domenica 21 febbraio 2010

"LEI E' DIVERSA DA TUTTE LE ALTRE" di Fedele Turci L'Odoardo


Una delle espressioni più ricorrenti che si sentono a Malindi, quando ci si imbatte in un uomo (magari di una certa età) che si è fidanzato con una ragazza locale, è “…lei è diversa da tutte le altre”. Non è necessario essere pratici della costa keniota, basta essere “uomini di mondo”, per dirla alla Totò, avere fatto il militare a Cuneo come Flavio, per immaginarsi la scena e fare finta di niente.
Un baby-pensionato dai capelli brizzolati, l’aria beata e i neuroni un po’ abbrustoliti dal sole, mano nella mano con un’avvenente e sinuosa ventenne di Nairobi.
“Lei è diversa da tutte le altre”.
Intanto quest’espressione evidenzia già un atteggiamento “difensivo”, una mezza ammissione che si conosce e si diffida dell’universo femminile keniota. Ma solo keniota o delle donne in generale?
Allora, invece di deridere il baby-pensionato, proviamo a capire.
“Tutte le altre chi, mi scusi…”
“Beh, dài…ci siamo capiti. Voglio dire, lei non è l’avventura di una sera, la ragazza conosciuta al beach-party…”
“Ah no?”
“No, assolutamente! Intanto Jasmine l’ho incontrata in banca”
“Ma davvero?”
“Già. Stava inviando soldi a sua sorella perché mantiene agli studi la nipote”
“Se posso essere indiscreto, come si guadagna da vivere la ragazza, permettendosi di mantenere la nipote agli studi?”
“E’ questo il problema! Quando è arrivata a Malindi ha trovato lavoro presso l’azienda di uno svizzero come contabile, ma poi lo svizzero (quel maiale) ci provava e lei è stata costretta a licenziarsi”.
“Che disdetta!”
“Ma per fortuna, sulla sua strada ha incontrato me! E io ho incontrato lei…adesso viviamo insieme e magari tra un po’ ci sposeremo…”
Ragioniamoci. A parte la storiella dello svizzero, siamo in presenza di un incontro singolare, che non è da denigrare così, per partito preso.
Il baby-pensionato e Jasmine sono due anime in cerca di qualcosa, due persone che possono darsi e ricevere ciò di cui hanno bisogno, che poi è anche quello che le fa stare bene con se stesse, in mancanza di altri sogni e di altre possibilità. Per intenderci: Jasmine è nata povera, in Africa, con un padre che (se non l’ha fatto) avrebbe voluto abusare di lei fin dall’età di nove anni. Ha atteso la maggiore età per scappare più lontano possibile dalla sua realtà. Seicento chilometri, sul mare. Unica arma a sua disposizione: la bellezza. Abbiamo visto donne in Italia fare carriera e poi ripulirsi anche l’immagine, partendo da situazioni molto meno drammatiche. Le starlette della televisione sono solo la punta dell’iceberg, per ogni velina da calciatore c’è una ragazza che si fidanza con un dirigente Rai o Mediaset di quarant’anni più vecchio? Perché lo fa? Per amore? O perché “lei è diversa da tutte le altre?”. Assolutamente normale, quindi, che la nostra Jasmine, nel Terzo Mondo, per guadagnare soldi, si conceda ogni tanto a qualche ricco mzungu. Ed è quasi da lodare il fatto che non si sia abbandonata alla lascivia delle notti brave malindine, dell’alcool e del guadagno facile. Lei cerca una relazione stabile, che le permetta una vita tranquilla e agiata. Almeno fino a quando il baby-pensionato avrà fondi a sufficienza per accontentarla…
E lui? Anche lui evidentemente ha bisogno di una donna come Jasmine. Forse perché arriva da un matrimonio fallimentare in Italia? O perché, nonostante abbia il chiodo fisso, in fondo al suo cuore è un sentimentale? O anche perché per la prima volta nella sua vita si trova davanti all’incomparabile bellezza di una venere nera e per giunta parlante che gli sussurra dolci parole d’amore?
“Se non ci arrivi, non puoi sapere cosa si prova. Io finalmente, a cinquantotto anni, sono innamorato. Mi sento di nuovo un ragazzino!”
Il viagra fa il resto.
Lei non è diversa da tutte le altre, è semplicemente più saggia e più realista. Avrà pure i suoi momenti di tristezza, forse il suo amante compaesano, ma sa anche che è l’unico modo per avere una casa con i sanitari e la televisione, un’automobile e un po’ di speranza in più per il futuro.
Perché alla fine è questo mondo a non essere mai diverso da tutti gli altri.

