie del Curatolo
UN LIBRO BENEFICO PER KARIBUNI ONLUS E UN PROGETTO CON IL GENOA CFC
a cura di Liberodiscrivere®
Intervengono Giorgio Cimbrico, Claudio Onofri, Freddie del Curatolo.

Un libro e un’iniziativa benefica che uniscono non solo idealmente, ma in maniera concreta, il “mal d’Africa” con il “mal di Genoa” e la più antica società calcistica italiana con una Onlus che opera in Kenya.
I proventi del libro edito Antonello Cassan editore di “Liberodiscrivere® ”, infatti, andranno a finanziare il progetto di una scuola calcio ideato dalla Onlus Karibuni di Como in collaborazione con il Genoa Cricket & Football Club in favore dei ragazzi del Distretto di Malindi, in Kenya che legherà a doppio filo la società e i tifosi rossoblu alla realtà in cui opera Karibuni e in cui l’autore del libro Freddie del Curatolo vive da anni.


Freddie del Curatolo
GENOA CLUB MALINDI
Cronaca di una stagione indimenticabile tra Africa ed Europa
La squadra più antica d’Italia che torna nell’Olimpo del calcio, un manipolo di tifosi che la seguono con ansia ed entusiasmo dall’Africa, i loro amici kenioti che guardando le partite in tv ne sono conquistati.
Genoa Club Malindi non è soltanto la storia di una passione calcistica, ma anche uno spaccato della vita dei nostri connazionali nel Continente Nero, perché il “mal d’Africa” a volte ricorda la fede incrollabile in un team sportivo, specialmente se si tratta del Genoa, culla della civiltà pallonara così come l’Africa è culla dell’umanità.
Dalle cronache delle partite, vissute via satellite dal Genoa Club Malindi, nella stagione in cui i rossoblu tornano in Europa, la propensione all’avventura e alla libertà, il fatalismo e l’ingenuità del popolo keniota si mescolano con il senso pratico, l’umanità, l’incanto e la voglia di sognare degli italiani che hanno scelto di vivere sulle rive dell’Oceano Indiano.
Scritto da un giornalista, grande tifoso genoano che da qualche anno è tornato a risiedere in Kenya, e basato su una storia vera, Genoa Club Malindi è l’intreccio di due mondi, due stati d’animo, due magie che hanno molti più aspetti in comune di quanto a prima vista possa apparire: il “mal d’Africa” e il “mal di Genoa”.

(dalla prefazione)
Mal d’Africa e Mal di Genoa.
Chi ne è stato colpito non potrà mai fare a meno di veder correre la sua stessa esistenza su binari paralleli, di considerare le tappe fondamentali del suo percorso terreno senza esplorare quella parte della sua anima che chiede di essere soddisfatta in un unico modo, con l’appartenenza.
Essere genoano, appartenere all’Africa.
Sensazioni simili, battiti del cuore come zoccoli di animali gemelli che galoppano selvaggi in una savana di emozioni meravigliose.

L’autore: Freddie del Curatolo, giornalista professionista e scrittore, ha lavorato nelle redazioni dei quotidiani Il Corriere e La Provincia, ha collaborato e collabora con riviste e siti internet, ha pubblicato saggi musicali (tra cui “Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano”, Selene Edizioni e “Vasco Rossi, il Provoc(a)utore”, Edizioni Bevivino) e il libro “Malindi, Italia – guida semiseria all’ultima colonia italiana d’Africa”, Edizioni Liberodiscrivere. Come cantautore nel 2004 ha dato alle stampe l’album “Nel regno degli Animali” che ha meritato il Premio Ivan Graziani-Pigro di Teramo, giungendo in finale al Festival di Mantova 2005 e classificandosi tra le dieci migliori opere prime al Premio Tenco di Sanremo.
Ha vissuto in Kenya dal 1990 al 1997 e vi ha fatto ritorno nel 2005.
Ama l’Africa ma appena può fa un salto a Genova.

