venerdì 20 marzo 2009

MIKI E LA FESTA GRECA DI MALINDI

Domani sera al Casino di Malindi va in scena la tradizionale serata Greca, evento organizzato dalla fervida fantasia di Daniela Cellini. Unn happening a base di gastronomia, musica e danze, con immancabile risvolto benefico.
Non sembra, ma in Kenya la festa greca ha molti perché e retroscena storici: il 21 marzo 1909 il primo cittadino greco, Mangos Pukatsos, mise piede sul suolo keniota, come cuoco al seguito di Lord Wilkinson, la cui amante Lady Caroline adorava la moussaka. La bella Caroline si convertirà ben presto alla natura africana, ai cibi e ai piaceri della terra del sole e dell’amore e il greco tornerà in patria per far posto a un Kamante superdotato. Lord Wilkinson, invece, si taglierà le vene con una lametta da barba da lui creata. Alla fine degli anni Settanta, un bastimento battente bandiera greca assume tra le sue fila il Capitano livornese Giuseppe Passaglia. Dopo due anni di avventure insieme e di serate sobrie, il livornese viene lanciato a mare al largo di Watamu. Nuotando con l’abilità di chi da giovane faceva Piombino-Isola d’Elba per allenarsi, raggiunge le coste keniote. Aprirà qualche anno dopo una gelateria e si stabilirà a Malindi.
Nelle note locali più recenti, invece, un ricordo indelebile: nel dicembre 1990 si trasferisce a Malindi per lavoro il greco cipriota Miki, grande filosofo, bevitore, ballerino di Sirtaki e lanciatore di piatti noto anche per la sua perfetta imitazione di Marlon Brando nel Padrino.
Nell’aneddotica di Malindi è mitica la seguente scena: Festa greca a casa di Miky, appartamento in zona centrale la cui ampia terrazza si sporge sulla strada principale di Malindi, Lamu Road, proprio di fronte al Casino. Capretto e tzaltziki, involtini di melanzane e feta, non ci si fa mancare nulla. Ebbri di vino e ouzo, con il sottofondo di canzoni pop elleniche, Miki estrae dalla credenza il suo servizio di piatti, una trentina, tra piani, fondi e piattini da dessert. Li distribuisce e inizia a lanciarli alla cieca dalla terrazza. Lo imitiamo. Ogni volta che un piatto raggiunge l’asfalto e si rompe, Miki si lascia andare a un passo di sirtaki ed esclama il classico “Oopa!”. E uno, “Oopa!”, e vai con un altro “Oopa!”, ci si prende gusto “Oopa!”, senti come si rompe bene questo “Ooopa!”.
A un certo punto al lancio non corrisponde alcun rumore di impatto letale per il piatto. Secondo lancio: “Oopa!” si spezza in gola, al terzo pure, silenzio. Il quarto va, ma è un “crash” minore e al quinto non c’è alcuna risposta. Sembra che le stoviglie si disintegrino in volo, silenziosamente.
Istintivamente ci avviciniamo alla balaustra di mattoni, da cui in condizioni normali non si vede la strada, e ci affacciamo.
Con nostra grande meraviglia (anche perché nessuno di noi è in condizioni normali) vediamo quattro kenioti che, con in mano un piatto a testa, guardano in su aspettandone altri! Li avevano presi al volo! Miki di colpo ritorna sobrio e si trasforma nell’incredibile Hulk, altro che Marlon Brando. Inizia a urlare gli improperi più assurdi in uno slang greco-inglese-swahili-italiano, assolutamente esilarante:
“You no make that, porta sfortuna poooorco…ngoja kidogo!”
Qualcuno dice ai kenioti di non preoccuparsi, le intenzioni di Miki (nonostante le apparenze) non sono bellicose. Il padrone di casa scende le scale, consegna ai raccoglitori di piatti volanti la bellezza di mille scellini a testa (un quarto del loro stipendio di allora) e li obbliga a lanciare i piatti in strada. Uno di loro, sorridendo, al rumore del piatto in mille pezzi, si lancia in un “Ooopaaa!” africano, al quale noi dall’alto facciamo seguire fragoroso lancio dei pezzi rimanenti.
La serata del Casinò, in cui lo chef Michele (non Greco) ha preparato un buffet per nulla spartano con agnello ripieno in bellavista, moussaka, ghemistà e altre leccornie elleniche (come i famosi ravioli di pollo), deve ricordare il grande Miki, che purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa, troppo presto. I piatti verranno lanciati in suo onore, si potranno comperare e il ricavato dell’acquisto andrà in beneficenza. Siamo certi che, nel mezzo dei lanci e del coinvolgente fragore, si sentirà indistintamente una voce vellutata come quella di un Marlon Brando cipriota.
“Oooopaaaaa!”

