giovedì 24 febbraio 2011

A MALINDI NON SOLO VIP: CONCERTO DI SOLIDARIETA' CON PAOLA TURCI


Il duetto tra Paola Turci ed Eric Wainaina, che hanno cantato assieme il classico di Bob Marley “Redemption Song”, è stato spettacoloso e ha mandato in visibilio la folla che assisteva al festival di Malindi.
Sul palco allestito al vecchio albergo in disuso, Sinbad Hotel, nei pressi del casinò, che brulica di turisti spensierati e felici, sabato sera si sono alternati i migliori artisti kenioti, Eric Wainaina è uno di loro ma anche Nyota Ndogo, AMREF JuaKali drummers, Mr. Bado e MADCA, e l’italiana Paola Turci. La performance dei musicisti, realizzata dall’organizzazione non governativa CISP, Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli, e soprattutto dalla sua animatrice qui a Malindi, Tania Miorin, non aveva come scopo principale quello di intrattenere il pubblico, ma piuttosto di portare all’attenzione il diritto all’istruzione dei ragazzini africani in genere e di quelli di Malindi, dove il CISP lavora da anni, in particolare.
Le prove della mattina hanno duramente colpito i due musicisti venuti dall’Italia con Paola Turci, uno dei quali, il bassista romano Pierpaolo Ranieri, è stato rosolato per bene dal sole tropicale che picchiava duro. Non sì è perso d’animo e sebbene dolorante, in serata è stato fantastico. Il secondo, Massimo Cusato, calabrese, un batterista di grande talento, si è “salvato” grazie alla folta capigliatura.
“La musica – ha spiegato Paola Turci in un’intervista al Corriere – può essere il collante che fa decollare le idee. I bambini africani devono essere aiutati; portare la gente in piazza ad ascoltare e a ballare con noi, serve a sensibilizzare il pubblico a renderlo partecipe dei bisogni. I ragazzini, ma anche i loro genitori, devono capire che la scuola e l’istruzione sono importantissimi per assicurare un futuro migliore. Spesso però sono indigenti e non possono sostenere le spese scolastiche o hanno bisogno di mandare i figli a lavorare. Dunque occorre trovare dei finanziatori. Anche attraverso la musica e concerti come questo ”.
Paola la scorsa settimana era in piazza assieme alle donne di tutta Italia. “Non si può solo criticare occorre anche agire. Così ho dato il mio contributo alla causa. Non mi piace lo stereotipo di donna che si vuol far passare”.
Dal palco uno scatenato presentatore, Freddie del Curatolo, ex giornalista della Provincia di Como ora trapiantato a Malindi, urlava con grande sicurezza ed enfasi: “Education is your right. Education is your future”, cioè l’istruzione è un vostro diritto; l’istruzione è il vostro futuro. Sperava in cuor suo che la moltitudine dei ragazzini e dei genitori presenti al concerto capisse l’importanza del messaggio. “Devo convincerli”, mormorava alla mattina durante le prove.
La manifestazione ha avuto parecchi sponsor, tra gli altri la linea aerea regionale Air Kenya, il cui manager e comproprietario è il pilota italiano Dino Bisleti, gli alberghi del gruppo Key, dove hanno alloggiato gli ospiti, il ristorante Papa Remo sulla spiaggia di Watamu, un piccolo centro balneare a sud di Malindi, (bellissima la location in uno dei pochi punti deliziosi della costa keniota) e la Cooperazione Italiana: “Già da tempo – ha spiegato Marina Rini che l’ha rappresentata a Malindi per quest’evento – siamo impegnati a migliorare le condizioni dei servizi sanitari della popolazione di Malindi e del distretto del Delta del Tana di cui la cittadina fa parte”.
“Ora stiamo realizzando un’importante iniziativa per un valore di 240 milioni di scellini (2 milioni e centosessantamila euro) che riguarda non solo il settore della sanità ma anche quello dell’educazione con la costruzione o il restauro di 11 scuole elementari, e quattordici strutture ambulatoriali in un aerea che serve 317 mila persone”.
Marina Rini ha portato un messaggio di Martino Melli, il capo della Cooperazione Italiana in Kenya: “Il nostro coinvolgimento di oggi – ha scritto Melli – può fare la differenza per il futuro di questo Paese che dipende dai cittadini e dai lavoratori di domani”.
Il festival organizzato dal Cisp era cominciato la mattina con attività ludiche ed educative per bambini e ragazzi: esibizione di saltimbanchi e danzatori tradizionali, lettura di poesie, spettacoli di burattini e brevi pièce teatrali.
“Nel distretto di Malindi il tasso di iscrizione alla scuola primaria, obbligatoria per legge – spiegano Sandro De Luca, area manager per l'Africa del CISP, e Marcella Ferracciolo, rappresentante per il Kenya della stessa organizzazione – è dell’84 per cento per i maschi e del 67 per le femmine. Contro una media nazionale rispettivamente del 95 e del 90. Per la scuola secondaria queste percentuali calano terribilmente: 14, 7 per i maschi e 1,7 per cento per le femmine. Nonostante lo sviluppo dell’industria turistica, questi dati contribuiscono a rendere il distretto di Malindi uno dei più poveri di tutto il Kenya. Secondo i dati del governo il 66 per cento del Paese vive sotto la soglia di povertà”.“Il festival dunque serve anche a questo – conclude Tania Miorin, 'cuore' e 'anima' della manifestazione -. Se l’industria turistica devolvesse un euro per ogni italiano che viene qui in vacanza potremmo raccogliere un po’ di fondi da devolvere agli aiuti all’educazione, cosa che potrebbe assicurare ai bambini e ai ragazzi di Malindi un futuro migliore”
Massimo Alberizzi "Il corriere della Sera"