mercoledì 17 febbraio 2010

NONNO KAZUNGU E FACEBOOK


La giornata è a dir poco epocale, qui a Kakoneni. Precisiamo: non che la Natura stia soffrendo più di tanto il cambiamento climatico, l’effetto serra, le marmitte catalitiche e le altre simpatiche novità introdotte dall’ingordigia umana. Il grande baobab ha smesso le foglie come tutti gli anni di questi tempi, il cielo si è liberato delle sue lenzuola di nuvole per il troppo caldo, la polvere rossa delle strade sterrate ora si appiccica con più voluttà al corpo, fissandosi con una leggera, invisibile patina di umidità.
La novità è che il satellite della Orange Kenya, una delle linee di telefonia mobile controllata dallo Stato, “prende” anche qui. Così lo Svaporato ha caricato in macchina il suo portatile, protetto da strati di panno, plastica e da un borsone, e come cuore di cipolla l’ha sfogliato davanti agli occhietti vispi di Nonno Kazungu.
“Oggi ti spiego Facebook”.
Il vecchio ascolta, come è sua consuetudine e come sempre ha fatto per quarant’anni dai mzungu, come pretende i nipoti facciano sempre con lui, prima di lanciarsi in domande, supposizioni e voli di fantasia leggeri e imprevedibili come quelli dell’aquila pescatrice, prima di lanciarsi sulla preda.
“E’ come partecipare alla vita del villaggio, Kazungu. Un villaggio in cui decidi quali rafiki invitare e in cui ognuno può chiederti di entrare. Ma non che a tutti interessi cosa succede nella tua piccola tribù. Più che altro è un modo per sentirsi meno soli, per affiliarsi e far parte di un’altra tribù, quella che partecipa a una vita sociale che in realtà non esiste”.
Kazungu squadra lo Svaporato come un matto, ma sa che qualcosa di vero e importante ci deve essere, altrimenti questo libro in faccia non può essere sfogliato da milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Nel frattempo, si avvicinano curiosi anche l’elettricista Makotsi, il barista Kibonge e il piccolo genietto Kitsao, di ritorno da scuola.
“Qua noi ci sentiamo soli quando non ci arriva l’acqua - precisa il nonno – per il resto sappiamo di dover contare sulle nostre risorse. Sapere che tanta gente si interessa a noi, ma non ci conosce e non fa nulla per migliorare la nostra vita, quali benefici ci reca?”.
“Forse un sollievo momentaneo. Il problema è quando tutto ciò diventa un abitudine” risponde lo Svaporato, d’istinto.
“Quel che non capisco – blatera Kibonge, stappando la prima tusker della giornata – è perché la gente cerchi di risolvere i propri problemi parlando e commentando quelli degli altri”.
“Forse parlare delle beghe altrui fa sentire meno pesanti le proprie… - azzarda Makotsi – anche in città, a Malindi, c’è chi fa così. Davanti all’ospedale ci si ferma per bere un succo di tamarindo da “Mama dieci scellini” e si parla di tutti quelli che sono entrati lì dentro e non sono ancora usciti. Poi si passa al Governo, ai parenti che hanno perso il lavoro, e così via”.
“Ci si conosce sempre meno e ci si invade sempre di più” sentenzia da lontano Kalama.
Nonno Kazungu osserva i commenti ai post di Facebook, guarda le foto, legge le frasi. Storce il naso quando vede che qualcuno ha inviato un bacio virtuale allo Svaporato.
“Ma lo sanno quanto sei sudato e appiccicoso, qui a Kakoneni, prima di mandarti un bacio?”
La compagnia se la ride.
Al Safari bar hanno capito, e ci prendono in giro per l’ennesima volta.
Lo Svaporato annuisce. Quanto più gli esseri umani decidano di dividersi, di spersonalizzarsi, tanto più hanno bisogno di sentirsi uniti. Criticando un politico, sdegnandosi per un video sulla malasanità, iscrivendosi ad un gruppo per la salvaguardia di un animale che non hanno mai visto dal vero e di cui avrebbero soltanto paura, se se lo trovassero davanti come capita alla gente, qui alle porte della Savana. Tutti nel calderone, con una sola immane paura: quella di scoprire se stessi, quella di affrontare la vita vera.
“Non so se sia proprio così, rafiki – conclude Kazungu – forse per te è un modo per sentirti ancora vicino alle persone con cui sei nato, ai tifosi della tua squadra con cui condividi valori importanti. Secondo me voi mzungu dovete sempre esagerare: spesso non vi conosce completamente nemmeno vostro fratello, il vicino di casa vi ignora e voi ignorate lui, ma in Facebook avete 1.344 amici…”
“Lo voglio, lo voglio, lo voglio! - urla indemoniato Kitsao – a me non frega niente che la gente mi conosca, sono io che voglio conoscere, voglio sapere, voglio essere sempre informato di tutto!”.
Nonno Kazungu allargò le braccia come reggesse un mantello invisibile, e accolse il nipote.
“Quel che vuoi sapere, piccolo, lo puoi apprendere dalla Natura, viaggiando, potendo guardare le persone negli occhi. Il nostro fratello bianco ci ha mostrato un gioco divertente, un passatempo come il bao o la caccia alla faraona. C’è tanto ancora da imparare, da vedere, da vivere. Non avere mai paura di conoscerti, di dover fare i conti con la tua condizione. Non sarai mai uguale a un’altra persona soltanto perché ne condividi il video o perché ti piace il suo elemento. Lo vedi il grande baobab? A lui non frega niente se una sequoia in Madagascar viene a sapere che sta perdendo le foglie. Vorrebbe solo che Kibebe lo scemo, quando la sera si accuccia in mezzo alle sue radici, si addormentasse felice, perché ha vissuto un’altra giornata inutile in cui un bambino gli ha sorriso, una vecchia gli ha offerto un piatto di polenta e un cane pulcioso gli si è avvicinato per farsi accarezzare”.