sabato 14 marzo 2009

NONNO KAZUNGU E LE RIFORME

Kakoneni era la solita oasi di pace.
Era una mattina “che più africana di così c’è solo nel Masai Mara”, come era solito dire Kadenge Davide. L’orchestra di suoni della natura si intrecciava con le partiture jazz del genere umano, così il frullo dei passerotti e il cinguettio dei tordi coronati s’intrecciava a meraviglia con gli acuti gridolini degli alunni della “Kakoneni Primary School” nella radura intorno all’edificio, il belante sax soprano delle caprette alla corda sembrava accordarsi perfettamente con il contrabbasso della sega a mano che mordeva il vecchio banano.
Nonno Kazungu, come un abile direttore della filarmonica più antica del mondo, agitava lentamente la pipa come fosse una bacchetta e ogni tanto se la riaccendeva.
La pipa era un lascito della sua lunga militanza con gli inglesi, prima di diventare maggiordomo di fiducia di tanti italiani di Malindi, un vezzo che lo differenziava da ogni altro vecchio saggio di quei luoghi e anche per questo Kazungu, pur non essendo uno stregone, veniva tenuto in grande considerazione e rispettato da tutti.
Il nipote Kadenge, detto Davide l’Italiano per via delle cinque mogli bianche e di altrettanti figli messi al mondo con loro, era tornato al villaggio per controllare i progressi dei lavori di costruzione della sua casa per la vecchiaia.
“Alla soglia dei quarant’anni è ora che ci pensi seriamente” lo aveva rimproverato il nonno.
“Ma io ci ho sempre pensato, questo terreno lo comprai con l’aiuto della seconda moglie…”
Tutto vero.
La prima era una ragazzina, conosciuta sulla spiaggia di un villaggio turistico e rimasta incinta per caso. Il matrimonio, in un grigio e freddo febbraio veneto, era stato imposto dai genitori di lei ma il giovane Kadenge aveva resistito pochi mesi nell’azienda del suocero, non senza sperimentare l’attrazione sulle segretarie e alcune amiche della suocera. Afflitto e trafitto al cuore dalla nostalgia, era tornato a Malindi inventandosi una malattia del nonno.
“In Italia dicono che così ti ho allungato la vita” cercò di giustificare la balla.
“Guarda che conosco anch’io le cavolate degli italiani, quello succede quando mi sogni morto…”
Epico fu il discorso del giovane beach-boy alla ragazzina che dopo qualche mese aveva fatto ritorno in Kenya per cercare di convincerlo:
“Vedi, Sabrina, questa è la mia terra. Niente mi fa più felice di una passeggiata sulla battigia quando la marea sta per risalire. Guardare le onde infrangersi sulla barriera corallina e ascoltarne la voce, seguire con gli occhi i disegni sempre diversi delle nuvole basse che sfiorano l’orizzonte. La mia vita è qui, abbi cura di mio figlio. Ti voglio bene”.
Kadenge non era un bastardo.
Gli assomigliava, ma non lo era.
Quando parlava era sincero e proprio per questo le conquistava tutte.
Alle femmine piace illudersi di avere trovato l’uomo ideale ma, alla resa dei conti con se stesse, sanno che si tratta di una chimera.
Proprio come i giochi delle nuvole quando si cammina sulla spiaggia.
