mercoledì 28 dicembre 2011

DOVE C'E' MALINDI C'E' CASA?


Sarà un lascito degli antichi romani con le loro “domus”, sarà che abbiamo avuto i primi grandi architetti dell’umanità o semplicemente che siamo sempre stati un popolo di ciabattari. Ma noi italiani abbiamo il culto della casa e lo esportiamo ovunque, anche dove non sarebbe necessario.
Prendiamo il Kenya: per vivere qui, ce lo insegnano gli indigeni, bastano quattro mura anche sottili e un tetto di foglie di palma secca. Se ci rechiamo nell’immediato entroterra, in ogni villaggio di capanne di fango, troviamo sempre almeno una casetta in cemento che ha queste caratteristiche: semplicità di forme, economia di materiali e un’ampia veranda. D’altronde cosa ti vuoi inventare, con il clima che c’è? Per avere sempre un po’ d’aria basta mettere le finestre in asse, fare il tetto piuttosto alto e non controsoffittare, tirando al limite sottili fili da pesca molto fitti sotto il tetto di makuti, per evitare che vi possano cascare in testa pipistrelli o serpenti.
I britannici, guarda un po’, costruivano proprio così le case. Tutte le villette si assomigliavano. Le ampie verande fungevano anche da salotto, chiuse con cancellate di ferro da lucchettare per evitare intrusioni. La cucina aveva sempre un disimpegno nel retro e le camere sparivano in una sezione “notte”, rimanendo chiuse fino a sera e al riparo dalle zanzare. In più le loro case erano immerse nella natura del terreno che le ospitava. Guai a togliere un baobab, a segare una palma, a stendere un’acacia o trapiantare un flamboyant. Così è rimasta Watamu, nel lato mare, così è per buona parte Diani, in costa sud.
Noi italiani, invece, non ci accontentiamo di una semplice dimora. Macché! Noi siamo quelli che nel medioevo s’inventavano lo splendore di San Gimignano, che al sud hanno ricavato capolavori dal tufo, che sanno costruire chalet di legno che resistono persino al ghiaccio e alla neve. Siamo quelli delle case colorate liguri, dei trulli di Alberobello, delle antiche cascine. Edilizia basilare, di sopravvivenza e di vita sana a contatto con la natura e con la zona di appartenenza.
Ecco cosa avremmo potuto esportare nel meraviglioso Kenya! Non solo perché saremmo stati in sintonia con questi luoghi, ma perché la qualità della nostra vita sarebbe migliorata, che è l’aspetto che buona parte di chi si è trasferito in Kenya ha considerato.
E invece no. A parte qualche raro caso, ci siamo affidati al nostro lato moderno, all’inventiva di fior di palazzinari che hanno cementificato l’Italia del boom e che proseguono ancora adesso, dove c’è un filo d’erba libero. Ora Malindi può somigliare anche a Viserbella di Rimini, a Marina di Cecina o a Lido di Jesolo. In compenso abbiamo ville hollywoodiane (che se non le riempi di arie condizionate hanno la temperatura del New Mexico), parodie della Costa Smeralda, tenute in stile Franciacorta e palazzoni in stile Ostiense Lunga.
Questo perché per noi italiani la casa è tutto, il guscio indispensabile. Non è solo rifugio, alcova, reggia. E’ anche un biglietto da visita, uno specchio riflettente, dice chi siamo e come siamo fatti. Dormire, quella è l’ultima cosa! La casa è fatta per ricevere, per ospitare, per vantarsi. Guai a passare più tempo all’aria aperta che in casa, a socializzare col primo arrivato. In casa nostra siamo noi a decidere chi varcherà la soglia. Siamo i padroni, gli imperatori del nostro nido.
A Malindi i piccoli imperi non si contano. I signorotti italiani hanno sotto di sé un piccolo esercito che magari non marcia sempre dritto, ma difficilmente si ribella: houseboy, cuoco, giardiniere, addetto alla piscina, askari. Con magari una bella manager casalinga che coordina il tutto e all’occorrenza fornisce altri servizi. Per fortuna il nostro bel Kenya è talmente immenso che piastrellarlo tutto è un’impresa titanica, ma alcuni piccoli Ligresti locali lo farebbero volentieri. Già mi vedo gli slogan: “Acquistate un monolocale a Malindi 2, a soli dieci minuti dall’ingresso dello Tsavo!” oppure “Affittasi elegante open-space a Mambrui, dodicesimo piano vista mare”. E una fila di stabilimenti balneari tutti belli e colorati, con le sdraio e gli ombrelloni, non ce li vedete? E perché insistere con i villaggi turistici, che sono dispendiosi e dispersivi: costruiamo delle belle, tetragone pensioncine tre stelle! La verità è che a Malindi e dintorni c’è ancora troppa poca Italia, per colpa di chi non la considera ancora un vero investimento e continua ostinatamente a riempire di cemento il Meridione o le periferie delle grandi città del nord del Belpaese.
Basterebbe una vacanza ai grandi speculatori edilizi nostrani, per rendersi conto che qui c’è campo aperto per la grande edilizia popolare, per quartieri dormitorio, centri direzionali, perfino per tangenziali con pedaggio…ci vuole solo un po’ di coraggio!
Ma noi amiamo Malindi, facciamo resistenza (passiva) e restiamo fiduciosi: chissà che questa crisi non faccia l’unico miracolo positivo, rimettere a posto la testa di tanti connazionali, far apprezzare loro le cose semplici, fargli preferire una passeggiata al mare a un pomeriggio davanti alle slot machine, un villaggio giriama in più e un residence in meno, un’opera di solidarietà al posto di una causa in tribunale.
D’altronde se il transatlantico Italia affonda nel Mediterraneo, perché trasportarne i relitti arrugginiti sulle rive dell’Oceano Indiano?

domenica 18 dicembre 2011

MALINDI DALL'ASKARI ALLA ZANZARA


Viene presentato martedì 20 dicembre alle 19, ai bordi della piscina del Mwembe Resort di Malindi e al ristorante Lorenzo Il Magnifico, il nuovo libro di Freddie del Curatolo con i disegni di Max Banfi, "Malindi dall'Askari alla Zanzara - piccola enciclopedia per gli italiani in Kenya". Un volumetto ironico di grande utilità per chi si trova a scoprire, riscoprire o scoperchiare la costa keniota da turista, naturista, culturista futurista e ora non lo è più.

Ecco la prefazione:

E’ praticamente impossibile completare una sorta di piccolo dizionario enciclopedico della Malindi italiana.
Proprio per questo motivo ci siamo divertiti a provarci, utilizzando la ricetta a noi cara dell’ironia.
Le “voci” possono cambiare, aumentare o diminuire nel giro di pochi minuti. Siamo certi che, mentre andavamo in stampa dopo aver corretto le bozze, sono sortite altre venti o trenta definizioni e ce ne siamo ricordate altrettante che non appaiono qui sopra.
Vorrà dire che ci toccherà, tra un paio d’anni, ristampare una versione aggiornata e corretta, con notizie più fresche e nuovi disegni.
E a voi toccherà ricomprarla.
In fondo, come è giusto che sia per chi vive l’Africa nel rispetto del suo popolo e delle abitudini ancestrali proprie di questo Paese, il libro che vi apprestate a sfogliare è un prodotto artigianale e genuino e come tale può contenere qualche imprecisione e talune mancanze.
Ci scusiamo fin d’ora con i gestori o proprietari degli esercizi commerciali che non sono stati citati. Non pensiate di starci sulle balle, semplicemente ci siamo dimenticati di voi.
Non fatecelo pesare, vi preghiamo, la prossima volta che verremo ad acquistare qualcosa da voi o vorremo usufruire dei vostri servizi. Ce la caveremo regalandovi una copia del libro e promettendovi l’inserimento nella prossima edizione?
Eppoi, mica siamo le pagine gialle! E nemmeno l’elenco del telefono, infatti abbiamo inserito solo i nomi dei personaggi famosi che sono passati da Malindi, più qualche soprannome divertente dato ai residenti.
Avremmo potuto anche fare un po’ più di satira, ma sono tempi strani, in cui anche in Kenya non tutti riescono più a ridere e a scherzare come ci hanno insegnato le popolazioni locali. Ci sono troppi permalosi in giro, e altrettanti maliziosi. Perché rischiare di essere fraintesi? Il nostro intento è solo quello di presentare il luogo in cui viviamo e le sue peculiarità, in forma simpatica e canzonatoria. Ma senza offendere nessuno. E con grande rispetto per tutti.
Per quanto riguarda invece le voci più “serie”, non siete (come potete immaginare) di fronte a un testo scientifico o sociologico. Troverete sicuramente inesattezze, superficialità, esagerazioni, mancanze.
A volte in buona fede, a volte no.
Ricordatevi che avete tra le mani semplicemente un divertissement; non c’è tutto, ma di tutto un po’.
E soprattutto, saranno anche stracavoli nostri?
Cordialmente

Freddie del Curatolo e Max Banfi

venerdì 16 dicembre 2011

RETTIFICARE, NON RITRATTARE...E COMUNQUE: SI RIPARTE!!!


Eccomi qui, il giorno dopo, a dirvi che la scuola calcio Karibuni Genoa di Malindi non chiude. Questo ovviamente non significa che non ci siano stati e non ci siano problemi, intendiamoci. Come ha detto l'AD Zarbano al Corriere Mercantile "...considerato che ci era stato chiesto un aiuto e un aiuto lo abbiamo dato. Purtroppo quando si pensa di fare qualcosa di buono, si deve fare i conti con gente che chiede e pretende".
PRECISIAMO e spero per l'ultima volta: Al Genoa non è stato chiesto un AIUTO. Con il Genoa CFC e la Onlus Karibuni, una delle realtà più trasparenti e inserite nella solidarietà in Kenya, è stato approntato un progetto che prevedeva una crescita di anno in anno, con la certezza di svolgere un lavoro sociale senza precedenti. Per questo progetto, di cui esiste ovviamente un cartaceo e anche un allegato mail con accettazione da parte del Genoa, si parla di 25.000 euro annui. Sono arrivati dalla società, per adesso, solo 10000 euro e sono passati quasi due anni. CHI E' CHE CHIEDE E PRETENDE? Ora, ne sono stati promessi altri 10000 e vengono considerati manna che cade dal cielo. Certo, per i miei ragazzi lo sono e lo saranno, e la mia gioia nel rettificare (E NON RITRATTARE, caro Angeli autore del titolo di quell'articolo...le parole sono importanti)era dovuta solo a quel pensiero. Oggi come oggi, per una questione di principio, non possiamo permetterci di rinunciare nemmeno a 100 euro. Tutto serve a questi ragazzi e a un progetto che vorremmo ne potesse far crescere decentemente molti di più. Quando i soldi saranno accreditati sul conto, forse, potrò raccontarvi una nuova storia.
FORZA GENOA e FORZA GRIFONCINI ROSSOBLU KENIOTI!