domenica 14 febbraio 2010

MALAIKA (CON O SENZA LA K)


MALAIKA (con o senza K?)

Malaika, era la canzone che suonava l’orchestra
quando c’incontrammo in un bar di Watamo
Malaika cantavi e sembrava una festa
E quel giorno mi hai detto “ti amo”.
Nakupenda malaika, passavano i giorni
E l’amore scandito dal rumore del mare
Dai miei viaggi in Italia e dai miei ritorni
E tu con parenti e bambini da aiutare
Vestiti, la casa ed i soldi andavano via
Ed anche il tuo amore era sempre più raro
Malaika, giuravi di essere solo mia
Ma intanto chiedevi gioielli e denaro
L’ultima volta sei stata persino sfuggente
Suonava “Malaika” quel giorno la radio
Mi hai detto “mi vesto immediatamente”
Ma ho visto un figuro dentro l’armadio
Poi ho sentito qualcuno saltar dal balcone
Come in savana la gazzella che scappa
Mi hai detto “scusa tesoro, ho perduto un bottone”
Malaika, tu invece hai perduto la Kappa.

lunedì 8 febbraio 2010

IL BARBIERE (ROSSOBLU) DI MALINDI


Chissà quanti altri mestieri potrebbe svolgere Charo, sempre dignitosamente e in maniera un po’ disincantata com’è lui, se solo ne avesse il tempo e la possibilità.
Lo conosco dal 2005, quando si presentò all’Oasi, lo “stabilimento balneare” che avevo preso in gestione con mia moglie a Malindi. “Ho già lavorato qui l’anno scorso, conosco l’ambiente e anche tanti clienti che vengono qui ogni anno” mi disse, per convincermi. “Però ho fatto anche l’idraulico, come mio fratello, il muratore e il giardiniere”.
Come agli altri che arrivavano, millantando carriere più o meno fasulle, referenze anche argomentate, raccomandazioni di fantomatici italiani che avrei dovuto conoscere o professionalità nel loro ambito, gli misi subito una vanga in mano. Prima di aprire il bar ristorante con i lettini sulla spiaggia più selvaggia di Malindi, c’era da spianare lo spazio compreso tra la veranda e gli ombrelloni, venti metri di sabbia dorata ora ammucchiata in altissime dune, portate dai monsoni di giugno e luglio.
Senza fare obiezioni o smorfie strane, Charo cominciò a spalare. Cosa che non fece il presunto chef Kalama, che lasciai a casa dopo due giorni, o il “beach attendant” Harrison, che trovai a dormire all’ombra di una palma, trasudante brandy trafugato nel magazzino del bar.
In poco tempo, e per tutta la stagione, Charo era diventato capocameriere, con il suo bello stipendio di 80 euro al mese. Una pacchia, rispetto a tanti coetanei.
Effettivamente molti clienti dell’anno prima lo cercavano e lui, con furbizia e mestiere, se li coccolava con qualche parola d’italiano imparata sui libri che esaminava nell’ora di pausa, o con particolari attenzioni: “i gamberoni poco cotti come sempre, vero? L’anno scorso, bwana, mi chiedeva sempre l’avocado, quest’anno abbiamo in menu un’insalatina col granchio e l’avocado…vuole assaggiarla?”.
Insomma, Charo ci sa fare. Per questo, terminata l’avventura all’Oasi, insieme a pochi altri dipendenti dei trenta che avevo in quel piccolo paradiso di cui non mi hanno rinnovato l’affitto, l’ho portato con me nel piccolo wine bar che ho aperto a due passi dal Casino. Un’altra stagione positiva, ma un'altra chiusura inaspettata. Sembra proprio destino che in Africa non si possa programmare nulla a lunga scadenza. Così Charo ha trovato lavoro in un elegante campo tendato in mezzo alla savana dell’Amboseli, a cinquecento chilometri dalla costa.
Due mesi di lavoro serrato e poi una settimana di ferie per tornare al villaggio dai parenti. Stipendio ottimo e possibilità di far fruttare la sua esperienza in ristoranti italiani. Anche lì, in poco tempo è capocameriere. E lo stipendio cresce, ora solo 120 euro al mese, abbastanza per pensare al matrimonio.
Quando due anni fa, nel pieno della crisi seguita alle violenze post-elettorali a nord del Paese, non avevo lavoro da offrirgli. “Sto aprendo un’agenzia d’informazione e un portale internet, Charo. Al massimo avrò bisogno di un ragazzo di bottega da iniziare al mestiere di giornalista”.
“Faccio io il giornalista!” mi risponde con entusiasmo.