Per un po’ le abbracci con lo sguardo e diventano ciò che vuoi tu, ti regalano sogni e prendono le forme della tua fantasia, ma alla fine ti accorgi che, per quanto candide e sinuose, rarefatte o gonfie di poesia, sono soltanto nuvole passeggere e nulla più.
Kadenge era una di quelle nuvole basse, in carne e muscoli, ma egli stesso sapeva plasmare le sue illusioni. Così bene che non lo si poteva mai biasimare, era come fosse parte della natura selvaggia dell’Africa.
E dalla Natura si accetta qualsiasi cosa.
La seconda, Mirella, invece sembrava già il grande amore e insieme avevano deciso di acquistare il terreno che nonno Kazungu aveva mostrato loro un giorno: non distante dalla strada, vicino alla chiesa ed esteso fino quasi ai confini del villaggio di famiglia. All’interno, due baobab secolari, decine di manghi, banani e un campo da seminare a grano grande mezzo acro.
Arrivò perfino un “architetto” indiano amico di lei, per gettare le fondamenta della casa, portò mattoni bianchi e pietre di corallo, sabbia finissima da cemento e barre di ferro per i muri portanti. Sarebbe stata la villetta più bella di Kakoneni, ma umile e senza fronzoli, nel rispetto della sua gente. Fu il padre, giunto dall’Italia come la furia di un uragano, a portarsela via quando già aspettava il frutto del loro amore. Gestivano un chiosco di frullati, l’uomo arrivò lì una mattina, mentre Mirella dormiva e cercò di corrompere Kadenge.
“Quanto vuoi per mia figlia?”
“In verità… dalle mie parti siamo noi che comperiamo le donne, ma non so se può portarsi sei capre e quattro vacche in aereo”
“Uè, alegher… ciapa minga per el cù… ti ho capito a te, fai il furbetti… vanno bene cinque?”
“Cinque vacche?”
“Cinque zucche, zulù!
Cinque testoni, cinque milioni…quanti scellini sono cinque milioni di lire?”
Kadenge fece il conto mentalmente, usando come unità di misura i plot di Kakoneni e le tariffe delle sue amiche Lulù e Janet.
“Tanti…”
“Allora io ti do cinque milioni se ti dimentichi di Mirella, che torna con me in Italia”
“Lei non vuole tornare in Italia, siamo innamorati e ci sposeremo”
“E se ti trovasse a letto con un’altra…”
“Come?!?”
“Ma sì, dai…un bel paio di corna prima delle nozze zulù”
Kadenge lo squadrò come la mangusta che guarda un serpente presuntuoso.
“Tieniti i tuoi soldi, papà”
“Dieci?”
“No”
“Quindici?”
“Nemmeno per cento”
L’aveva sparata grossa, se si fossero materializzati cento milioni di lire lì davanti si sarebbe sbriciolato come un biscotto al cocco (perché, cinquanta no?).
Ma non si materializzarono e gli parve d’essere prigioniero di un incubo con i sottotitoli in brianzolo.
“Alegher, negher…tanto vinco io…”
Vinse lui.
Chissà, forse Mirella aveva accettato i cento milioni.
Forse ne avrebbe ricevuti di più.
In realtà la ragazza aveva pensato all’avvenire di suo figlio e aveva ottenuto dal genitore di potersi dedicare a tempo pieno al ruolo di mamma, senza entrare nei quadri dirigenziali dell’impresa di famiglia.
Una decisione sofferta, dolorosa, ma resa meno amara dall’atto d’amore per la vita che covava in grembo e per il giovane gioiello d’ebano con cui l’aveva concepito.