martedì 22 febbraio 2011

UNA SERATA CHE E' VITA (NON SOLO TUA)


“La vita è l’arte dell’incontro”, diceva quel poeta brasiliano, che passeggiava su una spiaggia più affollata di quelle africane. Guardo indietro la scia lasciata dal mio pessimismo occidentale, parallela a quella dell’ultimo jumbo che mi ha portato nella terra del jambo, e respiro serenamente il paradosso che mi vorrebbe uomo di spettacolo (tanto) e di cultura (troppo poca) ma che mi fa vivere dove è più difficile esserlo. Così campo di mill’altre cose splendide, di begli incontri e di quel po’ di Europa e d’Africa buona che passa di qua.
Il Malindi Music Festival for Children, creatura di un’altra bella persona che abita da queste parti, Tania Miorin, “pasionaria razionale” che lavora per una “en-gi-ò”, quest’anno per la sua seconda edizione, mi ha fatto godere. Intanto l’anello di congiunzione tra musica e solidarietà è più che mai quello dei bambini, che ormai sono anche i “miei” piccoli. I loro volti dipinti durante i giochi della mattina erano uguali a quelli dei piccoli calciatori che allevo, i loro occhi grandi e sgranati li frequento tutti i giorni e mia figlia Agata Zena ci si imbatte con il loro stesso sorriso ed entusiasmo. Poi c’è il legame forte con la Malindi District Cultural Association, il presidente Joseph Mwarandu e il vice Baya, che mi hanno dato qualche settimana fa l’onorificenza di giriama, battezzandomi Mbogo Kimera. Loro sono i primi a salire sul palco del Festival, che ho la fortuna di poter presentare. Sotto quel coloratissimo palco, migliaia di persone e anche molti residenti europei. Canzoni tradizionali giriama e un pizzico di modernità con basso, chitarra e batteria che difficilmente potreste vedere a Kakoneni, Marikebuni o Kayafungo, dove l’elettricità serale la fanno le lucciole e la luce artificiale è qualcosa che fa respirare male, perché arriva dalle lampade a cherosene. La voce ieratica di Mzee Mboko, che ricorda i bluesman di una Louisiana primi novecento, quella roca di Mzee Tendere e le prediche squillanti di Baya, nei loro kanga e kikoi colorati, si appoggiano al vento come fossero della stessa materia. Che importa se i giovani capiscono e apprezzano di più il rapper Mr.Bado, che aizza la folla, o la sgallettata Nyota Ndogo (Stellina) che appare addirittura sconcia, in una kermesse dedicata ai bambini. Bando al finto moralismo, i ragazzini di queste parti vivono sulla loro pelle ogni giorno cose ben peggiori, al limite insegnare che il sesso è un momento di gioia e di piacere, e non violenza o scambio di favori, è già realisticamente qualcosa. Arriva il momento clou dello spettacolo che sto presentando in un inglese stentato. I percussionisti di strada degli slum di Nairobi hanno portato con loro la nuova leva, piccoli musicisti saltellanti che avranno al massimo quattordici anni. Il capobanda parla il linguaggio delle bacchette che vibrano sopra ogni oggetto di riciclo: bidoni, tubi dell’acqua, valvole, taniche. E non potrebbe parlare altrimenti, avendo uno scherzo di denti in bocca. Il mio linguaggio stentato contro il suo linguaggio sdentato. Suoni, colori e allegria da chi si deve scrollare con quanti più forza e rumore possibili la miseria di dosso. Arriva Eric Wainaina, cantautore keniota da sempre apprezzato per il suo impegno sociale, i suoi testi intelligenti che tentano di smuovere le coscienze di chi ancora ha in testa assurde questioni tribali. “Le cazzate etniche non devono entrare nella nostra vita sociale – dice dal palco – se l’uomo politico viene eletto per servire il cittadino, bisogna giudicare il suo operato, non votarlo perché appartiene alla nostra stessa etnia. Se avete bisogno di un idraulico perché il rubinetto di casa perde, vi affidate all’idraulico più bravo e a miglior prezzo o vi interessa solo che sia della vostra stessa tribù?”. Parole sagge e sacrosante. Un discorso perfino realistico, se fosse vero che i politici fanno i gli interessi della gente. Ma Eric scrive “Love and protest”, ha due bambine meravigliose cui non stacca gli occhi di dosso nemmeno mentre fa il “sound check” e una moglie, Sheba, che segue con devozione la sua performance. E’ un artista, un uomo del nuovo Kenya. Ci dice che c’è speranza, per questo paese. E ce lo canta. “Sawa Sawa”.
Di Paola, Turci, vorrei riuscire a parlare da critico musicale, ma non ci riesco. E’ già un’amica, e ha capito subito l’Africa, il Kenya, Malindi. Aiutata dal marito Andrea, che ha un bel mal d’Africa sotto l’allegra corteccia da meneghino d.o.c. “stanco dei milanesi”, si è immersa nella cultura locale, emozionandosi visibilmente quando i Madca le hanno intonato la sua “Bambini” in swahili misto al dialetto locale. Insieme, sul palco, hanno cantato “Watoto”, ed è stato uno dei momenti più profondi e significativi del festival. Emozionalmente si tocca l’apice con “Redemption song”, in duetto con Wainaina, ma Paola è trascinante anche con le sue canzoni. I kenioti battono le mani, sembrano capire. Che importa se i microfoni saltano uno ad uno come fulminati dall’insolito temporale di note mai ascoltate in riva all’oceano indiano, se si finisce in venti sul palco a suonare le percussioni colorate dei Juakali passandoci l’unico gelatone rimasto come fosse una bacchetta magica per inventarsi strofe di canzoni, slogan per i bimbi e per l’istruzione, armonie e scioglilingua rap, in un’interminabile jam session. Education is your right, education is your future.
Il segreto della vita, per me, è racchiuso in serate come questa. E’ condividere un’esperienza bella, è riconoscersi, è fare del bene, è sentire questo bene nelle ossa e nel sangue. Con quante più persone con la stessa tua sensibilità, riuscirai ad avere vicino.