“Ma se non hai fatto nemmeno le superiori…”
“Solo i primi due anni, poi ho lasciato per mancanza di soldi…però ero il migliore della classe a scrivere, e mi piace leggere. Quando posso, sfoglio un libro e vado nei luoghi pubblici dove si riesce a scroccare la lettura del giornale”.
Ci rifletto sopra qualche giorno. Poi, come quando gli misi in mano la vanga, lo porto a casa.
“Intanto che si concretizza il lavoro dell’agenzia, c’è da imbiancare tutta la villetta. Prima i muri esterni, poi il pavimento e tutto il resto”.
Senza battere ciglio, Charo si mette al lavoro e in poco meno di un mese la casa è come nuova.
Un lavoro da professionista, senza sbavature.
Charo è pronto per fare il giornalista. Il mio regalo supplementare sono i soldi per sposarsi.
Sono passati quasi due anni, e oggi Charo partecipa a conferenze stampa con il prefetto e parlamentari kenioti, si è fatto amico il vicecommissario della polizia che gli passa le informazioni, gioca duro con i colleghi delle radio e dei quotidiani per farsi scucire notizie e rivelarne qualcuna in cambio…insomma, conosce già i segreti del mestiere. E’ fedele alla regola delle cinque W che bisogna inserire in un articolo (who, what, when, where e why) e tenendola sempre presente inizia anche a scrivere articoli accettabili, che spesso devo soltanto tradurre in italiano.
Per il Paese in cui viviamo, è un cronista fatto e finito.
Non solo, è coinvolto attivamente nei miei progetti di solidarietà, è nel comitato esecutivo della scuola calcio del Genoa a Gede, ed è stato lui a fare lezione ai ragazzi della scuola elementare di Mida a cui abbiamo raccontato la favola dei calciatori della squadra più antica d’Italia che si allenano in savana per imparare dagli animali come essere più agili, furbi, veloci e forti.
Dopo queste lezioni, i bambini hanno fatto dei disegni che ho consegnato ai calciatori del Grifone. Alcuni davvero sorprendenti.
Charo mi ha chiesto più volte della mia passione per la solidarietà (con la Onlus Karibuni, a parte il progetto della scuola calcio, abbiamo aperto anche tante botteghe artigiane, costruito pronto soccorso, scuole, reparti ospedalieri) e di quella per il Genoa, e ho provato a spiegargli che le due cose, spesso, camminano sulle stesse piste. Conosce le storie di Nonno Kazungu e sa che vorrei aprire il Safari Bar a Kakoneni, così come sogno che la scuola calcio possa salvare tanti ragazzini dalla strada e da una vita precaria.
Storie uguali a quelle dei miei libri.
"Io sono con te, bwana".
Idraulico, muratore, giardiniere, imbianchino, cameriere, giornalista e insegnante.
Charo all’occorrenza può fare di tutto.
Proprio per questo si vorrebbe mettere alla prova con un nuovo mestiere.
Ho capito cosa mi piace in Charo. In qualcosa mi somiglia, o forse ha assorbito la mia filosofia.
Allora abbiamo deciso che apriremo un’attività insieme.
“Nel quartiere in cui vivo manca un barbiere – assicura – qui il parrucchiere per uomo è un mestiere facile, non servono forbici o pettini. Basta un rasoio elettrico, uno specchio, una sedia e una scopa. Più ovviamente la baracca sulla strada per poter esercitare”.
Quantifichiamo. Sono circa 100 euro, più 12 al mese per l’affitto della baracca e qualcosa per dipingerla e renderla accogliente.
“Ci metterò un “ragazzo di bottega” – mi dice ridacchiando – proprio come hai fatto tu con me. Così diventerò un piccolo imprenditore!”
Bastano cento euro per un sogno…e basta vedere la fotografia per capire che i sogni, anche in Africa, possono avere i colori più belli del mondo.
Charo e il suo socio Freddie hanno deciso che, nel nome del Grifone e della piccola e media impresa (ma quella vera, mica quella di Confindustria, sindacati e ministri del Welfare), il Genoa Barbers Shop diventerà un franchising. Stiamo già andando in giro a cercare zone in cui ne possiamo aprire altri, con altri “ragazzi di bottega” a cui poter dare uno stipendio. Chissà, magari anche lui, un giorno, avrà voglia di inventarsi qualche altro mestiere, crederci, crescere e aiutare altri fratelli...