Dalla terza moglie in poi, la casa non aveva registrato progressi. Erano state erette otto colonne ma due si erano rivelate storte ed erano state tirate giù. Poi la divertente parentesi di Lawrence Kamongo, il rappresentante di telefonini, che si era improvvisato costruttore (“anche gli italiani a Malindi hanno iniziato così: uno in Italia era parrucchiere e ha aperto un ristorante, un altro faceva il buttafuori ed è direttore d’albergo, un altro ha iniziato come maestro di tennis ed è il più importante costruttore di villette a schiera…”). Kamongo aveva preso in mano la conduzione dei lavori (“mi pagherai alla consegna…”) e nonno Kazungu era riuscito a fermarlo in tempo, prima che il sogno di Kadenge Davide si trasformasse in una cosa a metà tra un mausoleo nubiano e un hangar dell’aviazione eritrea.
Ora, con i proventi della campagna femminile di gennaio (in tempi di guerra e con l’età e la pancetta che avanzavano bisognava accontentarsi: nel carnet di carne anche due tedesche e un’ultrasessantenne tiratissima) aveva ripreso i lavori e veniva lui stesso a controllare due giorni alla settimana, con un giovane costruttore bergamasco, amico dello Svaporato. Uno spirito semplice, per cui il Kenya era soltanto un luogo selvaggio a novemila chilometri da Dalmine. Ci sarebbero voluti secoli a cementificarlo tutto!
“Ma voi la pagate l’Ici?” chiese il bergamasco a nonno Kazungu.
Per uno delle valli orobiche, magari ricevere uno sguardo di compassione da un “giriama” dell’Alto Galana può essere considerato anche motivo di vanto. In ogni caso, il sorriso abbelliva entrambi.
“Dopo vent’anni sono riuscito a pagare il titolo di proprietà del mio terreno, ma noi non siamo mai proprietari di nulla, tocca alla Natura pagare l’Ici…quel che abbiamo noi, e che avete anche voi, è una concessione per 99 anni, rinnovabile”
“Niente tasse sulla casa? Niente Ici?”
“Prova a fare causa a Madre Natura…”
Il bergamasco spiegava che con il ritorno al potere di Berlusconi, lo Stato Italiano avrebbe abolito alcune tasse sulla prima casa.
“Perché, quante case volete?”
“Ah, c’è chi ne ha anche venti!”
“Come gli arabi che costruiscono i condomini?”
“Esatto! E poi le affittano…”
“Ma qui non ci devono pagare le tasse…in Italia perché non le vendono e si tengono i soldi…”
“Perché sono un investimento…magari un giorno valgono di più…”
“Agli italiani piace giocare, al casinò e nella vita…al mondo occidentale piace perdere i soldi per poi rifarli e riperderli…altrimenti non si divertono”
Mentre Kadenge dava disposizioni al capomastro e urlava garbate bestemmie all’indirizzo dei kibarua che avevano approfittato di un suo attimo di distrazione per iniziare a murargli la finestra del bagno, si materializzò Kamongo, con l’aria di uno scienziato che aveva lavorato a lungo su un procedimento chimico che qualcuno, grazie a un colpo di fortuna, aveva trasformato in una formula vincente da premio Nobel.
“Viene bene…vedo che avete tenuto la mia concezione di spazio…”
“La parte esterna della veranda, dici? – disse Kazungu, poggiandogli una mano sulla spalla – sì, si potrà sempre andare sotto il baobab attraverso il prato…”
“Spiritoso…”
“Kamongo, lei paga le tasse?” interruppe il bergamasco, che evidentemente aveva un’ancestrale paranoia italica.
“Poca roba…ma adesso con le riforme cambia tutto…”
“In meglio?”
“Questo lo dirà la storia – sbuffò il rappresentante, sistemandosi la giacca – per me più è grande la coalizione, più fa male il suo bastone…”
“Fa anche rima!” disse Kibebe lo scemo, che nessuno aveva ancora notato, semi-seppellito sotto una montagna di sabbia da cemento.