martedì 20 ottobre 2009

FREDDIE SU "VOGLIOVIVERECOSI.COM"

C’è una frase che non dimenticherò mai e che ha dato un senso a molte mie scelte di vita.
Quando l’ascoltai per la prima volta, all’ombra di un mango gigantesco che proteggeva dal caldo equatoriale, mi suonò a guisa di una sentenza, come un precetto che attendeva soltanto la mia saggia accettazione.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Il Capitano mi porse quella frase come fosse un vassoio di ostriche fresche o una bevanda al tamarindo. Gli era uscita con la naturale dolcezza di uno dei tanti frutti meravigliosi della terra in cui mi trovavo per la prima volta, il Kenya.
Il Capitano aveva lasciato la carriera in Marina per approdare in riva all’oceano indiano. Una scelta di vita, aveva aperto una gelateria a Malindi. A quei tempi a Malindi si formava una comunità di italiani che per motivi disparati avevano deciso di cambiare esistenza e abitudini, per non dire identità.
Non era il mio caso. Avevo diciannove anni e mi ero preso il cosiddetto “anno sabbatico”.
In effetti covavo grandi progetti, in vista del mio ritorno in Italia: l’università, il praticantato giornalistico, suonare in giro con una rock band…la vita mi attendeva, il mondo occidentale con le sue lusinghe e solide certezze era la mia bibbia.
Eppure l’Africa mi stregò.
Frugò nella mia anima cercando gli anfratti più puri, riconoscendo la mia voglia di libertà, di avventura e di sensazioni inedite. Portò il mio sguardo all’altezza sconveniente ma reale dell’umana miseria e il mio anno sabbatico, senza quasi che me ne accorgessi… diventarono sette.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Infatti dopo sette stagioni ero un africano fatto e finito. Parlavo il kiswahili, vivevo di turismo gestendo un ristorantino a Malindi ma ero integrato a meraviglia con la popolazione locale. Non si diventa milionari in Africa, se la si ama. Ma ci si sente immensamente ricchi dentro.
Chissà, forse per l’innato bisogno di divulgare che ha lo scrittore, forse per dimostrare a me stesso che anche i progetti di un tempo, se trasformati in sogni e liberati dal peso di obblighi, promesse, aspettative dei genitori, facevano parte dei desideri da avverare, decisi che era ora di tornare.
La voce del Capitano, come un biglietto di viaggio, era valida anche per il percorso inverso.
Così ecco un africano a Milano. Con i suoi ritmi lenti, la sua filosofia agli antipodi rispetto ai valori della maggior parte delle personee alle soglie del Terzo Millennio. Eccolo che non riesce ad attraversare la strada prima che il semaforo diventi rosso, che s’incanta ad osservare individui grigi che corrono, si lamentano, si fanno la guerra. Tutta gente che vorrebbe scappare perché le cose vanno male.
Io invece ho qualcosa da fare…devo proseguire la mia carriera da giornalista, devo pubblicare libri, voglio rimettere in piedi una rock band. Anche se il mal d’Africa è aritmia nel cuore, raschia in gola come le sigarette che ho ripreso a fumare, colora i miei sogni notturni.
Resisto perché ho un obiettivo. E appena posso, mi faccio una vacanza in Kenya.
E’ il 1998. Dopo qualche anno supero l’esame di stato a Roma e divento giornalista professionista. Lavoro in una redazione sul lago di Como. Pubblico saggi e libri musicali. Il primo, il più vissuto, è su Rino Gaetano. Lui aveva scritto “Metà Africa, Metà Europa” in cui cantava “Africa, ma per te che lavori e non ridi / per chi come te più non gioca / questa terra è ancora Europa”.
Nel 2004 esce il mio album d’esordio “Nel regno degli animali” con cui vinco alcuni premi e arrivo in finale al Festival di Mantova e tra le migliori opere prime al Premio Tenco di Sanremo.
Una carriera da scrittore lanciata, un lavoro sicuro da redattore, la soddisfazione del percorso parallelo da cantautore con un secondo album in gestazione. Un grande amore lacustre e una passione per Genova e il mare di Liguria.
Va tutto bene.
E’ il momento.
Nel luglio del 2005, con la compagna Miky, lascio il lavoro, sciolgo la band, deludo il produttore discografico, prometto di rispettare a distanza i contratti editoriali, e parto.
Mi aspetta un altro ristorantino in riva all’oceano. Ad attendermi è soprattutto l’Africa.
Forse è l’ennesima sfida, forse il senso della mia vita. Ma non è solo questo.
Cosa mi ha spinto a tornare a Malindi?
Come scrivo nel libro dedicato al Mal d’Africa:

Immaginate un luogo in cui il cielo non vi sovrasta, vi attraversa, l’aria non si respira, si assapora. Il tempo scorre, non corre e il sistema nervoso si sistema, non si innervosisce. Un luogo in cui la gente non vi incrocia, vi saluta. Dove tutto è vero, anche le cose spiacevoli, perché tutto è vita! …
… Mal d’Africa è emozionarsi davanti a un tramonto breve sapendo che il giorno dopo, comunque andrà, ce ne sarà uno apparentemente identico ma dalle sfumature inedite. Imparare che non è vero che se non si desidera tutto non si otterrà nulla, che accontentarsi non è sempre una sconfitta e che vivere alla giornata è un buon metodo per aggiornare l’esistenza. Capire la propria diversità e accettare quella degli altri, in un luogo dove nemmeno quel visionario di Gesù avrebbe potuto affermare che gli uomini sono tutti uguali. Mal d’Africa è vivere in sintonia con le fasi lunari, con i fusi locali, in serenità con il ciclo vitale e in equilibrio su un ciclo cinese.
Mal d’Africa è capire di non essere capiti e farsene una ragione, è annoiare la noia, impigrire
la pigrizia, rincoglionire l’intelligenza e assoggettarla ai propri ritmi, imprigionare il pensiero e liberarlo con una cauzione eterna che sarà il cuore a pagare, in comode rate stagionali.
Mal d’Africa è un silenzio pagano, un ruggito religioso, uno stato d’arimo.
Il Mal d’Africa, se è quello vero, è un bene incurabile!

Lo scorso gennaio, Michela ha dato alla luce Agata Zena, la nostra primogenita.
Io continuo a pubblicare libri e dal ristorantino sono tornato al mio lavoro. Sono Ufficio Stampa per l’Associazione Turistica di Malindi e Watamu e gestisco un portale di news e informazioni per chi vuole scoprire l’Africa in vacanza e per chi sogna di lasciare tutto e trasferirsi a Malindi.
A patto, però, che le cose non vadano male…

(scritto per www.voglioviverecosi.com

lunedì 19 ottobre 2009

SAMOSA DI CARNE

(Parodia malindina di "Sapore di Sale" di Gino Paoli)

Samosa di carne, samosa piccante
Che ho nella bocca, che ho sulle labbra
Sono qui al ristorante e mi vien da ruttare
Vicino a te, vicino a te

Samosa di carne, samosa bastarda
Quel gusto un po’ andato di spezie scadute
Ne ho mangiata una sola, l’ho mangiata per gola
Ed è una fortuna che sia ancora qui

Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…

Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?

Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…

Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?

venerdì 16 ottobre 2009

IL CIELO PIANGE

Il cielo piange in Africa.
Lacrime antiche sui baobab centenari
Lacrime nuove sui dimenticati
Sui diseredati dai loro stessi fratelli
Sugli sguardi che non hanno brace
Sui sorrisi che non sono fuoco
Eppure qualcuno li ha spenti
Acqua che non riesce a purificare
Che non lava, non monda e
che non riesce ad andare al mare
Il cielo piange in Africa
Tornerà la voglia di ridere

(parole raccattate in strada a Malindi e tradotte a modo mio)

giovedì 15 ottobre 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: MICHAEL FRANTI, "EVERYONE DESERVES MUSIC"


Pregiudizio. Una parola che da sempre accompagna nella carriera artistica e nella vita Michael Franti. Non inganni il cognome di deamicisiana memoria, l’uomo è un mastodonte mulatto a cui da ragazzo era stato vaticinato un futuro da guardia nei Los Angeles Lakers, negli anni in cui Kareem Abdul Jabar estasiava il mondo con il suo “gancio cielo”. Michael invece affronta i primi pregiudizi e si mette a fare hip-hop senza rasarsi i capelli a zero. Anzi, lasciandosi crescere folti dread da rasta. Inevitabilmente il rap degli esordi si tinge di reggae e denuncia. Con gli Spearhead firma il variopinto “Home”, in cui hip-hop, caraibi, soul e basket (“Dream team”) vanno d’accordo. Il seguito (“Chocolate supa highway”) porta Franti e la sua band al successo internazionale, stavolta l’hip-hop è più puro e appena venato da reminiscenze marleyane.
Dopo altri due corposi, impegnati, intelligenti dischi che non gli tolgono l’etichetta di cool rapper, un cameo in un album di Jovanotti e la splendida produzione di “7” della cantante belga-zairese Zap Mama, Michael Franti decide che è ora di levarsi di torno questi noiosi pregiudizi. Per l’America è un giovane cantore della sinistra, si batte per le cause perse e quasi quasi ha simpatie per i musulmani. Per l’Europa è uno dei tanti parlatori del terzo millennio su basi soul. E qui Franti spiazza tutti, perché con il suo ultimo album “Everyone deserve music” l’ex Spearhead fa il salto di qualità. Scrive con maturità ballate nere sospese tra l’illuminazione di Ben Harper (“Love, why did you go away?”) e l’impegno sociale dell’indimenticato Gil Scott-Heron (“Bomb the world”).
In certi frangenti sembra di veder tornare come in una moviola, dagli spari della pistola del padre, Marvin Gaye.
Franti con il suo stile ha scritto un’antologia della miglior musica nera di oggi, evocando anche Lenny Kravitz, Erykah Badu, Stevie Wonder, Curtys Mayfield e altre icone più o meno storiche. Ma ci vuole soprattutto una bella testa da musicista per scrivere canzoni come la title-track o “Never too late”, per arrangiare reggae-non reggae la ritmata “Pray for grace”, per sublimare in rhythm and blues le stesure hip-hop di “What i be” e “We won’t stop”. E siccome negli States non è solo la musica nera ad essere contro, ecco che salta fuori un brano che fonde lo stile Franti con il John Mellencamp degli ultimi anni, ascoltare “Feelin’ free” per credere. Se poi si permette l’ospitata dello spagnolo Sergent Garcia per un divertente salsa-raggamuffin è perché a lui delle etichette non interessa un granchè. Questo geniaccio rubato alla pallacanestro ha dato alle stampe un disco che nel giro di sessanta minuti fa muovere le natiche e ballare, sorridere, riflettere, incazzare, emozionare e ascoltare grande musica. Altro che pregiudizi, ognuno si merita le nuove canzoni di Michael Franti.

giovedì 1 ottobre 2009

COMO, CHE DIVENTA IMPORTANTE QUANDO L'ABBANDONI (per "Leitmotiv")