sabato 6 febbraio 2010

NONNO KAZUNGU E LE RIFORME

Kakoneni era la solita oasi di pace.
Era una mattina “che più africana di così c’è solo nel Masai Mara”, come era solito dire Kadenge Davide. L’orchestra di suoni della natura si intrecciava con le partiture jazz del genere umano, così il frullo dei passerotti e il cinguettio dei tordi coronati s’intrecciava a meraviglia con gli acuti gridolini degli alunni della “Kakoneni Primary School” nella radura intorno all’edificio, il belante sax soprano delle caprette alla corda sembrava accordarsi perfettamente con il contrabbasso della sega a mano che mordeva il vecchio banano.
Nonno Kazungu, come un abile direttore della filarmonica più antica del mondo, agitava lentamente la pipa come fosse una bacchetta e ogni tanto se la riaccendeva.
La pipa era un lascito della sua lunga militanza con gli inglesi, prima di diventare maggiordomo di fiducia di tanti italiani di Malindi, un vezzo che lo differenziava da ogni altro vecchio saggio di quei luoghi e anche per questo Kazungu, pur non essendo uno stregone, veniva tenuto in grande considerazione e rispettato da tutti.
Il nipote Kadenge, detto Davide l’Italiano per via delle cinque mogli bianche e di altrettanti figli messi al mondo con loro, era tornato al villaggio per controllare i progressi dei lavori di costruzione della sua casa per la vecchiaia.
“Alla soglia dei quarant’anni è ora che ci pensi seriamente” lo aveva rimproverato il nonno.
“Ma io ci ho sempre pensato, questo terreno lo comprai con l’aiuto della seconda moglie…”
Tutto vero.
La prima era una ragazzina, conosciuta sulla spiaggia di un villaggio turistico e rimasta incinta per caso. Il matrimonio, in un grigio e freddo febbraio veneto, era stato imposto dai genitori di lei ma il giovane Kadenge aveva resistito pochi mesi nell’azienda del suocero, non senza sperimentare l’attrazione sulle segretarie e alcune amiche della suocera. Afflitto e trafitto al cuore dalla nostalgia, era tornato a Malindi inventandosi una malattia del nonno.
“In Italia dicono che così ti ho allungato la vita” cercò di giustificare la balla.
“Guarda che conosco anch’io le cavolate degli italiani, quello succede quando mi sogni morto…”
Epico fu il discorso del giovane beach-boy alla ragazzina che dopo qualche mese aveva fatto ritorno in Kenya per cercare di convincerlo:
“Vedi, Sabrina, questa è la mia terra. Niente mi fa più felice di una passeggiata sulla battigia quando la marea sta per risalire. Guardare le onde infrangersi sulla barriera corallina e ascoltarne la voce, seguire con gli occhi i disegni sempre diversi delle nuvole basse che sfiorano l’orizzonte. La mia vita è qui, abbi cura di mio figlio. Ti voglio bene”.
Kadenge non era un bastardo.
Gli assomigliava, ma non lo era.
Quando parlava era sincero e proprio per questo le conquistava tutte.
Alle femmine piace illudersi di avere trovato l’uomo ideale ma, alla resa dei conti con se stesse, sanno che si tratta di una chimera.
Proprio come i giochi delle nuvole quando si cammina sulla spiaggia.