(fine prima parte)

lunedì 9 marzo 2009

RUBY IL FACOCERO E GLI ERRORI UMANI (Genoa-Inter 0-2)

A nonno Kazungu questa cultura italiana del calcio non piace. Ha visto la partita ieri sera, come sempre al Safari Bar, e lascia scolpito sulla formica dei tavolini il suo commento. Il nonno è uno che parlerebbe semplice anche se dovesse spiegarti i postulati di Keplero e lo fa con una flemma che somiglia al soffio del vento poco prima dell’alba.
“E’ vero – dice – riguardando le azioni c’era un rigore su Milito, un fuorigioco fischiato a sproposito che lo metteva solo davanti al portiere (un signor portiere) e forse il tiraccio di quel nero con i nervi occidentali non aveva oltrepassato del tutto la linea di porta. Ma se il Grifone avesse giocato meglio, il pareggio lo avrebbe portato a casa ugualmente. Il problema è che abbiamo un portiere ruminante, Ruby il Facocero. Come il gibbuto quadrupede di savana, gira sempre al largo delle situazioni, anche di quelle che andrebbero a suo vantaggio. Così quando c’è una pianta succulenta, prima di capire che è un bocconcino prelibato, ci gira attorno tre o quattro volte, la annusa, avanza e poi arretra, si guarda intorno dieci volte. Non è stupidità, è insicurezza e la mamma, che era insicura più di lui, non gli ha mai insegnato che la pianta, come fanno i portieri col pallone, va aggredita senza preoccuparsi del circostante.”
Concordo con Kazungu. Siamo quinti in campionato con un portiere improponibile. “Certi numeri uno della Coca Cola League non li fa…”. Magari tra i pali non hanno lo stesso istinto felino, ma escono meglio incontro all’avversario e soprattutto non seminano il panico nei confronti dei propri giocatori durante le azioni in area. Come fa un difensore a sapere come si muoverà l’improvvisatore carioca se ogni volta ne combina una nuova? Il piazzamento da ridolini sul primo gol dei Bisciastriscia è emblematico. Fa quello che insegnano a non fare già negli allievi a un portiere. Qui in Kenya vedo ogni sabato una partita di serie B e ci sono almeno dieci portieri che scambierei alla pari con quel bravissimo ragazzo, padre esemplare e uomo di fede che è Fernando Moedim. Cito il giovane Agazzi della Triestina, ad esempio. Uno che deve crescere, che ogni tanto per troppa sicurezza ne combina una. Ma almeno ha i fondamentali, li ha imparati nella scuola calcio dell’Atalanta, non sulla spiaggia di Copacabana giocando a beach soccer con Ze Elias e Leovigildo.
Io chiamerei in causa anche il preparatore Spinelli. Si dice che Ruby sia cresciuto in questi anni. Io non lo credo affatto. Attualmente mi da lo stesso affidamento di Muslera alla Lazio, che l’anno passato deridevo credendo che noi avessimo un goalkeeper di altro livello. Ad esempio, Navarro non è una cima, ha meno istinto tra i pali. Ma i fondamentali ce li ha. Non lo vedrai facilmente andare a rucola nella sua area o avanzare e indietreggiare come un pugile timoroso durante un contropiede avversario. Vengano pure gli errori, le papere. Fanno parte del gioco, come la rovesciata mancata di un campione, come il gol mancato da Thiago Motta ieri sera. Ma la mancanza delle più elementari nozioni, quello da un portiere di una squadra che ha il gruppo, i gioielli, la società pronta, la voglia e soprattutto la tifoseria adatte per stare in alto, non è sopportabile ed è incredibile come l’allenatore e la dirigenza non se ne siano accorte. Ieri sera, come nel 3-0 con la Fiorentina (perché per me sarà sempre un 3-0, che è la differenza tra noi e loro) la differenza in campo l’hanno fatta i portieri. Non avremo la fortuna e i soldi per acquistare un nuovo Frey o un Julio Cesar, ma con Rubinho perdiamo tranquillamente 10 punti a campionato, senza rendercene conto. E chi ha visto ieri sera le parate di quel simpaticone di Sereni, se ne può rendere conto. Quante volte abbiamo giocato alla pari con l’avversario e siamo stati puniti da “un episodio?”. Una volta su due, in quell’episodio (Udinese, Lazio, Milan, Fiorentina tanto per dirne subito alcune) c’era di mezzo lui, il terzo uomo a Dallas, il primo tra i pali a Marassi.
Nonno Kazungu mi sente parlare, forse capisce e mi posa una mano sulla spalla. L’alba africana è qualcosa per cui vivere. L’arbitro della partita qui viene accettato finanche con troppo fatalismo, ma tant’è. Come dice nonno Kazungu: “I veri errori, da sempre, non li fa la natura delle cose, li commette l’uomo”.

martedì 3 marzo 2009

RECENSIONE: CESARIA EVORA "VOZ DE AMOR"