giovedì 15 dicembre 2011

CHIUDE LA SCUOLA CALCIO GENOA


“Questa è una notizia che da appassionato d’Africa, da tifoso e soprattutto da persona che lavora nel sociale, non avrei mai voluto dare: dopo soli due anni dalla sua creazione, la scuola calcio Genoa di Malindi è costretta a chiudere i battenti. Costretta dalle promesse mai mantenute dalla società e dalla mancanza completa di interesse e dialogo tra Genova e Malindi. Domani si scioglierà un gruppo di ex ragazzi di strada che, con gli splendidi colori rossoblu addosso, hanno imparato a superare mille problemi, a migliorare i loro voti a scuola, a diventare un gruppo indistruttibile di veri amici. Verrà troncato un progetto sociale che è stato lodato e portato ad esempio in tutto il Kenya come il modo più efficace per diminuire la microcriminalità adolescenziale, che ha tolto dalla strada migliaia di ragazzi che ogni settimana venivano a seguire le partite dei loro coetanei. Un progetto che ha permesso, grazie all’aiuto dei tifosi e delle sporadiche donazioni di aziende e privati, di creare eventi unici nel mondo come il Torneo degli Orfanotrofi.
L’idea della scuola calcio era nata per gioco, dal mio libro “Genoa Club Malindi”. Alla fine di questo diario semi-reale, auspicavo la creazione di un piccolo Grifone in Kenya. L’associazione Onlus Karibuni ha cercato di trasformare il sogno in realtà, contattando la società Genoa, attraverso la Giochi Preziosi. L’iniziativa, nel novembre 2009, è stata presentata in pompa magna con una conferenza stampa a Villa Rostan, con Beppe Sculli come testimonial. Per una settimana sono stato intervistato da stampa e media e ho illustrato il progetto sociale. Da allora più volte il sito del Genoa e altri lidi internet a tinte rossoblu si sono occupati della creazione e della crescita della Karibuni Genoa di Malindi. Così ha fatto anche la stampa. Il nome del Genoa keniota è approdato sui media nazionali. Ma in poco tempo siamo stati lasciati soli e siamo andati avanti grazie al grande cuore dei tifosi e a molti turisti italiani, anche non genoani, che si sono affezionati al progetto, vedendolo sul campo. Infatti l’accordo con l’Amministratore Delegato del Genoa Alessandro Zarbano, prevedeva uno stanziamento di 25 mila euro all’anno. Nel 2010 sono arrivati solo 10 mila euro, unitamente a una muta incompleta di maglie dalla Scuola Calcio Barabino & Partners, priva di pantaloncini, calzettoni e scarpe. Nel 2011, dopo assicurazioni verbali e promesse, non sono arrivati neanche quelli. I due giovani calciatori kenioti portati a Genova nel novembre 2010 a vivere una settimana con gli Allievi, sono stati pagati da Karibuni Onlus e non hanno nemmeno ricevuto vitto e alloggio. L’unica cosa che il Genoa ha fatto è stata pagare a me l’albergo (grazie).
Mentre il sito internet rossoblu continuava ciclicamente a pubblicizzare la bella iniziativa sociale, la Karibuni Onlus doveva fare i salti mortali, tra le sue tante iniziative in Kenya, per racimolare qualche soldo per farci andare avanti e io ho fatto lo stesso. Nella speranza che prima o poi Preziosi e i suoi, ci facessero un regalo. Avevamo grandi progetti per rendere la scuola calcio Genoa un “unicum” in tutto il Continente Africano. E con soli 25 mila euro all’anno avremmo fatto cose inimmaginabili, che oltre a coinvolgere centinaia di ragazzi, avrebbero dato lustro al nostro Grifone.
Invece niente. Niente di niente, inspiegabilmente.
Così con un dolore grande nel cuore, dopo le ennesime mail spedite in società che non hanno avuto risposta, se non un’altra decina di magliette da Barabino, abbiamo deciso di dire ai ragazzi la verità. Sarà durissima, domani. Questi ragazzini hanno già i nostri colori nel sangue. Durante l’ultimo torneo hanno raccolto chissà come, gli spiccioli per preparare dei braccialetti rossoblu con scritto Genoa Cfc, da regalare a tutto lo staff. In finale sono arrivati anche i loro tifosi, coetanei con un bandierone che a fine partita tutta la squadra ha autografato e con cui hanno fatto il giro del campo. In questi due anni ho spiegato loro la filosofia della squadra più antica d’Italia, la sua dignità, l’orgoglio che non è legato unicamente ai risultati…altrimenti…
Dovrò dire a questi piccoli grandi giocatori, a questi miei figli, che il Genoa ci ha tradito. Che tutti insieme valgono meno di un mese di stipendio di Ribas, che le plusvalenze non contemplano un piccolo aiuto a chi non ha nulla, se non una speranza legata a un pallone, a due colori.
Ahmed, Joseph, Baraka, Stanley, Gift, Kalu, Eugene, Waweru, Juma, Jamal, George, Rashid e gli altri a gennaio torneranno a trovarmi ed allenarsi. Speriamo per quel periodo di aver trovato un’altra squadra che si prenderà a cuore la loro crescita. Altrimenti non potremo più garantire loro borse di studio, incentivi per migliorare le condizioni della scuola che frequentano e aiuti ai genitori. Stiamo parlando di ragazzi che a volte non trovano a casa nemmeno una pallina di polenta, per cena. Qualcuno di loro è stato adottato a distanza, come Joseph che studierà grazie ai Grifoni in Rete ed altri due di loro grazie a donazioni di tifosi. Probabilmente il presidente Preziosi, indaffarato com’è, non saprà nulla di questa situazione. Ma la dirigenza non può cadere dalle nuvole, tutte le mail inviate da un anno a questa parte parlano chiaro. Ci siamo stufati di non ricevere risposte, di chiedere e di prostrarci per un aiuto che ci era stato promesso. Per un progetto che ha portato più benefici d’immagine al Genoa che benessere ai nostri ragazzi per cui c’è ancora tanto, forse troppo, da fare. Che tristezza, vecchio Balordo.
Dall’Africa, col Genoa nel cuore ma il cuore a pezzi, Freddie del Curatolo”.

mercoledì 7 dicembre 2011

CIAO PICCOLA ANDREA


Addio piccolo cuore innocente. Ci hai insegnato che si può voler bene a qualcuno senza pretendere nient'altro che il suo bene. Ci hai fatto sperare nell'impossibile, ci hai confermato che abbiamo amici dal cuore più grande della sofferenza e della vita stessa. E' andata come si sapeva. Mi piace pensare che ogni tanto, e per un periodo più lungo di quel che avrebbe dovuto essere, un raggio di sole ha scaldato anche te, un po' d'amore è entrato anche nel tuo cuore. Ciao Andrea.

domenica 18 settembre 2011

KARIBU ANITA TAMU!


Non credevo che in vita mia avrei avuto un figlio, figuriamoci due. Benvenuta Anita Tamu, “karibu” come si dice nel luogo in cui sei nata. Non ti abbiamo cercato ma io e la mamma siamo molto felici che tu sia arrivata. Un po’ perché entrambi abbiamo una sorella minore, un po’ perché i figli unici ci sono sempre stati sulle balle. Credono di essere gli unici al mondo come lo sono stati per mammà e il luogo comune secondo cui sono un po’ viziatelli e permalosi, è un luogo comune…ma è vero. Piccola Anita, la grande Agata ti ha accarezzato ieri dall’alto dei suoi due anni e mezzo e diceva “sono grande, io…guarda che piedi piccoli Anita”.
Diventerete grandi amiche. Di più, inseparabili.
In un mondo sempre più individualista, sempre più egoista, questa è già una gran bella cosa.
L’altra, a mio modestissimo parere, e che vi amo.

giovedì 8 settembre 2011

UNA FAVOLA ROSSOBLU PER ANITA (che non volle nascere il 7 settembre)


Nascerai in settembre, come un mio grande amore
Piccola Anita mia, che ti muovi con ardore
Nel ventre di tua madre fai le tue evoluzioni
Son giorni d’ansia e attesa, di sogni e sensazioni
Amore del mio amore che hai dato il tuo segnale
Io ti aspettavo oggi in un giorno un po’ speciale
Il 7 di settembre è un grande anniversario
Di quelli che da sempre segno nel mio diario
Ma non ti fare un cruccio, arriva quando vuoi
Prendi tutto il tempo, lo recuperiamo poi
Per vivere e conoscerci, proteggerti e cantare
Avremo giorni interi, di sole, pane e mare
Se fossi nata oggi, il tuo secondo nome
Come per tua sorella, lo avrei chiesto al Grifone
Ma tu sei nella pancia e non sei ancora pronta
Ascolta questa favola, che il babbo ti racconta
E’ la storia di una fede che ho dentro, dolce Anita
Che festeggiamo oggi e da un senso in più alla vita
Hai un mondo da scoprire, nuova figliola mia
Io guardo spesso indietro, con molta nostalgia
Sarai tu il mio futuro, la mia grande speranza
Che con entusiasmo e gioia prosegua questa danza
Quel che festeggio oggi iniziò quand’ero bimbo
Non proprio come te che sei ancora dentro un limbo
Un giorno capirai, quando per mano al tuo papà
Entrerai nel Tempio ed insieme si urlerà
“Coi pantaloni rossi e la maglietta blu”
Agata ed Anita, sarete la mia gioventù
Ascolta Anita questa storia
Che ti narra la mia memoria:

Quando il pallone era un pallone
Non un puntino in televisione
Non c’erano tessere per i bravi tifosi
Solo bandiere, fumo e cori festosi
Quando la gradinata non era coperta
E per me fu la più grande scoperta
Più del primo hashish, della prima media rossa
Il treno da Savona, la sciarpa della Fossa
Il cuore già batteva in Borgo Incrociati
Vedendo le finestre e i balconi imbandierati
Il sogno di un bambino che ha scelto una fede
Frugava dentro il petto, cercava la sua sede
Battemmo l’Atalanta, segnò di testa o’Rey
La passione confondeva tutti i sogni miei
Gli anni erano piombo sparato dritto al cuore
Le lotte nelle piazze, nel Tempio solo amore
Come un operaio, la domenica in corteo
Lo sguardo di Guevara, la grinta di Arcoleo
Le marce studentesche con la sciarpa rossoblu
La musica di Strummer, di Marley e degli Who
Col Rimini la festa, salimmo con Simoni
Onofri capitano di undici grifoni
Uomini comuni, non eroi da venerare
Che incontravi al bar o sul lungomare
San Siro quell’estate era Bob in centomila
D’inverno per il Grifo due pareggi di fila
Ma quante sofferenze in un età stupenda
Il primo grande amore, la salvezza con Faccenda
Fratelli del Vesuvio, si resta in serie A
E cambia la mia vita ‘nte ‘na Creuza de mà
Amar sempre più Zena, tra musica e poesia
Far parte di una storia che diventa anche un po’ mia
Piangendo Berlinguer e una prematura morte
Il pari di Firenze, imprecando per la sorte
Si torna tra i cadetti, a contestar Fossati
Il sesso dietro ai banchi nei licei occupati
Vent’anni sono pochi, ma tante le trasferte
Trieste e Campobasso, in auto le coperte
Si rischia lo sprofondo, la Nord non molla mai
Fino all’esodo di Modena che ci toglierà dai guai
L’Italia sembra nuova, il mondo un po’ migliore
Trema il muro di Berlino, arriva il Professore
Vincenzo, poi Gianluca, e Stefano e Gennaro
Lo spogliatoio unito, un popolo corsaro
In migliaia a Monza e Brescia, e a San Benedetto
A Udine ed Ancona, due volte sullo Stretto
Con Scoglio è promozione e arriverà anche Pato
Il Genoa uruguagio ci farà perdere il fiato
Intanto cade il comunismo, se ne vanno gli ideali
Solo stare nella Nord ci fa sentire tutti uguali
Divorzia il mago eoliano, e siamo un po’ più soli
Ma arriva il grande Thomas e l’umile Bagnoli
Nell’anno dei ciclisti mandiamo cartoline
Le francobolla Branco, nel derby a lieto fine
Il quarto posto rende meno amaro lo scudetto
dei biondi ossigenati in gaio siparietto
L’Europa siamo noi, lo scopre anche la Kop
Ma l’avaro di Spinelli, al sogno dice stop
Rivede tutti i premi, si venderà i migliori
L’Osvaldo ci credeva, e invece son dolori
Esplode tangentopoli e Craxi scappa via
Manderemmo o Sciò Aldo con lui in Tunisia
Stagioni sottotono, di Giorgi e di Marchioro
Di Johnny e Tommasone, ci salveranno loro
Venduto anche Panucci, si piange Fortunato
E arriva l’anno amaro, con tutto di sbagliato
Saremo noi a pagare, per mano di un infame
L’assurdità di un tempo di bastardi con le lame
E’ morto Claudio Spagna, fottuti milanisti
Il circo tira avanti, con i suoi moralisti
Gianluca il capitano, ritorna in campo e grida
La rabbia di quegli anni, verso una nuova sfida
Sotto la gradinata nord con quel pugno alzato
Il nostro condottiero non verrà dimenticato
Firenze ci condanna, col Padova ai rigori
La pioggia lava il pianto di ventimila cuori
E intanto scende in campo, l’unto dal Signore
Col Milan vince tutto e inganna l’elettore
Lui svenderà l’Italia, noi regaliam Montella
Lo prendono i ciclisti, e brilla la sua stella
Sono anni grigi e austeri, di palazzinari
Di accordi con la mafia, di politici magliari
Il destino prende Faber, poeta e cantautore
Anarchico di testa e rossoblu nel cuore
Vattene Spinelli, uniti noi gridiam
E quello vende tutto, si pensa ai maniman
Finisce il Novecento, al peggio non c’è fine
Col burattino Scerni, Mauro e le ballerine
Arrivano da Fermo, fan saltare Delio Rossi
Poi salta pure il banco e son problemi grossi
Tra ras di Montecarlo, i cani e gli sceicchi
Sogliano che ci prova ed altri finti ricchi
Al governo torna il nano e il mondo vira a destra
Il sangue scorre a Genova, non basta la protesta
Dimenticare è un virus che han preso gli italiani
Per noi vivrà per sempre il ragazzo Carlo Giuliani
Ci aggrapperemo a Scoglio, che porta i tunisini
L’estate è molto calda, ma in autunno siamo primi
L’attacco delle torri,tra i dubbi e la paura
Ci porta in un sistema in cui manca la misura
Il pellerossa Nube è tutto fumo e niente arrosto
Non paga gli stipendi, poi se ne sta nascosto
Poi il prof ci lascia soli con la sua favola africana
A urlare che la mamma di Canal è una puttana
E noi piangiamo Edo, solo il cielo sa perché
C’è il fantasma di Edy Reja, Onofri siam con te
Tifoso e allenatore, con Picchia suo fratello
Niente soldi, solo cuore ma la sorte è un coltello
Colpisce come il male che porta via Fabrizio
Si sfalda un altro sogno, davanti a un precipizio
Col prode Scantamburlo, senza una società
Con arbitraggi contro e una squadra da pietà
Vicini al fallimento, con le lacrime sul viso
In migliaia col Cosenza e i pensieri su a Treviso
Il businessman Preziosi ci acquista a costo zero
Ci chiede di sognare e sembra anche sincero
La realtà è che andiamo in C e veniamo ripescati
Donadoni poi De Canio non ci hanno sollevati
Novembre è un mese triste, Gianluca vola via
Lo porta al terzo piano un’assurda malattia
Dall’Argentina un Principe illumina l’inverno
Si accende nuova luce nel nostro amore eterno
A giugno grandi acquisti del giocattolaio
Dal Como martoriato arrivan Tizio e Caio
Ecco Serse Cosmi che aizzerà la folla
La squadra è pure buona e scatterà la molla
Voliamo soli in vetta, con Milito e con Stellone
Ma in primavera scricchiola qualcosa nel Grifone
Sembrava tutto fatto…ma la nostra storia è questa
Tra mercenari infami si prepara la tempesta
Iachini fa il bastardo ma col Venezia son tre punti
Dopo dodici lunghi anni, in A saremmo giunti
Il bagno in De Ferrari ci illude in centomila
Una vicenda oscura all’inferno ci rifila
Sarà una valigetta e un’indagine doriana
A mandarci in serie C dopo qualche settimana
Il Genoa c’era un tempo, e sempre ci sarà
Ci rapiranno i sogni, ma torneranno qua
L’inferno conosciamo, e anche il purgatorio
Ormai sappiam distinguere la merda dall’avorio
Per questo continuiamo a tifare in ogni stadio
Quell’anno io ho sofferto da lontano, alla radio
Pensavo ai miei fratelli a Busto Arsizio e Giulianova
Con l’orgoglio e l’amicizia si supera ogni prova
Due feste promozione in altrettanti anni
Ci han dato grandi gioie e tolto dagli affanni
Sarà che son più vecchio, saran questi anni amari
Ma non ho più fatto il bagno in De Ferrari
Siamo tornati in A e di questi anni non ti canto
Li scoprirai da te, che non cambiano più tanto
Mi sono divertito col Gasp più spumeggiante
E il Paese mio affondava con Silvio l’arrogante
Ho sognato anche la stella col ritorno di Milito
Ma quando lo ha venduto con Thiago, ho capito
La fede non è un gioco, è una cosa superiore
Non c’entra col pallone o con un bravo giocatore
E’ avere dei fratelli e una filosofia comune
Dividere passioni, pensieri e anche sfortune
Ti ho scritto questa storia per farti appassionare
A una cosa antica e pura che ancora fa sognare
Genoa si chiama, ma puoi chiamarla Vita
Un briciolo di eternità in un’epoca finita
C’era prima di noi e ci sarà anche dopo
Non avrà padroni, è una fede senza scopo
Vuol dire appartenenza, rispetto e fratellanza
Anita mia ricorda, è questa la speranza
Sapere che c’è gente, che ha il tuo stesso cuore
Che vive e che combatte in nome di un valore
Sei benvenuta piccola in questo mondo storto
Se vivi genoana, non potrai mai avere torto.

lunedì 5 settembre 2011

IL GROSSO GEKO IN MUTANDE (una storia vera)


Bahari Beach Hotel, Mombasa. Otto di sera. Un uomo grasso è solo nella suite dell'albergo. Moglie e figlia sono nella terrazza del ristorante e lo attendono. La camera ha una piccola veranda che offre un fazzoletto di vista mare e si affaccia su un giardino comune ad altre stanze. L'uomo grasso si è appena fatto la doccia e si sta preparando per uscire. Fuori è buio. Mentre indossa le mutande e identifica con gli occhi la camicia, cerca in giro le scarpe. Non le trova. Alla veranda si accede tramite una porta-finestra a vetri, nascosta da grandi tende bianche. L'uomo grasso pensa che potrebbe avere lasciato le scarpe fuori, ma non vuole aprire la porta-finestra perché sa che entrerebbero parecchie zanzare. Così scansa una tenda e si affaccia alla porta-finestra, in mutande, per cercare con lo sguardo le scarpe. Fuori è buio e l'uomo si accorge di riuscire a vedere oltre la porta-finestra solo se fa ombra con il suo enorme corpo. Quindi si mette in posizione, appiccica la pancia contro il vetro e alza una gamba per sistemare l'ombra in direzione del pavimento. Sembra Renato Pozzetto in una scena di una commediola italiana fine anni Settanta. L'uomo ripete l'operazione a sinistra, schiacciato come un geko. Non sembrano esserci scarpe in veranda. Fa ancora due o tre mosse del genere, utilizzando gambe e braccia, spostando il grosso ventre e roteando la testa verso il basso. Ad un certo punto, istintivamente, alza la testa e si accorge che c'è un askari, la guardia notturna africana, di fronte a lui che lo sta osservando, probabilmente da parecchio tempo. In quella situazione, all'uomo non resta che salutare e sorridere, con il braccio appiccicato al vetro. Anche la guardia saluta. L'uomo ha grande esperienza d'Africa e del suo popolo, ma questa volta non riesce proprio a immaginare cosa possa avere pensato l'askari, tra simbiosi con rettili o accenni d'autoerotismo. Di sicuro qualcosa di simile a: "questi bianchi sono strani...strani forte".

domenica 4 settembre 2011

LENNY IN BIANCO E NERO MI HA GABBATO UN’ALTRA VOLTA

Scaricare non costa nulla, ma il tempo è denaro. Dopo questa equazione decido di scaricare nel sonno l'ultimo album di Lenny Kravitz, "Black and white america".  Che quando sono buoni li vado a comperare lo sapete, ma lui mi ha già fregato un paio di volte, in passato. Eccoci: se il titolo è promettente e la copertina (scaricata anch'essa)  mostra Lennino da bimbo a una manifestazione per i diritti dei negri ricchi ed ebrei con tanto di simbolo della pace disegnato in faccia, dopo l'ascolto della title-track esclamo: "Epperò" e ci aggiungo montagne di cazzi esclamativi. Allora l'America in bianco e nero è proprio quella che speravo di riascoltare...quella del grande Gil Scott Heron, della black music anni Settanta, tardo motown per intenderci. Chiaro, Lenny ripropone, rubacchia, clona. Ma nei primi due album, ispirati al rock settanta un po' psichedelico analogico lo aveva fatto bene, insomma ci eravamo cascati in tanti...poi via via si era infighettato e aveva seguito la corrente del golfo, quella piena di petrolio merdoso. Niente da fare, pure se sei ricco di famiglia, il successo ti fotte. Poi quando ti trombi Nicole Kidman (dopo Vanessa Paradis...) si sarebbe liquefatto pure Peter Gabriel. Ma stavolta, a vent'anni di distanza...dai che Lenny è tornato quel buongustaio che ti ripropone la ricetta vincente, senza usare la panna né il burro (sodomizzante, s'intende).
Allora il primo pezzo dicevamo, viaggia...tappetone black con fiati e il synth che non stona, anzi ricorda proprio gli sperimentatori alla Gil. Passo al secondo, e l'atmosfera si fa rock ma ancora piacevole. Ed ecco che già con "In the black" s'intrasente la presa per il culo...via via che trascorrono le tracce ecco che torna il Kravitz di sempre, quel simpatico quarantasettenne rincoglionito che però mortacci sua sa suonare. E ti frega, perchè Liquid Jesus si fa ascoltare, "Looking back in love" la metti nel piatto (come si diceva una volta, ma anche come si rifanno le ricette burrose oggi) e viaggia notturna come un solstizio. Però ti sei dovuto sciroppare una melensa e inutile "Superlove" e la marchettona con Jay Z e un altro rapper della minchia. Per non parlare di "Faith of a child" in cui il grande imita se stesso che imitava marving gaye quando era triste triste e non ci aveva grandi idee.
Eccolo lì, insomma, il solito marpione di "It ain't over". Dice che la musica deve essere emozione, trasporto, che non ci devi pensare troppo sopra. O ti piace o ti fa cagare. Son passati vent'anni e non ho ancora capito se Lenny Kravitz mi piace o mi fa cagare, e se l'emozione mi trasporta al cesso o altrove. Intanto mi ha gabbato alla buona. Per fortuna lo scarico è scarico. Il computer lo sa, e il wc pure.