Per un po’ le abbracci con lo sguardo e diventano ciò che vuoi tu, ti regalano sogni e prendono le forme della tua fantasia, ma alla fine ti accorgi che, per quanto candide e sinuose, rarefatte o gonfie di poesia, sono soltanto nuvole passeggere e nulla più.
Kadenge era una di quelle nuvole basse, in carne e muscoli, ma egli stesso sapeva plasmare le sue illusioni. Così bene che non lo si poteva mai biasimare, era come fosse parte della natura selvaggia dell’Africa.
E dalla Natura si accetta qualsiasi cosa.
La seconda, Mirella, invece sembrava già il grande amore e insieme avevano deciso di acquistare il terreno che nonno Kazungu aveva mostrato loro un giorno: non distante dalla strada, vicino alla chiesa ed esteso fino quasi ai confini del villaggio di famiglia. All’interno, due baobab secolari, decine di manghi, banani e un campo da seminare a grano grande mezzo acro.
Arrivò perfino un “architetto” indiano amico di lei, per gettare le fondamenta della casa, portò mattoni bianchi e pietre di corallo, sabbia finissima da cemento e barre di ferro per i muri portanti. Sarebbe stata la villetta più bella di Kakoneni, ma umile e senza fronzoli, nel rispetto della sua gente. Fu il padre, giunto dall’Italia come la furia di un uragano, a portarsela via quando già aspettava il frutto del loro amore. Gestivano un chiosco di frullati, l’uomo arrivò lì una mattina, mentre Mirella dormiva e cercò di corrompere Kadenge.
“Quanto vuoi per mia figlia?”
“In verità… dalle mie parti siamo noi che comperiamo le donne, ma non so se può portarsi sei capre e quattro vacche in aereo”
“Uè, alegher… ciapa minga per el cù… ti ho capito a te, fai il furbetti… vanno bene cinque?”
“Cinque vacche?”
“Cinque zucche, zulù!
Cinque testoni, cinque milioni…quanti scellini sono cinque milioni di lire?”
Kadenge fece il conto mentalmente, usando come unità di misura i plot di Kakoneni e le tariffe delle sue amiche Lulù e Janet.
“Tanti…”
“Allora io ti do cinque milioni se ti dimentichi di Mirella, che torna con me in Italia”
“Lei non vuole tornare in Italia, siamo innamorati e ci sposeremo”
“E se ti trovasse a letto con un’altra…”
“Come?!?”
“Ma sì, dai…un bel paio di corna prima delle nozze zulù”
Kadenge lo squadrò come la mangusta che guarda un serpente presuntuoso.
“Tieniti i tuoi soldi, papà”
“Dieci?”
“No”
“Quindici?”
“Nemmeno per cento”
L’aveva sparata grossa, se si fossero materializzati cento milioni di lire lì davanti si sarebbe sbriciolato come un biscotto al cocco (perché, cinquanta no?).
Ma non si materializzarono e gli parve d’essere prigioniero di un incubo con i sottotitoli in brianzolo.
“Alegher, negher…tanto vinco io…”
Vinse lui.
Chissà, forse Mirella aveva accettato i cento milioni.
Forse ne avrebbe ricevuti di più.
In realtà la ragazza aveva pensato all’avvenire di suo figlio e aveva ottenuto dal genitore di potersi dedicare a tempo pieno al ruolo di mamma, senza entrare nei quadri dirigenziali dell’impresa di famiglia.
Una decisione sofferta, dolorosa, ma resa meno amara dall’atto d’amore per la vita che covava in grembo e per il giovane gioiello d’ebano con cui l’aveva concepito.