La diva scalza cammina per la sua strada. I tempi cambiano, l’elettronica invade la musica, la globalizzazione impone mescolanze di generi, collaborazioni improbabili, duetti virtuali. Cesaria Evora resta a piedi nudi, rifiuta di indossare qualsiasi suola del compromesso, che gli faccia perdere aderenza con la sua terra, l’arcipelago di Capo Verde.
Ci avevano provato, a fare della poco appariscente e non più giovane Cesaria una stella di prima grandezza: nel precedente album “Sao Vicente de longe” l’avevano convinta a farsi scrivere una canzone da Pedro Guerra, a cantarne una in portoghese con Caetano Veloso, a farsi accompagnare dalla chitarrista e cantautrice americana Bonnie Raitt. I discografici europei e americani hanno fiutato nella regina della Morna, una nuova operazione Buena Vista: Capo Verde in tutto il mondo, d’altronde il suo capolavoro, “Cafè atlantico” ha venduto ovunque. Hanno anche provato a fare di peggio, remigando alcuni suoi brani in una raccapricciante versione etno-techno, per lanciare la Coladera, il ballo tipico delle isole al largo della Nigeria, in discoteca.
Ma l’antidiva è rimasta a piedi scalzi e ha deciso di proseguire la sua avventura musicale con la Lusafrica, utilizzando le multinazionali (Bmg, in questo caso), soltanto per distribuire i suoi album. Così torna sul mercato con un intenso e quanto mai classico disco dal titolo “Voz d’amor”. Torna alle atmosfere di casa sua, quelle di “Cafè atlantico”, alla malinconia soffusa e lontana delle sue povere isole, al vento a raffiche di chitarre acustiche, alle onde cristalline di pianoforte e ai canti degli uccelli di violino e fisarmonica. L’attacco, “Isolada” è già una meraviglia, pronto a diventare uno dei suoi cavalli di battaglia. Già, perché la forza di Cesaria Evora non è soltanto nella voce espressiva, pulita e sofferta, ma nel fatto che ancora oggi, nonostante la ricchezza sopraggiunta in tarda età, preferisca passare buona parte dell’anno nel suo arcipelago e precisamente nell’isola di Mindelo. In questo modo frequenta compositori e musicisti che hanno da proporle morne nuove e canzoni che in mano a lei profumano intensamente di meraviglia. Così accade quando comincia ad incalzare la danza, in “Monte Cara” e in “Amdjer de nos terra” in cui il sassofono prende il sopravvento, ma la fisarmonica gestisce anche e caviglie tropicali. “Voz d’amor” è un disco suonato magistralmente e tecnicamente perfetto che stupisce per la passione con cui Cesaria interpreta canzoni che a primo ascolto potrebbero sembrare copie di altre del passato, ma la morna è come il blues, vive di intensità e di particolari, il dialogo tra chitarra e violino in “Ramboia”, l’incantesimo di “Milca ti lidia” e l’inafferrabile atmosfera di “Nha curacao tchora” lo confermano. “Voz d’amor” è l’ennesimo bel viaggio a piedi scalzi nella musica di una regina. E quando si è arrivati viene subito voglia di ripartire, magari riascoltando “Cafè atlantico”.

Alfredo del Curatolo

lunedì 2 marzo 2009

COME NASCONO LE LEGGENDE MALINDINE: "VERONICA LARIO WAS HERE"

Mai come quest’anno Malindi e la costa keniota hanno suscitato interesse dei media nazionali per l’affluenza di Very Important Persons. Politici, uomini di sport, spettacolo, cultura (poca) e mondanità (tanta) hanno fatto parlare di sé tra noci di cocco, aragoste e barriera corallina. Ma a Malindi, vip o non vip, basta poco per creare le leggende. Con un po’ di sole in testa, suggestione da passion juice ed erbe di savana, puoi vedere chiunque e diventare tu stesso un’agenzia stampa del gossip.
Eccovene un esempio.

La semiresidente similbresciana era esaltatissima.
Aveva riconosciuto la signora mezza abbronzata mezza ingioiellata mezza ritoccata mezza leopardata e mezza rintronata “dico io, due ore e mezza per scegliere un paio di tessuti…” che era appena uscita dal negozio del sarto Sharif Shabir Rashid Amin Sashim…”non mi ricordo mai come si chiama…”
Ma sì, era proprio lei, non ci si poteva sbagliare!
”Voglio ordinare per mio marito gli stessi pantaloni lunghi che ha fatto fare la signora, con quella fantasia lì…o sono bermuda…”
Ci pensò un attimo, valutò l’altezza di suo marito e quello del marito della signora.
“No, sono pantaloncini corti…”
Poi prese in mano il cellulare e compose un numero in fretta.
“Tafadhali, nambari ya piga simu apatikani qwa sasa…”
Ma vaff…
Magari è la fretta, avrò sbagliato a digitare.
Infatti.
“Tesooooro, Deda sei tu? Non puoi capire chi c’era qui da Shabrifschidamin un minuto fa! La Veronica Berlusconi! Ma te lo giuro…a Malindi, pazzesco… eeeehh ma è un po’ invecchiata, eh? Sì, sì, ha sempre il suo bel davanzale…ma si vede che è rifatto…come le labbra…no, nonò…un vestitino bianco semplice…ha preso dei pantalon…cini da uomo, ma allora dico io ci sarà anche Silvio, no? Ma saranno da Briatore? Oh, mamma mi prenoto subito una settimana di cure di bellezza, così me li frequento…”
Infilò il cellulare nella borsa, ma nell’euforia scelse quella appesa perlinata, al posto della sua. Acquistò senza farci caso anche un kikoy, tre parei, due pigmei e sei copri-zebedei.
Pagò e uscì di fretta alla ricerca di Veronica, inciampando in un questuante ubriaco di mnazi e finendo addosso a un boda-boda.
“Twende!”
“Non ho bisogno di tende, grazie”
“Dove porto bella?”
“Portobella? Che m’hai preso per un pappagallo? E levati di mezzo…”
Veronica aveva appena voltato l’angolo.