lunedì 21 febbraio 2011

UN'INDIMENTICABILE SETTIMANA ROSSOBLU IN AFRICA (di Edoardo e Beccioni)


Se ti piace depilata, forse l’Africa non fa per te.La sua bellezza è rigogliosa, ma sepolta sotto montagne di schifezza.
La schifezza è dovunque, e quasi tutta d’importazione.
Arrivi in Africa e capisci subito che è un inferno. Ma la scoperta più terribile è la successiva: questo inferno africano è infinitamente più vivibile e seducente dell’inferno asettico di casa tua. Se poi ci aggiungi un Freddie Beccioni quasi astemio in regime pre-derby e i ragazzini della Scuola Calcio di Malindi, lo sconcerto è totale.
Però, nella luce dell’equatore, il rosso e il blu diventano ancora più splendenti, ti affascinano, ti tolgono il fiato.
Ok, forse Malindi non è Africa, o è Africa in un modo un po’ speciale. Come quando scavi un buco nella polenta e ci versi il trifolato di funghi porcini. L’Africa, la polenta, è tutto intorno, ma se caschi dritto in mezzo al trifolato puoi anche avere l’impressione di goderti una vacanza italiana da cinepanettone.
Ma il Grifone non lo trovi certo nelle pieghe preziose della Malindi infiocchettata di tricolore. Il Grifone non sta, ovviamente, con gli elegantoni griffati della costa, immersi nelle loro ville e nei loro porti rotondi, all’ombra di cocktail in bicchieri dagli steli smisurati. No. Tagli per una strada sterrata che si diparte dal centro. Dal centro della Malindi africana, quella vera. Ai bordi della strada, sobbalzando, vedi precarie bancarelle con ogni mercanzia, precarie baracche abitate da vite assetate di grazia, precarie montagne di rifiuti (non è dato sapere per quale misteriosa ragione la povertà generi così tanti rifiuti). In fondo alla strada, poco dopo una discarica, un immenso baobab ti introduce al campo dei ragazzi del Genoa.
Sono lì, ansiosi di indossare la gloriosa casacca. I loro sorrisi e i loro occhi curiosi valgono un gol di Palacio, nel derby, al 94mo. Giocano contro la squadra di un orfanotrofio. Gli avversari indossano belle maglie sponsorizzate, ma rivelano scarsa dimestichezza con la tattica. Gli ci vorrebbe Gasperini. Magari potrebbe bastare anche Pato. I ragazzini del Genoa (molti dei quali a piedi nudi) applicano gli schemi del loro mister a memoria e sembrano il Barcellona. Alla fine non si contano i gol: 8 o 9 a zero. So solo che cominciamo a fare tutti il tifo per gli avversari. Perché un vero genoano, anche quando gli tocca vincere, finisce sempre col condividere la sconfitta coi perdenti.
Seguo soprattutto Mystic e Stanley, due ragazzini molto bravi e molto bisognosi di sponsor. Hanno gravi problemi di famiglia, ma giocano con allegria comunicando allegria. Mystic è un centrocampista dai piedi e dal cervello sopraffini. Non so se sia meglio di Milanetto, ma è molto bello a vedersi. Stanley gioca sulla fascia, con la giusta energia e inserimenti ben calibrati. Mi piace un sacco. Poi c’è Joseph, il dolcissimo Girino. E’ infortunato, ma si presenta con una t-shirt del grifone e fa il tifo da bordo campo. E di certo non gliel’hanno suggerito Scarpi o Marco Rossi.