Dalla terza moglie in poi, la casa non aveva registrato progressi. Erano state erette otto colonne ma due si erano rivelate storte ed erano state tirate giù. Poi la divertente parentesi di Lawrence Kamongo, il rappresentante di telefonini, che si era improvvisato costruttore (“anche gli italiani a Malindi hanno iniziato così: uno in Italia era parrucchiere e ha aperto un ristorante, un altro faceva il buttafuori ed è direttore d’albergo, un altro ha iniziato come maestro di tennis ed è il più importante costruttore di villette a schiera…”). Kamongo aveva preso in mano la conduzione dei lavori (“mi pagherai alla consegna…”) e nonno Kazungu era riuscito a fermarlo in tempo, prima che il sogno di Kadenge Davide si trasformasse in una cosa a metà tra un mausoleo nubiano e un hangar dell’aviazione eritrea.
Ora, con i proventi della campagna femminile di gennaio (in tempi di guerra e con l’età e la pancetta che avanzavano bisognava accontentarsi: nel carnet di carne anche due tedesche e un’ultrasessantenne tiratissima) aveva ripreso i lavori e veniva lui stesso a controllare due giorni alla settimana, con un giovane costruttore bergamasco, amico dello Svaporato. Uno spirito semplice, per cui il Kenya era soltanto un luogo selvaggio a novemila chilometri da Dalmine. Ci sarebbero voluti secoli a cementificarlo tutto!
“Ma voi la pagate l’Ici?” chiese il bergamasco a nonno Kazungu.
Per uno delle valli orobiche, magari ricevere uno sguardo di compassione da un “giriama” dell’Alto Galana può essere considerato anche motivo di vanto. In ogni caso, il sorriso abbelliva entrambi.
“Dopo vent’anni sono riuscito a pagare il titolo di proprietà del mio terreno, ma noi non siamo mai proprietari di nulla, tocca alla Natura pagare l’Ici…quel che abbiamo noi, e che avete anche voi, è una concessione per 99 anni, rinnovabile”
“Niente tasse sulla casa? Niente Ici?”
“Prova a fare causa a Madre Natura…”
Il bergamasco spiegava che con il ritorno al potere di Berlusconi, lo Stato Italiano avrebbe abolito alcune tasse sulla prima casa.
“Perché, quante case volete?”
“Ah, c’è chi ne ha anche venti!”
“Come gli arabi che costruiscono i condomini?”
“Esatto! E poi le affittano…”
“Ma qui non ci devono pagare le tasse…in Italia perché non le vendono e si tengono i soldi…”
“Perché sono un investimento…magari un giorno valgono di più…”
“Agli italiani piace giocare, al casinò e nella vita…al mondo occidentale piace perdere i soldi per poi rifarli e riperderli…altrimenti non si divertono”
Mentre Kadenge dava disposizioni al capomastro e urlava garbate bestemmie all’indirizzo dei kibarua che avevano approfittato di un suo attimo di distrazione per iniziare a murargli la finestra del bagno, si materializzò Kamongo, con l’aria di uno scienziato che aveva lavorato a lungo su un procedimento chimico che qualcuno, grazie a un colpo di fortuna, aveva trasformato in una formula vincente da premio Nobel.
“Viene bene…vedo che avete tenuto la mia concezione di spazio…”
“La parte esterna della veranda, dici? – disse Kazungu, poggiandogli una mano sulla spalla – sì, si potrà sempre andare sotto il baobab attraverso il prato…”
“Spiritoso…”
“Kamongo, lei paga le tasse?” interruppe il bergamasco, che evidentemente aveva un’ancestrale paranoia italica.
“Poca roba…ma adesso con le riforme cambia tutto…”
“In meglio?”
“Questo lo dirà la storia – sbuffò il rappresentante, sistemandosi la giacca – per me più è grande la coalizione, più fa male il suo bastone…”
“Fa anche rima!” disse Kibebe lo scemo, che nessuno aveva ancora notato, semi-seppellito sotto una montagna di sabbia da cemento.