Deda tornò verso la piscina costeggiando il vialetto di buganvillee, prese in mano un bicchiere di roba colorata e sorrise agli ospiti.
L’ora dell’aperitivo in piscina, in Africa, è incantevole, ma senza l’aperitivo in piscina sarebbe solo un’ora e basta. Per di più in Africa.
Si avvicinò al bordo e sciolse il pareo, per poi riannodarlo più lasco.
“Mi hanno chiamato da una boutique…non indovinerete mai chi c’è a Malindi…”
“Uomo o donna?” lanciò una bionda sui sessanta con la pelle abbrustolita.
“Coppia!” ammiccò la Deda mordicchiandosi il silicone.
“Totti e Ilary!” urlò un grassone di Pomezia che affondava la manona in un vassoio di samosa.
“Ma nooo, il Pupone è a Chale Island a fare i fanghi…poverino, sta male…” disse un’ex bomba sexy che era rimasta solo bomba, cercando approvazione dal marito giornalista, che seguiva in trance le forme della giovane donna delle pulizie che riportava nella casa padronale la biancheria stesa.
“Macchè, di più…” disse la Deda.
“Brad Pitt e la Jolie” fece l’Angelica, salendo le scalette e controllando che le sue natiche uscissero dall’acqua insieme al resto del corpo.
“Ancora di più…”
“Ma poi quelli non vengono più in Kenya… lei preferisce la Namibia” disse l’abbrustolita.
“Che c’è un mare di merda” disse l’Angelica recuperando le chiappe.
“E perché qui? Siamo mica in Costa Smeralda, cocca…”
”Ma ci sono le aragoste a dieci euro al chilo…”
“Dai, fàmola finita – grugnì il grassone – chi ce sta?”
“DADADAM! C’è la Veronica… e sembra anche Silvio!”
“Ma noooooooooo!”
“Davvero?”
“ E dove?”
“Mah, da Briatore… dove sennò?”

La similbresciana si liberò del boda boda, lasciando mezzo vestito tra i raggi della ruota posteriore, evitò un tuk-tuk in frenata zigzagante e raggiunse l’altro lato del marciapiede.
L’inserviente del negozio di utensili stava riportando le bacinelle colorate all’interno. Per fare un viaggio solo le aveva impilate in una colonna unica, alta ben più di lui.
Potè solo avvertire la furia bianca che lo travolse, mentre effettuava una virata di centottanta gradi.
Fu un tripudio di catini, che arrivarono anche in strada, su un pick-up e addosso al passeggero dietro di una motocicletta, che ne prese uno al volo e se lo portò via.
L’inserviente non fece caso al suo polso slogato, contava le trattenute sullo stipendio.
Trecento scellini a bacinella, fanno almeno mezzo salario.
Passò un altro tuk-tuk.
“Sciaaak”
Un altro pezzo di stipendio.
La similbresciana gli rovesciò in testa i catini restanti, gracidò qualcosa nella lingua ufficiale di Malindi e riprese la sua corsa.