martedì 30 agosto 2011

UN SORRISO D'AFRICA E IL GRANDE SOGNO ROSSOBLU



Joseph guarda di sbieco l’enorme grifone che ghermisce un pallone. Sa che tra un attimo finirà sul suo petto. Gliela chiederanno, quella maglietta ambita. Cercheranno di sfilargliela, di rubarla di notte e per questo la custodirà sotto il cuscino. E’ stato appena nominato miglior difensore del torneo. Nasconde a fatica l’imbarazzo dei tanti flash di macchine fotografiche e non vede l’ora di saltare addosso agli amici di sempre, lanciarsi in quel grido di battaglia che ha contraddistinto il cammino della squadra fino alla finalissima. “We are the children of Africa, we are the future of Kenya, we are GENOA!!!” un ultimo urlo e via in campo.
Joseph Nyababwe, il ragazzo adottato dai Grifoni in Rete. Centrocampista diventato libero e leader del Karibuni Genoa. L’infanzia in una capanna di fango misto sterco di mucca alle porte della grande foresta di Arabuko, poi il trasferimento a Malindi con la famiglia. Con lui ci sono Mystic, che il padre rasta ha chiamato così in onore a un album di Bob Marley, prima di morire per qualcosa di strano al fegato, Gift che vuol dire regalo e solo ora i genitori si stanno accorgendo che è vero. Un domani, chissà, potrà fare il medico. Ci sono Mwanda, dagli occhi che fuggono come il padre, che entra ed esce di galera, Ahmal che prega in ginocchio in mezzo al campo che nessuno gli porti via il sogno, Baraka, adottato a distanza da una coppia di Sestri Levante. Ecco Karisa, Gitau l’intellettualino invidiato da tutti per la sua pagella, Fatih il timido invidiato da tutti per sua sorella, Janji l’indisciplinato invidiato da tutti per il suo dribbling e ancora Bereto, Mwanjumwa, Stanley, George, Waweru, Omar, Dominique, Mule, Kahindi, Kalu. Simon, Yusuf, Mjahid. Sono anime imberbi e pure di questa terra, si allenano e giocano insieme da un anno e insieme stanno crescendo. All’equatore, nel cuore di un’Africa che sarà difficile inquinare in poco tempo con le logiche perverse del capitale, della globalizzazione, delle fidelizzazioni e di tutte le altre schifezze che hanno rovinato la nostra società e di conseguenza anche il gioco del calcio. Quel giorno arriverà, non ci facciamo illusioni. Sono già sbarcati a Nairobi, hanno insegnato loro la corruzione, le lobby di potere. Proveranno anche a conquistare la savana, la foresta, la costa. Ma chissà. Gift, Joseph e Waweru quel giorno saranno pronti ad immolarsi per mantenere la purezza di questa vita povera e della loro comunità. Mwanda non finirà in galera, la sorella di Fatih non sarà costretta a prostituirsi, Mystic chiamerà il figlio Siddharta in onore al suo libro preferito. Come il loro idolo Charles Bruno, che sta per essere ingaggiato dal Latina, Legapro 1, non si sogneranno mai di scioperare, anzi devolveranno il 15 per cento del loro stipendio all’accademia di calcio Malindi United per alimentare il sogno di Janji e di Bereto.
Durante la parata che ha preceduto la finale ho detto loro poche parole: “Due anni fa ho sognato una scuola calcio in Kenya, e siamo riusciti ad aprirla. Poi ho sognato di potervi trasmettere la passione e la filosofia rossoblu, e oggi vedo nei vostri occhi i risultati, infine ho sognato un torneo di calcio che riunisse gli orfanotrofi di Malindi per far capire a centinaia di bambini che non saranno mai soli. E anche questo lo abbiamo fatto. Ricordatevi, non smettete mai di sognare”.
Ho venti figli maschi. Sono stati fantastici. Per tre giorni hanno fatto i padroni di casa del Torneo degli Orfanotrofi di Malindi. “Benvenuti nel nostro stadio del baobab, siete nostri fratelli”. Hanno preso per mano centocinquanta coetanei di sette children home cittadine, gli hanno spiegato come si fa a diventare una vera squadra di calcio. Non si sa con quali risorse economiche, dato che ogni fine mese attendono il piccolo contributo che la scuola gli passa, hanno fatto fare decine di braccialetti rossoblu. Li hanno infilati ai polsi dei giovani capitani di ogni team. Li hanno regalati anche agli organizzatori. Non è tutto, hanno preparato uno striscione rossoblu, abbastanza grande da avvolgerli tutti. Ci hanno messo le loro firme, hanno scritto Genoa Cfc Malindi.
Ora il Genoa Cfc Malindi fa il giro del campo, riceve un premio uguale a quello degli altri partecipanti, gli orfanotrofi Thoya Oya, Rising Sun, Kamunyaka, Mama Anakuja, Blessed Generation, Heart’s Children Home, Kisumundogo. Magliette, pantaloncini, palloni.
E’ la festa di tutti, il risultato conta poco. Sono gli sguardi, gli occhi che traboccano di divertimento allo stato puro, a raccontare tre giorni indimenticabili in cui sono stati protagonisti della loro vita e presenze importanti in quella di ragazzini disastrati come e più di loro. Dall’altra parte della rete, durante le molte sfide leali ma combattute, il pubblico. Ragazzi di strada che vengono al campo per gioire del sogno di chi è nato e cresciuto nelle stesse baracche, per le stesse strade di terra e pietre, bevendo acqua marroncina e respirando il cherosene delle lampade e la merda delle fognature a cielo aperto. Oggi ognuno ha una maglietta nuova, un pacco di biscotti in mano e un bricco di latte vicino alla bocca. E il sorriso inconfondibile delle anime belle d’Africa, quello che per un attimo ha il timore di aprirsi e splendere, come dovesse spogliare di vestiti e dignità di fronte all’uomo ricco occidentale. Ma appena incontra un altro volto sorridente, uno sguardo autentico e complice, esplode in tutta la sua predisposizione all’amore. Per la terra, per la vita e per i fratelli.

martedì 23 agosto 2011

VIAGGIO NEL CUORE DEI MIJIKENDA


Sono qui di nuovo a raccontarvi di un popolo, di una cultura, della lotta pacata e dignitosa, ma disperata di un'etnia per conservare le proprie tradizioni e proteggere i saggi anziani.
Qualcuno, spinto dall’emotività scatenata dalla gravissima situazione del Corno D’Africa, mi ha detto in questi giorni che la cultura non si mangia, non disseta e non salva la vita. La prima obiezione che mi è uscita dalla bocca è: “se la generosità, l’umanità, l’intraprendenza del resto del mondo non riescono a salvare i propri simili che muoiono di fame e di sete, se la storia ci insegna che siamo sempre stati buoni ad imbandire tavole ben oltre il nostro appetito mentre altre persone crepavano o si scannavano per le briciole, permettetemi di provare, nel mio piccolissimo, ad andare alle radici della questione. L’ignoranza, da sempre, fa solo danni”.
Dite che l’ho presa troppo alla lontana? La verità è che io mi occupo di cultura, è il mio campo e mi viene spontaneo affidarmi a quest’arma. Ma è anche vero che, come in amore non c’è sottrazione ma solo addizione, così una filosofia, tradotta in pratica, non esclude l’altra.
A questo penso, mentre ci avviamo verso Bungale, profondo entroterra di Malindi. Un camion pieno di carboidrati e proteine, ci segue cigolante divorando polvere e orizzonte. La strada per Baricho, che si lascia il Galana River a sinistra, è sconnessa quanto basta. La sabbia bianca di vento e corallo dopo alcuni chilometri cede spazio alla rossa argilla che, in cromatico accordo con la natura, prende colorazioni sempre più violacee man mano che il terreno intorno s’inaridisce.
L’Africa è terra in cui le contraddizioni sono la regola. Baricho è il villaggio da cui proviene gran parte dell’acqua che scorre nelle tubature di Malindi. Grosse turbine, quando la società dell’acqua paga la bolletta dell’elettricità, filtrano il fiume Galana e lo sparano a valle.
Ci si aspetterebbe di entrare in una lussureggiante oasi, un “aquatic park” con microclima tropicale; invece qui regnano sassi e sterpaglie, formicai d’argilla e tronchi bruciati. Nella stagione più florida, dopo le grandi piogge, a Bungale è già arsura. Il giorno della Celebrazione però è un giorno di festa. Lo abbiamo fatto coincidere con una consegna di cibi raccolti attraverso malindikenya.net. Farina di mais e fagioli. Il centro culturale Mekatilili Wa Menza è la riproduzione di un antico villaggio giriama. Anzi, è quel villaggio. La comunità in cui viveva la “pasionaria” che osò sfidare l’Impero Britannico. Qui la gente sa. Mekatili fu arrestata una prima volta a Malindi. La liberarono i suoi fedeli compagni, guidati dal fido Wanje wa Madori. La seconda volta i governatori di Sua Maestà la deportarono in una sorta di campo di lavoro a cielo aperto, sulla strada per il lago Vittoria. Scappò pure dal lager e, a piedi, tornò a Bungale, per riorganizzare la resistenza. Qui morì, venerata dalla sua etnia, nel 1925. All’interno del villaggio, se escludi qualche telefonino e due paia di scarpe da ginnastica, siamo nel 1925.
L’avvocato Mwarandu è in piedi in mezzo a un cerchio formato da un centinaio di esponenti di spicco dei Mijikenda. C’è il figlio di Simba Wanje, il “leone di Kaya Fungo”, ultimo sovrano dell’etnia, quando ancora si usava eleggere un re tribale. E’ bardato con una sciarpa rossa in diagonale sul petto e indossa il copricapo di piume d’uccello ereditato dal padre. Ci sono i capotribù dei “mandamenti” di Ribe, Rabai e Jibana. Ad ognuno di loro viene lasciato spazio per presentarsi e ribadire la volontà di pace, di unità e di lotta per la causa comune della sopravvivenza culturale. C’è il giovane capo Duruma, arrivato dalla lontana Mazeras tra mille peripezie stradali. Infine, seduto sul “kihi”, lo sgabello tradizionale di legno, poco più grande di un barattolo, l’enorme Mzee Kahindi Jogolo. Il gallo, viene chiamato. Centocinquanta chili di voce roca, salute precaria e sguardo torvo. Ha preso le redini di Kaya Fungo, luogo sacro dell’etnia non lontano da Kaloleni, dove la regina Mepoho fece i suoi vaticini. Nel suo sprezzo per le novità, c’è la frustrazione di non essere diventato monarca triviale. Mwarandu mi presenta ai convitati. Spiega che ho un nome giriama, che non sono lì per caso o per turismo. Tra poco apriremo il sito internet makayakenya.com e girerò un video sulle celebrazioni annuali. Jogolo scuote la testa, ricorda quando una delle sue venti figlie prese un tedesco come marito e con riluttanza da il suo benestare. Sono il primo uomo bianco ad entrare nel mausoleo di Mekatilili durante la preghiera.
Senza scarpe e senza vestiti occidentali. Un khanga avvolto alla vita e la sciarpa al collo, come ogni uomo mijikenda. Leni, senza macchina fotografica e con l’hando prestato dall’amica Jumwa.
L’archivista John ci spiega che non si possono fare riprese o scatti al sepolcro dell’eroina giriama. Ai suoi tempi non c’erano questi marchingegni e fino a qualche anno fa da queste parti era abitudine credere che la fotografia rubasse l’anima delle persone e di conseguenza la possibilità di agire da antenati, dopo la morte. “Siamo convinti che se qualcuno immortalasse la tomba di Mekatilili, qualcosa di terribile potrebbe accadere ai giriama”. Rispettiamo, senza troppo violentarci. E’ già difficile raccontare l’atmosfera intorno al sepolcro. Gli anziani pregano, invocano Mekatilili. Mzee Katana Kalulu, uno dei più anziani “kaya elders” ha la voce rotta dall’emozione e il respiro, prendendo corpo nelle corde vocali, fatica ad uscire dai denti storti. Ognuno regala un pensiero alla sua Santa. “Sono tempi difficili, i giovani non ci seguono, la profezia di Mepoho si è avverata in pieno” spiegano a turno i capotribù, lanciando un augurio, una speranza, una richiesta di pace. Mama Kapucheche, un donnone che sembra l’Aretha Franklin mijikenda, guida il gruppo delle donne che escono dal sepolcro cantando, insieme a Tremalnaik, il giriama col turbante della tribù di Bamba, entroterra di Kilifi.
Le celebrazioni proseguono e la giornata andrà avanti come da copione con l’arrivo delle autorità provinciali e la distribuzione del cibo alla comunità del villaggio di cui abbiamo già raccontato. Più che parlarne e descrivere era importante esserci. E credetemi, più si riesce a vivere, meno viene da scriverne.

martedì 16 agosto 2011

BUON 16 AGOSTO!