Pur essendo nato a Milano e avendo vissuto parecchi anni a Como, mi sono sempre considerato un uomo di mare. Sarà per l’infanzia ligure, sarà per l’affezione alla scuola cantautorale genovese, il tifo per la squadra di calcio più antica e gloriosa d’Italia. In realtà del mare ho sempre amato gli infiniti spazi, l’apertura totale dell’orizzonte ottico. In Liguria, l’apparente chiusura e ritrosia della gente, nasconde in realtà una naturale visione “oltre”, un abitudine alle distanze anche mentali.
A Como c’è il lago. Scenario d’incanto, non c’è che dire. Ma costretto, recluso tra alte montagne che offrono piccola porzione di cielo e non lasciano mai intravvedere la linea dell’infinito.
La chiusura della gente qui non è una scelta, ma un limite. Non ci vuole coraggio ad andar per lago, come invece per chi s’imbarca in un porto di mare. Qui chi ha coraggio ha preso la via delle montagne e spesso non torna.
Personalmente, a Como ho legato la mia carriera professionale. Sono arrivato che ero soltanto uno scrittorucolo praticante e sono diventato un giornalista fatto e finito. Nella quiete di Palanzo prima, di via Giovio e Maslianico poi, ho scritto una decina di libri e composto l’album musicale d’esordio che tante soddisfazioni mi ha dato. Le migliori opere nascono sempre da grandi depressioni, diceva qualcuno. Non posso negare che il territorio Lariano umanamente mi abbia lasciato poco e abbia rovistato in me utilizzando strumenti da lento scasso come la noia, l’incomunicabilità, la delusione.
Se ti lasci andare, sei perduto. Il lago ti ricopre il cuore di patine algose e arrugginisce i meccanismi del sistema nervoso con la sua umidità. Eppure tutto ciò può trasformarsi in forza centrifuga, può sublimare in arte. Quando la tua condizione fa a botte con il mai domo amore per la vita, ecco che la vera natura esce allo scoperto. Allora posso dire che a Como sono diventato saggio, sono diventato uomo. Ho conosciuto la donna che sarebbe poi divenuta mia moglie, ho lavorato a progetti interessanti. Cose che magari, davanti al “mio” golfo del Tigullio, non avrei fatto, rapito dall’ipotetica via di fuga.
Ecco cosa succede. A Como ti senti braccato, per questo reagisci!
Perché la Città Murata è affascinante, è storia ma non così palese come quella romana o come il rinascimento fiorentino. E’ storia oscura, misteriosa, da provincia dell’impero o da colonia di villeggiatura di nobiltà in odore di caduta. Il centro storico di Como nasconde segreti che potrebbero catturarti, se qui la storia non si fosse suicidata per troppo pudore. A Como è difficile scavare, è quasi impossibile farsi raccontare. Sembra che ognuno nasconda chissà quali collezioni di ossa in cantina, quando invece basterebbe vergognarsi un po’ meno.
Ho conosciuto e intervistato uomini di cultura, scienziati e artisti vari che hanno lasciato il Lario in giovane età e ora ammettono di capirlo e amarlo di più. “Torno ogni due anni per un paio di settimane – mi ha confidato un imprenditore che abita a Miami – e non immagina quanto mi faccia piacere. Ma guai a fermarmi più a lungo”. Ho trovato qualcosa in comune, negli sguardi e nelle parole di queste persone. Non vorrei sbagliarmi, ma tutti loro in un certo qual modo ringraziano Como di avergli fatto conoscere i propri limiti e di aver dato loro la forza di andare via, di guardare oltre il lago e le montagne.
Io che non sono di comasca progenie, i miei limiti già li frequentavo e sono andato e tornato tante volte da molti luoghi, ma mai mi sono fermato sette anni in una stessa città. In quegli anni mi sono accontentato dei pochi amici che ho incontrato e che lo rimarranno e dei pochi segreti che sono riuscito a carpire a questa cittadina. Non c’era altro da fare, dopo aver scavato e scavato, che tornare al mare. Ringraziando eternamente Como, che me ne ha fatto apprezzare sfumature dimenticate. Ora so come riconoscere la noia, la depressione, l’incomunicabilità, anche davanti all’orizzonte infinito. Dall’Africa, mio nuovo approdo da quattro anni a questa parte, un rispettoso saluto e un grazie.

Per il periodico LEITMOTIV