Il giornalista marito della bomba si era già asciugato, diede una sorsata veloce al cocktail e recuperò il cellulare.
“Parlo con la redazione?”
L’abbrustolita chiacchierava invece contemporaneamente con due persone, e teneva un terzo telefonino in mano, pronto per l’uso.
Il grassone, fischiettando l’inno di Forza Italia, componeva a sua volta un sms.
La Deda cercava suo marito, roba che a quell’ora non lo faceva mai ma proprio mai.
E lo sapeva bene anche la donna delle pulizie.
Questa volta le era andata bene…roba di cinque minuti e la stessa mancia di quando è mezzora.
“Gilberto…c’è Silvio, c’è Silvio…come si chiama quel suo consigliere che conosci bene? Prova a chiamarlo…magari è qui anche lui…”
“Ah…arrivo cara…”
La voce (non quella del marito della Deda con la donna delle pulizie) si diffuse per tutta Malindi in un quarto d’ora.

La similbresciana aveva svoltato l’angolo.
Entrò nel primo negozio ma vi trovò soltanto, nell’ordine: un vecchio indiano addormentato che usava la barba bianca come cuscino, il commesso che rovistava con perizia con il dito medio nel suo naso e un bambino olivastro di sei sette anni che faceva i conti e consegnava lo scontrino a un turista tedesco.
Uscì di fretta, si liberò con una gomitata degna di Materazzi di un cambista in nero, entrò in tackle scivolato su un beach boy con la maglia del Manchester United e saltò a piè pari i tre gradini che la riportavano in strada. Poi la vide!
Veronica era uscita dalla gioielleria.
Madonna se era lei!
Alzava il braccio come per chiamare qualcuno, probabilmente l’autista.
Bisognava fare in fretta per bloccarla. Solo un attimo, presentarsi. Ringraziarla. Di che? Di essere a Malindi…di essere la First Lady.
La similbresciana vide passare un tuk-tuk verde pisello. Un ragazzotto locale coi capelli da rasta lo fermò e fece segno a Veronica di avvicinarsi.
Ma cosa voleva fare quell’energumeno con la signora Berlusconi?
Bisognava assolutamente fermarla!

Mohamed se l’era promesso: domani vado da mio cugino Bakari a riparare questi dannati freni.
Per fortuna con il tuk-tuk è sufficiente andare piano e avere sempre la prontezza di riflessi per sgattaiolare via, quando ti trovi davanti un ostacolo.
Ma un ostacolo improvviso come un baule di donna muzunga in mezzo alla stretta stradina della città vecchia, Mohamed non se l’era mai trovato davanti.
Con una fila di auto parcheggiate da una parte, i gradoni del marciapiede dall’altra e un tuk-tuk fermo davanti, non puoi né accelerare né tantomeno scartare di lato, per evitare il baule.
L’impatto fu abbastanza violento, ma Mohamed con l’aiuto di Allah riuscì a contenere i danni, andando in testacoda e spogendosi dall’abitacolo come un esperto velista su un trimarano.
Con il piede d’appoggio e una mano teneva il tuk-tuk in posizione verticale, con l’altro piede assestò un calcione nel fondoschiena alla muzunga, evitando così che sbattesse la testa sul mezzo.
La vide rotolare come un sacco di farina di mais in mezzo alla strada e terminare la sua corsa contro un cambista in nero che era già a terra per conto suo, con il naso sanguinante.
Lei invece, prima di provare a rialzarsi e capire che le fratture erano più di una, vide Veronica baciare il rasta, consegnargli le borse della spesa e salire sul tuk-tuk verde pisello.
Con un forte accento napoletano la sentì urlare al conducente: “Raaafiiiiki, portamaccasa. Stongo alla Biringani House, a Majengo. Haraka Haraka, uagliò!”.
Non trovò nemmeno il cellulare nella borsa per avvertire la Deda.

Dopo poco meno di un’ora l’Ansa di Roma batteva la notizia:
"Veronica Lario fa shopping a Malindi. La moglie del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stata vista nella località turistica keniana. Secondo fonti ben informate sarebbe ospite della coppia Briatore-Gregoraci. Il premier invece si trova a Villa Certosa, in Sardegna."
La smentita ufficiale di Palazzo Chigi arrivò prima della similbresciana in ospedale a Mombasa. Ma ormai era troppo tardi. Per Malindi ufficialmente Veronica Lario Berlusconi ha passato qui le vacanze di Natale ed ha fatto acquisti in un negozio di tessuti e in una gioielleria.
Perché a noi, qui, non sfugge mai nulla…