Non vi ho augurato buon Ferragosto. Perché Africa è il 16 agosto, il 22 dicembre, il 3 gennaio. Africa sono i giorni normali che diventano speciali. Non vi farà mai gli auguri di Natale, di Pasqua, di Capodanno l'Africa. La vita vera, gloriosa o tragica, indecifrabile o gratificante, non è nei giorni rossi del calendario, ma in quelli neri come questo Continente. (F.d.C.)

giovedì 11 agosto 2011

MUKOMBERO, IL BIO VIAGRA KENIOTA (da "Pillole di Malindi")

Da qualche settimana il Kenya ha aggiunto alle sue grandi attrazioni (savana, oceano, grandi laghi, montagne, maasai, corruzione) anche un motivo in più per essere visitato. Il “boom” mondiale del Mukombero. No, non si tratta di un nuovo ballo come la Macarena ma di un viagra naturale dalle insospettabili proprietà. Il Mukombero è un tipo di ginger molto chiaro ed esile che cresce specialmente a nord del Paese, ma che ultimamente viene commercializzato anche sulla costa.
Il suo effetto, se viene masticato come una radice di liquirizia, è quello del più potente afrodisiaco trovabile in natura. Ecco allora che sui depliant pubblicitari che promuovono il Kenya, accanto all’immancabile leone in primo piano, di tre quarti, con la zazzera bionda al vento, al maasai salterino lenzuolato in rosso e ricoperto di perline, al pescatore di 115 anni con la barba bianca che aggiusta la sua vela ricavata dai sacchi della polenta, possiamo aggiungere il pensionato mzungu che mastica il mukombero mano nella mano con una procace ventenne sulla spiaggia di Malindi e, invece di ammirare la sua preda, felice e sorridente, ha lo sguardo fiero verso il basso a valutare come il suo salice piangente italiano si stia trasformando in una gloriosa palma tropicale.
E le coppie in viaggio di nozze? Luna di miele e ginger, roba da ricordare tutta la vita. Così per le signore in odor di menopausa, gli adolescenti timidi, i latin lover caduti in disgrazia, i precari con impotenza coordinata continuativa…mukombero in compagnia, mukombero per tutti! All inclusive!
Per non parlare degli slogan: “Donne, è arrivato il mukombero!” “Prova anche tu il gingerone africano del piacere”. Grazie a questo miracolo della natura, l'economia del Kenya può davvero avere un'erezione e il settore turistico nel suo ventaglio di proposte per le vacanze a tutto tondo (e a tutto duro) sarà imbattibile! Savana, mare, escursioni montane, laghi, deserti, social, etno, equo, bio, mio, tuo, suo, luo…tutto al sapor pizzicorino della radice di zenzero che a nord del Paese, ma da qualche settimana anche a Nairobi e Mombasa, si vende a pochi scellini la "dose" e che promette performance degne di un Rocco Siffredi equatoriale, con l’unico piccolo effetto collaterale di un po’ di stitichezza, ma niente a che vedere col rischio infarto della pillolina azzurra, che è così squallidamente chimica. Questo è un eccitante bio! Equo solidale…e per questo fa godere ancor di più! Comunque occhio alla stitichezza, non la sottovalutate! Lo hanno provato per primi i kenioti bigami, i capotribù con più mogli. Onesmus Mtondi, 72 anni di Mazeras, ha trentuno mogli. Si è mangiato un chilo di mukombero ed è riuscito a soddisfarne 28, anche perché le tre più vecchie sarebbero state intrombabili anche da un cieco in astinenza da vent’anni ripieno di viagra. Il vecchio Mtondi, visibilmente soddisfatto dopo la performance, non è andato di corpo per un mese e mezzo ed è esploso due notti or sono, concimando gli “shamba” di tutto il villaggio. Al limite, quando lo assumete, inghiottiteci insieme due samosa prese in un chioschetto locale.
Anche a Nairobi, in certi ambienti, va di moda il mukombero. Potrebbe stupire il fatto che i primi ad impazzire per l'eccitante naturale siano stati infatti gli stessi kenioti, di cui noi occidentali ignoravamo tali problemi. Con tutti quelli ancestrali che già hanno, lo stress di una veloce civilizzazione evidentemente ha aggiunto pure questa sciagura. Oltretutto, con i loro "carichi eccezionali", la morbidezza è ancora più imbarazzante. Proboscidi da cimitero degli elefanti su corpi da gazzelle. A Nairobi si sono verificati però problemi collegati al continuo stato d’eccitazione degli uomini: in molti, proprio per le misure considerevoli dei loro organi sessuali, non riescono più a salire in macchina, nei negozi o in casa dove, muovendosi, distruggono tutto ciò che trovano ad altezza del basso ventre. Non possono sedersi al ristorante senza che i tavoli apparecchiati prendano il volo e così via. Si può anche assistere, nelle toilette e nei parchi della capitale, ad epiche sfide di fioretto e sciabola tra bandoleri mukomberi.
A Mombasa, una ditta indiana di demolizioni edilizie, offre il mukombero da masticare ai propri operai, che di conseguenza sono in grado di tirare giù interi agglomerati di case a colpi di mazza. C’è chi si sta allenando anche per la ricostruzione. Dalla cazzuola al… il passo è breve.
Scherzi a parte, gli unici davvero contenti del “boom” del mukombero, sono i rinoceronti, il cui corno per anni è stato definito afrodisiaco e ancora viene cercato da qualche idiota bracconiere assassino al soldo di aziende cinesi. Alcuni esemplari dell’Amboseli, alla vista del malintenzionato, hanno imparato a guidarlo verso le radici miracolose. “Prendi questo, coglione, e lascia stare il mio naso”. Il ginger non ammazza nessuno, nel tè è perfino piacevole, la moglie può grattugiarlo nelle vivande senza che il marito abbia a vergognarsi delle sue tristezze a letto e l'amante focoso può farne incetta e presentarsi al cospetto della partner canticchiando "donna donna lo sai chi c'è, è arrivato il Mukombero!" Attendiamo ora che i ricercatori della Pfizer (casa produttrice del viagra) se ne escano con altri effetti collaterali del gingerone del piacere, oltre alla stitichezza. Altrimenti, con buona pace delle multinazionali, anche sulla costa keniota, ci daremo tutti alla coltivazione...immaginando un nuovo tipo di turismo di cui c'è già pronto lo slogan: "Il Kenya tira...eccome se tira!"

giovedì 4 agosto 2011

LA NOTTE DI JUMWA E MWANENGO


Le nuvole vanno e vengono, come le emozioni.
Questa sera hanno deciso di danzare avanti al cielo e scoprirne a tratti l’immensa volta stellata. Prima, però, c’era l’Africa al tramonto. Quel momento sempre troppo breve, come sono gli attimi di vera felicità.
La scenografia terrena racconta di un villaggio mijikenda alle porte di Malindi, fedele riproduzione di una comunità tribale del secolo scorso. Quando le capanne erano trulli di legno e palme secche, senza nemmeno il conforto del fango compattato a mo’ di cemento. Una capanna per le donne, con le pentole sul fuoco, gli stracci ammassati e culle di foglie di banano per gli infanti. L’altra è per gli uomini, con le stuoie da sonno, il vino di palma e odore di tabacco per rudimentali pipe. La terza è per gli antenati, i feticci intagliati a mano e colorati con sangue animale ed erbe macerate. Padri e padri dei padri da invocare affinché garantiscano saggezza e protezione al villaggio.
Le donne, con i volti inespressivi intagliati nell’ebano, i capelli come zerbini e i corpi tozzi e scattanti, danzano asimmetriche cantando, con voci acute e compenetrate. Il poeta, vestito come un giovane Ghandi equatoriale, le incita scandendo onomatopeici slogan. “Donne! Siete qui? Fatemelo sentire” e quelle a urlare con toni acuti che si confondono con gli uccelli tropicali.
Gli altri uomini muovono i piedi, alzano mani in segno di partecipazione, dispongono sedie di bambù, sgabelli alti una spanna e un tavolo per le vivande.
Nelle due capanne, i rispettivi aiutanti, stanno vestendo Jumwa e Mwanengo. Loro non sanno ancora che si chiameranno così. La cerimonia per consegnare loro il nome giriama è un rito studiato nei minimi particolari ed è riservato a chi è entrato in sintonia con l’etnia mijikenda. Che può significare aiutare questa gente, ma non è solo questo.
C’è una filosofia di fondo, che ti spinge ad abbracciare anche fisicamente queste persone vere, anacronistiche, se vogliamo anche rudimentali. E’ il pensiero naturale di sentirsi vivi, pienamente consci del luogo in cui si è scelto di vivere la quotidianità.
Max e Maddalena escono dalle rispettive dimore, accompagnati dai loro “padrini”.
Lui indossa un khanga, tipico pareo giriama avvolto a mo’ di kilt scozzese al bacino e tenuto da una cintura di altro tessuto, e una sciarpa bianca al collo. Il busto nudo scopre i molti tatuaggi, il volto è un arcobaleno ampio come il suo sorriso e infinito come un ponte che unisce il grigio dell’hinterland milanese, dove è nato ed ha vissuto fino a qualche mese fa, con i mille colori dell’Africa equatoriale.
Lei è bardata con l’hando, la caratteristica gonnellina bianca a più strati, tempestata di pendagli di perline colorate. Sopra il bacino, è avvolta da una fascia superiore che i giriama mai chiamerebbero “top”. Si incontrano nel bel mezzo della radura ed il loro intreccio di sguardi dipinge d’ironia l’emozione, mentre Morgana, la figlia della coppia, li osserva cercando di misurare con i suoi pochi anni come metro di giudizio, la distanza tra un rito sacro e lo scherzo carnevalesco.
Alla coppia sono bastati pochi mesi, per capire che Malindi è un mondo da scoprire, come sollevare il pesante coperchio di un antico forziere. Sopra il baule, i luccicanti ori del paradiso turistico, le spiagge dorate, la barriera corallina, gli animali della savana, la prorompente verde natura. Scavando, un tesoro ben più affascinante e duraturo, quello delle tradizioni millenarie e della saggezza primordiale della gente. Ci voleva coraggio per fare la scelta di trasferirsi in Kenya e di abbracciare questo luogo nella sua interezza. Fare qualcosa per sé e per gli altri allo stesso tempo, senza pretendere nulla in cambio se non un benessere interiore che è per forza arricchimento. Un bene incurabile e inestimabile.
Con questi valori e con questa leggera, spontanea consapevolezza, abbiamo goduto di un pomeriggio fantastico. Dopo le danze, la cerimonia del sorteggio della tribù (Akiza, la stessa del grande politico giriama Ronald Ngala) e del nome di Maddalena, Jumwa Mwagandi. Risate, piroette, felicità quasi infantile dei suoi omonimi, Sylvia Jumwa e Kiponda Mwagandi.
Poi l’oscurità, i balli nei locali che ospiteranno un giorno, quando troveremo i finanziamenti, il primo museo della cultura e della tradizione giriama. Danze d’augurio e di festeggiamento per Mwanengo Kidata della tribù Amelulu. L’ex grafico, fumettista e pittore Max Banfi.
L’avvocato Mwarandu da loro la benedizione, mentre tutta la comunità intona una preghiera gospel da brividi. L’iniziazione prevederebbe che i nuovi affiliati alla tribù vengano irrorati a spruzzo di acqua di cocco, dalla bocca del loro parente prossimo. Con i due nuovi arrivati viene usata una delicatezza non richiesta, il liquido scende in testa direttamente dal mestolo. Max è quasi risentito, la sua espressione sembra dire “…sputatemi nel petto, sono un giriama!”.
Le ultime danze sono una rappresentazione storica del bene e del male, della vita comune nei villaggi. Lo stregone è vestito con pelle di facocero e piume in testa, si tormenta e si getta a terra come posseduto. I tamburi incalzano con il ritmo oscuro e penetrante della notte, un ritmo che si fa via via più avvolgente e rassicurante, come una coperta di stelle e nuvole.
Le anziane mama mijikenda cercano le nostre mani chiare con le loro dita callose da lavoro agreste, gli uomini si congedano fieri del loro sudore. Non c’è fastidio o riluttanza nel nostro abbraccio. Per loro è un’ulteriore conferma. Due colori, due etnie, due culture agli antipodi, unite da un’unica volontà: fare del bene agli altri, pensare al loro futuro, vivendo il presente da persone normali, in cerca di valori semplici, raggiungibili.
Oggi l’occidente è popolato perlopiù da persone che si guardano troppo intorno (ed a volte è un alibi) perché hanno perso l'istinto rapace che è sempre stato dell'uomo innovatore, rivoluzionario, di guardare a sé, alla propria vita. E fare il possibile per migliorarla, non per cambiare parere sugli altri o su chi sta in alto, di fianco o sotto, a seconda di come cambia il vento.
Di critici, indignati, di ironici disfattisti, populisti, qualunquisti, dei sempre contro, di moralisti e antimoralisti...ne abbiamo avuti abbastanza. Questo reportage non è per loro, che possono tranquillamente attenersi alla breve e fredda cronaca seguente:
Ieri sera, durante una cerimonia tribale alle porte di Malindi, Max e Maddalena sono diventati giriama. I loro nomi sono Mwanengo Kidata e Jumwa Mwagandi. Abbiamo mangiato pollo, agnello, verdure e polenta con le mani, respirato cielo, patate bollite e ascelle acri, abbiamo ballato con gente che probabilmente non ha le basi per fare critica sociale né tantomeno per sovvertire l’ordine delle cose che li vede da sempre ultima ruota del carro africano. Un popolo che però sa bene quello che vuole: vivere in pace e non perdere la propria cultura e le proprie tradizioni.