(fine prima parte)

mercoledì 3 febbraio 2010

ARTICOLO SU FREDDIE DI "MILLIONAIRE" (numero di febbraio)


Sei anni a Malindi, fra 1990 e 1996, dove il padre ha un ristorante. E il desiderio di ritornarci. “Ma prima volevo diventare giornalista professionista, scrivere libri, mettere su una rock band e pubblicare un disco” spiega Freddie (Alfredo) del Curatolo. Nel 2005, a obiettivi raggiunti, Freddie e la compagna Michela (oggi 41 e 32 anni) sono pronti a trasferirsi.
“Qui ci siamo dimenticati code in tangenziale, traffico, smog, freddo nelle ossa… I ritmi di vita sono più umani, la bellezza della natura ti avvolge e ti coinvolge, la gente è pura anche nelle sue manifestazioni negative. E poi c’è il sole praticamente tutto l’anno” spiega Freddie.
L’aspetto economico è fondamentale: “per la nostra villa con giardino a 200 metri dal mare paghiamo 140 euro al mese. La manodopera costa pochissimo e possiamo permetterci l’houseboy (70 euro al mese per 40 ore a settimana), la tata e il custode notturno. Mangiamo pesce squisito tutti i giorni o ogni tipo di verdura e frutta costa poco. Certo, una pizza costa come tre chili di ostriche o dieci ananas! Noi lavoriamo nel turismo (lei come barman in un resort, io come ufficio stampa e direttore del sito www.malindikenya.net), ma le possibilità occupazionali non mancano, dall’edilizia ai servizi”.
Il lusso più grande di Freddie e Michela si chiama Agata Zena e ha un anno. “Io ho 41 anni, Michela 32. Fare un figlio è una cosa seria, per noi, e in Italia sentivamo che non sarebbe stato giusto crescere una bimba da stressati, dedicandole poco tempo, vedendola diventare adulta nel grigiore. Qui si alza ridendo, sta in giardino e in piscina tutto il giorno, ha una tata africana che la accudisce otto ore al giorno e noi siamo sempre presenti e rilassati per lei”.
E dell’Italia non vi manca nulla? “In Italia abbiamo lasciato tutto. Io la possibilità di fare carriera, Michela la famiglia e un lavoro sicuro, i contributi per la pensione, la casa, la macchina. Qui abbiamo poco, ma ci basta. Una tv anni 80 per vedere qualche film, uno stereo, un computer. Coi vestiti che abbiamo ci riempiamo a malapena una valigia. Arriviamo decentemente a fine mese, ogni giorno possiamo permetterci un’ora di mare e abbiamo molto più tempo per stare insieme e coltivare le nostre passioni”. Fra le passioni di Freddie, la beneficenza: il ricavato delle vendite del suo ultimo libro “Genoa Club Malindi” (Liberodiscrivere, 10 euro), sostiene la onlus Karibuni (www.karibuni.org).