domenica 24 luglio 2011

IL TAPPETO, LA CASA E LA FAMIGLIA: I MIJIKENDA ARRIVANO A KALOLENI


La strada di Mariakani è un tappeto irregolare d’argilla che, al passaggio dei veicoli, deposita la sua polvere arancione su piante, pietre e baracche di legno. Anche la gente ne è ricoperta, impregnata. Statue in lento e perenne movimento, donne incinte con infanti legati in spalla come matrioske di terracotta, bimbi saltellanti e impassibili anziani, con la pelle più aspra del terreno e gli occhi di profondità infinita, cosa normale per chi da decenni si specchia ogni giorno in questo cielo.
Si sale e si scende attraverso le verdi colline d’Africa, come le chiamava Hemingway. Si incontrano autoarticolati sgangherati che trasportano legno o cemento, matatu carichi di pendolari del bisogno, qualche fuoristrada di chi è andato altrove a cercar fortuna e torna a respirare argilla e aria di famiglia. Ai lati del tappeto è un’altra famiglia, la verde casa della Natura. Baobab, palme e acacie si prendono i contorni dell’immenso cielo e lasciano la terra ai campi di mais e ai tetti di palme secche che annunciano le capanne di fango sprofondate nel rosso vivo e schiave della terra come sculture millenarie. Il manto rosso non ti molla, neanche quando ci si infila nella fitta boscaglia, si costeggiano scuole elementari dai prati curati e dagli intonaci che fanno pendant con le divise degli scolaretti. Le radure sono piazze di villaggi dai nomi probabili ma impronunciabili, abitate da motociclette-taxi in perenne attesa di clienti, chioschi di frutta e verdura, piccoli bazar che vendono sapone, sigarette sfuse e farina.
E’la carretera che porta a Kaloleni, dove tutto cominciò.
Il manipolo di eroici mijikenda sta risalendo la Mariakani dalla parte opposta. Arrivano da Mombasa, dopo sei giorni di marcia che ha fatto sanguinare i loro piedi ma ha rinsaldato i loro propositi. Sono stati ricevuti dal Prefetto di Mombasa, che ha donato anche dei soldi per un piatto di carne e un bicchiere di tè caldo. Hanno sfilato per le vie della città portuale con orgoglio e coraggio, incuranti dello slalom ad alta velocità delle berline giapponesi con i vetri oscurati e dei matatu che sono palline impazzite in un flipper mussulmano.
Noi arriviamo da Malindi, in macchina. Loro hanno scavalcato le colline di Mazeras per attraversare la zona in cui nacquero le nove tribù Mijikenda. La leggenda vuole che, dopo l’esodo da Shangwaya, la terra d’origine al confine con la Somalia, i Mijikenda trovassero pace nelle acque fredde di Kaloleni. Quattro fiumi delimitavano una fitta foresta che manteneva un microclima di fresco e umido e garantiva una gran quantità di verdure. Qui, secondo la mitologia orale Mijikenda, l’enorme vaso che si portavano dietro, carico di pozioni magiche e medicamenti (chiamato Ngiriama) si ruppe in nove cocci e ne diedero uno ad ogni capotribù. Ogni coccio conteneva un consiglio. “Vai di là”, “Torna indietro”, “Stai qui vicino”, “buona fortuna!”. Da queste invocazioni le tribù presero i loro nomi: Digo, Kambe, Ribe, Rabai, Duruma, Jibana, Chonyi, Kauma e appunto i Giriama, la “base” del vaso.
Salendo per un tratturo che costeggia la vallata del sisal e affronta improvvisi colli carichi di vegetazione, qui sono posizionati i villaggi che ancora oggi portano il nome delle tribù.
Noi entriamo a Kaloleni, villaggione di pietra viva e fango, di legno e di lamiere. Lo affrontiamo dall’alto. E’ un agglomerato di case e negozietti scoscesi, abbarbicati al monte come scalatori esausti. La via principale che scende a valle è un insieme di calce, terriccio e ghiaia cementificata che crea una serie di gradoni e piccole voragini. Gli ammortizzatori urlano, gli occhi non sanno dove indirizzare la loro meraviglia, l’estasi di tanta disordinata, sporca, incalzante, misera umanità.
Baya il cantautore mi chiama al cellulare.
“Abbiamo appena passato Ribe, siamo sulla strada vecchia che scende da Kaloleni. Ci venite incontro?”
La voglia di incontrare subito la processione dei nostri eroi è tanta, ma anche il vuoto nello stomaco si fa sentire. Forse è più insopportabile perché si contrappone all’anima che trabocca.
Ci troviamo nella piazza di Kaloleni.
Qui è tutto come deve essere, come l’iconografia del terzo mondo impone.
Andirivieni di camion puzzolenti, schiamazzi di venditori ambulanti, gimcane di motorette che sollevano polvere arancione, grossi autobus traboccanti di giovani, madri con neonati fasciati dai loro stessi vestiti, donne anziane come formiche, con carichi che pesano tre volte più delle loro ossa.
E’ un traffico scomposto ma alla moviola, in cui si trova sempre il tempo per muoversi, per interagire, per farsi avvicinare e scambiare due parole.
Con la stessa disordinata flemma parcheggiamo.
Maddalena, la fotografa, è felicemente disorientata. Il suo obbiettivo, ad ogni angolazione, avrebbe pronti almeno venti soggetti diversi.
Chiamo Baya.
“Mangiamo velocemente qualcosa e vi raggiungiamo. Dove siete?”
“Stiamo risalendo la collina, abbiamo passato il villaggio di Ribe, siamo quasi a Kambe”.
Ne so quanto prima, la “Kenya safari map” che sfoglio appena entrato nel ristorante, mi è parzialmente di conforto. Trovo Ribe, Kambe non esiste.
Il Sweet Joint Restaurant è una casupola di legno, ondulina e cemento. Da fuori ha l’aspetto di una chiesetta mormone dell’Oregon, dentro assomiglia alle migliaia di kebaberie, friggitorie e polentoteche della costa keniota. Gli arabi le hanno create e di arabo mantengono ognuna la stessa concezione delle vivande calde in vetrina, della griglia per gli spiedini all’ingresso, dei tavolini in formica e dei cessi inavvicinabili.
Divoriamo sima na cabaji, polenta e cavolo stufato al pomodoro. Ora anche le papille gustative sanno che siamo nell’entroterra del sud del Kenya. E ne godono.
Chiediamo informazioni a un gruppo di ragazzetti che non sanno nemmeno chi fosse la regina Mepoho e prendiamo la vecchia strada per Kambe.
Si scivola nuovamente sul tappeto color papaia.
Se il paradiso fosse arredato a questa maniera, non ci troverei niente di strano.
E’ foresta, sono improvvisi squarci di prateria, sono ordinatissime staccionate con scuole in muratura, piccole aziende agricole povere ma curate, dignitose baracche, campi di mais ordinati, siepi simmetriche. Da una curva d’argilla ci appare lo spettacolo della strada inghiottita da una ripida collina verde, su cui le piante si sono arrampicate con la stessa ingordigia di cielo e di panorama che abbiamo noi proseguendo per la strada.
Baya chiama, ma non lo sento, rapito da tanto splendore africano.
Richiama.
“Dove siete?”
Mi fermo davanti a una scuola elementare.
Decine di ragazzini corrono, saltano e inseguono una palla su un manto smeraldino che sembra mare croato. Mi ci tufferei volentieri. Dico il nome della scuola.
“Ci avete superato, dovete tornare indietro”
Sono qui per loro, per i nostri eroi. Ma rinuncio allo sterrato che conduce a Ribe, Rabai e in qualche altro paesaggio a noi sconosciuto, con il dispiacere provvisorio dell’artista costretto a lasciare un quadro a metà. Un giorno torneremo a dipingere con gli occhi queste miglia di tela d’argilla e foresta.
Gli ultimi Mijikenda sono raggruppati in circolo in una radura dietro la scuola di Kambe.
Poco distante sorge l’ufficio del chief, la massima autorità provinciale.
Sono passati da lui per ricordargli che i Kambe sono una delle nove tribù Mijikenda e che anche la loro cultura rischia di scomparire.
Eccoli. Volti stremati, barbe incolte, odori forti, piaghe tra le dita dei piedi.
Mi stringono la mano, mi abbracciano.
Mzee Mwarandu, il leader dei Madca, mi chiama al centro del cerchio di gente.
Mi presenta alla folla festante e al chief.
“Non ho ancora fatto niente. Ce la metterò tutta per aiutarvi”.
“Hai fatto molto. Tu, mzungu, sei qui” mi sussurra uno degli anziani.
Ora mi accorgo che dietro al cerchio dei camminatori, si è formato un crocicchio di simpatizzanti. Famigliole in abiti borghesi, qualcuno ha anche la camicia, bambini sottratti al pallone e al nascondino. Più defilati appaiono vecchi sorretti da bastoni d’ebano che indossano parei e timidezza, aprendosi in sorrisi sorpresi e sdentati non appena saluto in dialetto giriama.
“Sindadze…sinda…simanya wewe…nambola”
Come va? State bene? Io ottimamente!
E’ l’intercalare di rito ma in effetti mi sento proprio una favola. O “in” una favola.
A tre ore di macchina dalle oasi del turismo italiano, ad anni luce dalla tossica vita occidentale. Nel bel mezzo di un’Africa che non ha ancora perso del tutto la sua verità.
C’è anche un gruppo folkloristico kambe. I capobanda sono due personaggi assolutamente fuori dal comune: uno è bardato come un guerriero Tamil. Ha anche una sciabola, recuperata in chissà quale fondo di anticaglie di Mombasa. La barba folta, il turbante, una fascia in diagonale sul torace.
Il Tremal Naik di Kaloleni è accompagnato da un mganga, uno “stregone buono” locale, ricoperto di piume d’uccello e di bende colorate. Ha lo sguardo soddisfatto di chi da sempre attende il momento per potersi esibire in danze benaugurali e propiziatorie. Che non si prenda troppo sul serio è evidente, dai due caschi di banane legati ai polpacci e dall’imitazione delle All Star ai piedi. Forse ha inscenato questo carnevale per ingraziarsi gli adolescenti. Meglio cabarettista, che stregone, di questi tempi. Una delle tragedie che affliggono i Mijikenda è la caccia al mganga da parte delle nuove generazioni. Giovani bande di ragazzi dediti all’alcool e a droghe pesanti che adorano gli accattivanti idoli del mondo civilizzato ma non riescono a liberarsi dalle ancestrali paure degli anatemi e dei riti tribali. I loro nonni li ammoniscono: “Video ni hakili ya shetani…la televisione è la scatola cranica del diavolo. E la tecnologia il suo intestino. La vita in città è tutta una caccia a cose che tutti desiderano avere, ma di cui nessuno ha veramente bisogno. Se oltre al grano e alla verdura del nostro campo, alle galline e alle capre, avessimo anche un piccolo ospedale per tutto ciò che non si cura con le erbe e un po’ di cemento da mischiare col fango per non far sciogliere la capanna durante le piogge monsoniche, credo che non ci mancherebbe nulla”.
I giovani non credono ai loro vecchi, vanno in città e vivono di espedienti per potersi permettere un televisore. In pochi mandano soldi alle famiglie. Ricevono in cambio gli anatemi.
Con l’ultimo modello di Nokia in tasca e la motocicletta cinese tra le gambe, hanno deciso di eliminare il problema alla radice. Vanno in giro di notte e ammazzano di botte ogni presunto stregone.
Basta che abbia i capelli bianchi ed è uno di loro. Buon motivo per eliminarlo.
Da un po’ di tempo a questa parte, molti anziani dei villaggi hanno iniziato a tingersi.
Lottare per conservare le proprie tradizioni, per evitare l’esproprio dei terreni sacri, per evitare le uccisioni dei vecchi. Il compito degli ultimi Mijikenda è arduo. C’è bisogno di un appoggio delle istituzioni.
Il chief si accalora. Promette che si spenderà molto, nel prossimo consiglio provinciale a Kilifi.
alla sua gente: “siamo Kambe, facciamo parte anche noi dei Mijikenda. Abbiamo combattuto e siamo morti per salvare le nostre tradizioni. Ce ne siamo andati via da Shangwaya per non farci contaminare e sopraffare dalle tribù somale. Siamo nella nostra terra e non chiediamo nulla più che poterla lavorare, onorare, curare e raccoglierne i frutti.
Il manipolo si rimette in marcia, Tremal Naik e il mganga, con un’altra decina di kambe, si uniscono alla processione. Entrano in Kaloleni, si fermano ad erudire la platea davanti ad un bar arrampicato sulla roccia che reca l’insegna “Kosovo Kiosk”. Sorrido alla coincidenza, che non può che essere tale. Di etnie si parla, di difesa della propria cultura, anche se quella dei Mijikenda ha vocazione pacifica. Kaloleni gemellata con Pristina? Ho il volante in una mano e la telecamera nell’altra, non c’è tempo per salire le scale del bar e chiederlo all’omone dietro il banco.
I camminatori non sono mai abbastanza stanchi per rinunciare a una danza, a un salterello tribale. Sylvia la studiosa ha i piedi che sanguinano, ma accenna sorridendo due passi. Mwana il poeta aizza la folla con alcuni versi. Improvvisamente si siede sullo sgabello antico che porta sempre con sé, e finge di non riuscire più ad alzarsi. E’ una recita. Due ancelle in costume giriama fanno per tirarlo su. Mwana si riabbandona, come svenuto. Poi di colpo si solleva da solo, con un insospettabile colpo di reni. Recita un altro verso, uno slogan, a cui tutti rispondono in coro. Schiocca le dita tre volte e il piccolo popolo si rimette in marcia. Mancano poche centinaia di metri alla “terra promessa”, alla vallata di Mepoho.
Li precediamo.
Sotto un grande carrubo il gruppo delle massaie sta già cuocendo la polenta in un pentolone fumante, poggiato sulla carbonella di un fornello improvvisato con pietre di corallo. Ai saluti di rito e gli abbracci delle mama si aggiungono accenni di danze e canti. La capocuoca è una donna magra e ammantata di fierezza che in gioventù doveva essere molto bella. Ha l’incedere ieratico e ammiccante della cantante Erykah Badu.
Fa un inchino, mi prende la mano e mi invita a godere dell’afrore di mais bollito e unguenti per capelli che esala.
Il sole ha iniziato la sua parabola colorante verso la savana e cambia le tonalità al cielo. Il tramonto in Kenya dura il tempo di una danza, di un racconto dei nonni.
Arriva John, il segretario dell’associazione culturale Mijikenda, e mi mostra il luogo esatto in cui, secondo la leggenda, Mepoho predisse l’arrivo dell’uomo bianco in Kenya e poi sparì, inghiottita dalla stessa terra che l’aveva vista nascere ed essere abbandonata sul greto del fiume.
“Portata dall’acqua”, questo significa in giriama antico il suo nome.
La leggenda della prima grande figura femminile della mitologia Mijikenda parte da qui, dalla collina su cui sto poggiando i miei piedi incerti. Vedo la vallata, dove le nove tribù si divisero.
Alle mie spalle c’è il casino sostenibile di Kaloleni.
L’insostenibile è qui intorno. Invisibile di giorno, si materializza nel buio e odora di bruciato.
“Gente che si vuole appropriare di questi campi, per costruirvi o per coltivare e pascolare a proprio uso e consumo, ha provato già due volte ad incendiare la vallata con i suoi alberi e il terreno sacro – racconta John, con dolore – il terreno appartiene al Governo, sarebbe facile per loro darci la possibilità di recintarlo e i fondi per costruire un museo della storia Mijikenda”.
Siamo qui anche per questo e dobbiamo farcela. Prima che il diavolo o semplicemente un clan di giovani che ignorano la propria storia e le proprie origini, facciano un unico falò del tappeto arancione, della casa verde e di questa piccola, grande famiglia nera.

martedì 19 luglio 2011

IL GIORNO DI CIELO, ARIA E SIGARETTE DEI CARCERATI DI MALINDI


Ti chiedono sapone e sigarette, come nei film.
Chi conosce le carceri di Mtangani, sa bene che non c’è lungometraggio che possa raccontarle, senza lasciarti un senso di spaesamento e nausea. Senza rabbia, senza indignazione.
Impotente schifo e basta.
Perfino le prigioni turche di “Fuga di mezzanotte” erano più poetiche. Ti immagini almeno che le dita callose e irregolari possano appoggiarsi alle sbarre di ferro, che tra la cella e il corridoio passi un po’ d’aria, insieme al secondino che batte sui lucchetti con la spranga. Aria pesante che si sposta, come negli scompartimenti di un treno del meridione quando lasci aperta la porta scorrevole. Uno straccio di branda o due letti a castello, una seggiola cigolante, un micro tavolo o una mensola per gli effetti personali.
A Mtangani, il carcere di Malindi, non c’è niente di tutto questo. I detenuti passano le loro interminabili ore in monoblocchi in muratura, con strettissime feritoie da cui la luce entra a coltellate e tetti di lamiera che cuociono i pensieri. In estate la temperatura raggiunge i cinquanta gradi, quando piove l’acqua invade il pavimento, che è anche il letto. In un angolo, la toilette. Dieci metri quadrati di stanzone, dieci ex uomini dentro.
Logico sorprenderli a ridere, nella pausa dei lavori forzati ma tranquilli allo stadio del Malindi United. Le sigarette, rooster senza filtro, sono state sequestrate dalle guardie.
Dice che devono controllarle.
“Le ha comperate un bianco - proviamo a dirgli – non c’è il filtro”
Con la lana di vetro pestata potrebbero fabbricarsi una lametta.
Anche se qui non usa tagliarsi le vene.
Niente da fare.
Rooster sequestrate.
“Ecco, se ne terranno almeno la metà”, dice Karisa, che parla bene l’italiano e mi conosce.
“Tu avevi un ristorante, ero anche venuto a chiederti lavoro”
“Già…ma io non posso assumere tutti”
“E io dopo ho fatto degli sbagli”
Le guardie lo riprendono. Zitto e lavora.
Abbiamo voluto noi i carcerati per risistemare il campo di gioco alla fine della stagione. Lavori che qualsiasi manovale non specializzato avrebbe potuto svolgere, ma la possibilità di far respirare un po’ di cielo, sprazzi di comunicazione normale e storie del mondo fuori dal monoblocco, era troppo allettante. Grazie alla Karibuni Onlus, che da sempre ci sostiene nei nostri progetti sociali a sfondo sportivo (o viceversa), per qualche giorno Karisa e altri otto prigionieri avranno un pranzo decente e un po’ di latte fresco da bere.
“Tra sei mesi sono fuori” dice in italiano. Vendeva qualcosa di illegale ai turisti in spiaggia.
“Quando esco mi faccio la licenza…”
C’è anche chi non rivedrà il cielo libero, la sua reggia di fango e sterco tanto presto. Gli sguardi sembrano tassametri, ti scavano addosso e vorrebbero commettere l’ultima rapina, scippare la tua libertà e andarsela a godere di nascosto da qualche parte. Giocarsela a donne e birra, comprarci qualche chilo di riso e fagioli per far vivere una settimana speciale a una moglie che aspetta e a figli mai visti crescere.
Avvolgono il filo spinato, la rete che delimitava il campo. Juma ha lo sguardo altrove e la kofia islamica in testa. Afferra un bastone di ferro per sradicare la rete dai pali. La guardia imbraccia il fucile. Lui si guarda intorno. Sa bene che c’è solo una via d’uscita, e non contempla il continuare a vivere. Abbassa lo sguardo e si rimette a lavorare.
Riccardo ha portato per loro antibiotici e unguenti per le piaghe. John Ochieng alza i pantaloni a righe fino al ginocchio e scopre la tibia martoriata. Cicatrici, insetti, rimasugli di scabbia.
Le amicizie pericolose di Mtangani.
Consegniamo le confezioni al medico del carcere.
“Per i detenuti, per favore…”
Domani torneranno, ma non è dato sapere se saranno gli stessi.
Poi c’è il rischio che ci prendano gusto.
Come con il sapone, come con le sigarette.
Guarda come ridono.
Magari poi finisce che riprendono ad amare la vita…

sabato 16 luglio 2011

IL CAMMINO DEGLI ULTIMI MIJIKENDA


Sto camminando in mezzo a centoventicinque eroi.
Anacronistici, meravigliosi eroi che tentano, da soli, di salvare la loro cultura e le loro tradizioni. Non si chiamano aborigeni o pellerossa. Anche per questo non hanno alle spalle nemmeno una fondazione, un’associazione, una cavolo di onlus che li sostenga, li accudisca, li preservi.
Non sono ocelot del Paraguay o marmotte siberiane, nessuno, tranne loro stessi, griderebbe alla scomparsa, lieve e morbida come una qualsiasi commistione umana, o “meltin’ pot” come dicono nei paesi in cui delle tradizioni frega poco quasi a tutti.
Camminano a passo spedito, gli ultimi dei Mijikenda, una delle più antiche etnie del Kenya.
Indossano la voce come i loro abiti tradizionali. E’ un canto nudo, vero, senza vergogna quello che si snoda in mezzo al traffico di Malindi, da dove siamo partiti. Sono gospel animisti che parlano di esodo e di speranza, di pace ed unità. Gli stessi che i loro antenati sbriciolavano tra le labbra quando, mille anni fa, abbandonarono le colline di Shangwaya, al confine con la Somalia, per trasferirsi nella regione costiera. Loro, nomadi per forza, cacciati da tutti, con il sogno di diventare un giorno stanziali. I primi furono i somali, con cui litigarono per via delle diverse abitudini sessuali prematrimoniali, poi arrivarono i Galla che ne scuoiarono a migliaia. Giunti sul mare arabi e cinesi li ricacciarono nell’interno, e chi restava veniva fatto schiavo e deportato. Gli inglesi confiscarono i loro terreni e li ridussero a mezzadri, prima ancora che a maggiordomi, giardinieri, cuochi e autisti per due scellini. Una vita dalla brace alla brace, tra esodo e schiavitù. Oggi i rappresentanti di questo popolo africano molto meno sponsorizzato e trendy dei maasai, sono nuovamente in movimento. Per non veder morire mille anni di storia, tramandata oralmente, impressa sulla pelle e scolpita nelle ossa. Il loro leader è l’uomo più piccolo e gracile del gruppo. Joseph Karisa Mwarandu, avvocato cinquantenne che alle tre del pomeriggio, ogni giorno, smette la giacca e la cravatta davanti alla corte di Malindi e indossa i paramenti dei suoi avi, avvolgendo il khanga, pareo tradizionale, ai fianchi e lo sciarpino bianco al collo, che scende sul petto nudo. La figlia è tornata da Nairobi, dove studia legge, per l’occasione. Emmanuel e Sylvia, i più giovani della truppa, vorrebbero imitarla ma non hanno i soldi per continuare a studiare. C’è John il segretario, che tiene l’archivio etnico, c’è Mwana il poeta di bianco vestito. Lo si riconosce per gli occhiali da vista e viene da pensare che tutti i bohemien del mondo sono uguali, un dandy può essere tale anche se nato in una capanna di fango e sterco e non in un castello della Loira. Baya invece è un cantautore impegnato, scrive testi sull’emarginazione di chi protegge le istituzioni e allo stesso tempo combatte le storture radicate nella sua civiltà, come l’omertà riguardo alle molestie sui minori, l’alcolismo e l’uso smodato di nuove droghe, la peste di quel tipo di capitalismo che è arrivato anche qui e che chiamare selvaggio è un’offesa alle verdi colline d’Africa dove lui e la sua gente sono nati. Qui i giovani si ammazzano tra loro per un telefonino, e non lotteranno mai per avere una scuola più attrezzata, un museo con dentro le loro radici, un pronto soccorso a pochi chilometri dal villaggio.
Intorno agli “intellettuali” di questo improbabile manipolo, ci sono gli anziani stregoni, che ancora guariscono la malaria con le foglie e curano l’infertilità con danze e rituali magici. C’è il vecchio Mboko, ricoperto di pelle di facocero e piume di fagiano, c’è Wanje con la barba più lunga dello sguardo, ma più corta del suo passo.
Camminiamo per Malindi. Qui la mescolanza, la multi etnicità è quotidiana. Si respira nei bazar, tra le bancarelle del mercato vecchio, perfino negli hotel della zona turistica. Islamici e cristiani convivono da sempre e non si sono mai accapigliati. Non ci sarebbe motivo, qui sanno tutti che Dio è troppo grande e lontano e se, come dice nonno Kazungu, la religione è una scala, è capace che mettendone assieme molte, anche diverse tra loro, lo si possa raggiungere. Una scala, da sola, non arriva neanche al primo piano di una nuvola. Ma nelle strade affollate di Malindi si sfiorano anche indiani e tedeschi, tanzaniani e somali, concittadini di Briatore e connazionali di Obama.
La gente, in sorridente disordine, si mette ai lati delle strade e sorride al corteo che canta. Guardano le donne, meravigliose brutture bardate di rosso e di viola, agitare i loro seni fasciati e i loro fondoschiena sporgenti. Poi si fissano sull’uomo bianco, lo additano e ridono.
Molti mi salutano, mi chiamano per nome. Altri chiedono informazioni. “Non è uno sciroccato. Forse, sì. A giorni alterni”.
I miasmi del mercato vecchio, in cui l’ananas macerato al sole si confonde con i piccoli pesci di barriera corallina essicati e la miscela delle apecar, inebriano l’incedere irregolare del corteo, che s’ingrossa di simpatizzanti, ubriachi, buoni a nulla, studenti e donne che stavano facendo la spesa con in tasca le monete sufficienti per un chilo di spinaci e quattro pomodori.
“Dove andate?”
“A Kaloleni, passando da Mombasa”
Centoquaranta chilometri. Per arrivare nel luogo simbolo della cultura Mijikenda. La Kaya (vuol dire Casa, ce ne sono solo tre con la C maiuscola in Kenya) dove la regina Mepoho, a metà del milleottocento, fece il suo vaticinio sull’arrivo dei colonialisti e secondo la leggenda scomparve, nascosta dal fumo di un baobab incenerito da un fulmine, nelle viscere della terra.
“Verrà un popolo con la pelle e i capelli chiari, userà per muoversi strani veicoli per cielo, per mare e per terra. Saranno gli uomini, non le donne, a governare quella società. Quel giorno per il nostro popolo sarà la fine”.
Oggi la Kaya è minacciata dagli speculatori. Un fazzoletto di savana in mezzo al nulla è al soldo di piccoli proprietari terrieri senza scrupoli né storia. Gli squatter lo occupano, i pastori lo reclamano, gli affaristi lo bruciano. E’ il simbolo di quel che sta accadendo alla loro cultura, alla tradizione orale che nessuno trascrive, che non si riesce neanche a mettere in gabbia, nella prigione dignitosa d’un museo.
Gli ultimi dei Mijikenda sono in viaggio per fare la loro storia. E la stanno facendo.
Usciamo da Malindi, prendiamo la strada dell’aeroporto. Volti contadini, visi duri d’ebano e provati da fatiche ancestrali osservano l’atterraggio di quello che ancora oggi nella lingua madre swahili si chiama “ndege”, uccello. Perché tutto in principio era natura, e tutto tornerà ad esserlo.
Marciano fieri, i miei amici. Abbiamo già fatto tante cose insieme e tante ne faremo. Sto raccogliendo le loro storie, le leggende tramandate di padre in padre più giovane e raramente in figlio o nipote. Non sono un maratoneta, non ho il fisico, e non mi prendo meriti che mai potranno essere miei. Salgo in macchina e li seguo fino quasi a Gede, dove all’ombra di un grande baobab improvvisano un comizio per la gente del luogo che non sapeva di questa manifestazione.
Intorno è solo cielo, boscaglia e una striscia d’asfalto. Giovani che si sporcano le mani con il carburatore di un elefante di lamiera in avaria e la bocca con la parola “cultura”.
“Calciar, calciar” pronunciano alla maniera dei rasta giamaicani. “Loro difendono la nostra calciar. Siamo tutti mijikenda”. Poi ti chiedono qualche spicciolo per un tè, per un pacchetto di sigarette.
“Non è meglio che li dia a loro per la calciar?”
“Dalli anche a loro, mzungu. Ma anche a me per le sigarette”.
Altre anime uscite dal verde oltre la carreggiata vorrebbero unirsi al corteo, ma dicono di avere da fare. Altri precedono per qualche chilometro con la loro motocicletta il serpente umano che si è rimesso in viaggio. In serata arriveranno a Tezo, dopo quaranta chilometri a passo di diaspora. “La prima giornata è sempre la più dura” mi dice Baya al telefono. “Domani erudiremo Kilifi, il capoluogo, e dopodomani saremo a Mombasa. Sfileremo nella grande città”.
Martedì, dopo cinque giorni di camminata di pace e unità, di speranza e gioia, raggiungeranno Kaloleni. E io sarò lì ad attenderli, e a raccontarne l’orgoglio.

mercoledì 13 luglio 2011

BENTORNATI TURISTI, SI RICOMINCIA...


Altro giro, altra corsa. In uno dei pochi luoghi del mondo dove non importa che non ci siano più le mezze stagioni, perché qui di stagioni da sempre se ne alternano soltanto due, stanno per tornare i nostri amici turisti.
Ne sentivamo la mancanza, davvero! E non solo perché le nostre tasche sono vuotine, come spesso accade dopo le piogge. Abbiamo proprio voglia di vedere il loro pellame, che sembra uscito da italici caseifici, da nebbie invernali dense come stracchini e dai grigiori dello smog.
Ma no, dai che non è vero, lo so che vi siete allenati con i raggi Uva, lo so che da voi i lettini dei centri d'abbronzatura sono più frequentati di quelli dello psicanalista (anche se a giudicare da come vanno le cose lassù, dovrebbe essere il contrario).
Ci divertiremo per l’ennesima volta a scoprire i loro occhi spalancati sulla natura africana, le mucose del naso che respirano roba vera, il passo e il gesticolare che si fa più tranquillo.
E a dirgli: “Siete in vacanza, e per giunta in Africa, rilassatevi!”
Avremo i turisti di primo pelo, che hanno paura degli scarafaggi in bagno ma amano i granchietti sulla sabbia, quelli che sanno già tutto e sono convinti che Vasco da Gama fosse un cantante rock e Naomi Campbell sia nativa di queste parti. Arriveranno i “turisti del sorriso”, quelli che si commuovono a vedere un bimbo che salta e ride, pur non possedendo nulla, ignorando che si tratta di un giovane acrobata e che la risata è uno spasmo della fame. Sbarcheranno i turisti fai da te, che prenderanno per buone tutte le storie che racconterà loro il primo beach-boy conosciuto sulla spiaggia. Al loro ritorno diranno che il Safari è un po’ un’ammazzata, perché in 15 su un matatu non si sta comodi, l’autista corre come un pazzo e il pranzo al sacco non valeva il panino Camogli dell’Autogrill di Roncobilaccio. Però avranno trovato un amico africano di cui si possono fidare come fosse un fratello.
Ah, vacanzieri italiani, come vi vogliamo bene. Quelli che si mettono il braccialetto all-inclusive e con il cavolo che ne vogliono sapere di uscire in un Paese che sicuramente è colluso con Al-Qaeda, dove i coccodrilli girano in centro senza guinzaglio e la gente è ostile come nel centro Katanga.
Ma anche quelli che appena vedono un italiano a piede libero lo assalgono di domande:
“Ma vivi qui? Ma sei felice? Che bell’idea hai avuto! Con 600 euro al mese posso avere una villa con giardino, piscina, servitù, fuoristrada, partner focoso?” Ma certo caro! Dai a me i primi seicento euro che ti faccio fumare una sigarettina buona buona, poi avrai quello che desideri. Certe visioni…e non ci sarà bisogno nemmeno del partner focoso!
Deliziosi turisti, che chiameranno la spiaggia di Mayungu “Sardegna 2” e Che Chale “Spiaggia dorata” (ma ho sentito anche Spiaggia dello Scialle…sarà perché tira vento?), faranno la foto davanti alla barriera corallina con i pescatori locali e gli insegneranno a gridare “Italia Uno!” Con il pollicione in primo piano. Ci sarà chi apostroferà i beach boys con i loro nomi di battesimo: Antonio, Giuseppe, Pasquale…o con i soprannomi che davano loro le mamme al villaggio da bambini: Toblerone, Mestolo l’Ottavo Nano, Katanzaro, Baggio, Ramazzotti. E giù a ridere.
Perché nonostante il Kenya abbia tanti problemi (per dirvene due o tre, recentemente il Governo si è intascato 36 milioni di euro dati dal Regno Unito per l’istruzione elementare obbligatoria e non si sa dove siano finiti (!), l’inflazione galoppa e i ricchi si arricchiscono, la siccità record mette in ginocchio pastori e agricoltori), a Malindi conviene sempre sorridere perché come si sa, “the show must go on”.
Sinceramente io vi aspetto, turisti…perché tengo famiglia. Ma soprattutto perché ogni volta che tornate, tra cento di quelli sopracitati, ce n’è sempre uno che ha voglia e tempo di gettare lo sguardo oltre, di “farsi un giro nella parte selvaggia”, di entrare in una scuola o nella nostra accademia di calcio che toglie i ragazzi dalla strada e non semplicemente in un orfanotrofio come fosse uno zoo equo-solidale a vedere questi animaletti umani con gli occhi grandi e rimpinzarli di caramelle.
Io vi aspetto, perché fino a quando anche uno solo di voi mi darà la soddisfazione di capire questo posto, il mio scrivere e farmi sentire da qui, avrà un senso.
Karibu wageni! Benvenuti turisti!