La settimana dopo rivedo i nostri contro una compagine tignosa: ragazzi vivaci, esperti e un po’ gaglioffi, senza divisa. C’è quello che gioca a torso nudo, quello con la maglietta stracciata, quello in bermuda. Ma sono forti. Vanno in vantaggio su contropiede (in fuorigioco non visto) e poi si difendono come se li allenasse Novellino. I Grifoncini riescono a pareggiare alla fine del primo tempo. Anche se gli avversari intasano gli spazi non rinunciano alle loro eleganti trame triangolari e, nel secondo tempo, segnano il 2-1 e poi il 3-1, con azioni splendide.
Ma il risultato è un fattore relativo. Li vedi scendere in campo, col rosso e il blu che brillano, e capisci che, comunque vada, hanno già vinto. Loro e tutti coloro che gli vogliono bene.
Del Genoa vero, che dire? Pare assurdo che l’entità africana in grado di disquisirne, all’anagrafe artistica si chiami Beccioni. Dopo la litania di Bari mi tocca condividere il Derby con quel pazzo. Dopo aver cercato la diretta in una tv mozambicana di parenti di Eduardo, predisposto un ardito accrocchio skype, sognato uno streaming saltellante, ci rimane solo la voce di Brenzini. Il Beccio è imbufalito, parte una bottiglia di “Libertas”, un cabernet sauvignon sudafricano che ha scovato nella cantina di fango di uno stregone bantù. La valanga di gol sbagliati ci predispone a subire la nemesi. Partono anche birre Tusker. Ci guardiamo abbacchiati, così sicuri del peggio che, al gol di Rafinha, saltiamo in piedi esultando male, condizionati dalla paura che, alla fin fine, la vittoria ci sfugga solo perché siamo in Africa. Vinciamo, invece, ma è tutto irreale. Vedete un po’ voi: un tale che, ai miei occhi, non brilla per intelligenza, mi racconta, da dentro una scatoletta, mentre me ne sto all’Equatore, che il Genoa sta vincendo il Derby. Chiaro che non mi fidi. Mi sembra tutta una faccenda artefatta: l’Africa, il vino, il caldo, le birre, la ragazza della scorta del Beccio che mi aspetta in albergo. Vado da lei, le infilo la sciarpa rossoblù e corriamo per le strade a sbandierare. Beccioni suona il clacson per una città che non sa perché, per una nazione e un continente che non sanno perché e forse si chiedono quale mai sarà il paese in rivolta con la bandiera rossoblù. Facciamo un po’ di casino, ma le televisioni parlano d’altro. Nei bar, nelle strade, nessun segno. Mi sveglio di notte, con il cielo equatoriale che incombe, la ragazza che mi abbraccia teneramente, la sciarpa rossoblù ancora ai piedi del letto e mi dico: “Non può essere vero. È un trucco di quel diavolo d’un Beccio. Non cascarci, ragazzo”. Appena sveglio, gli telefono e, stupidamente, ansiosamente, imploro: “Lo hanno detto in TV? C’è scritto sui giornali? Dimmi che è vero”. Lui mi conferma che esistono prove certe e così vado in spiaggia, davanti all’oceano, solo. E solo allora, come uno scemo, mi lascio andare alla gioia vera e irrefrenabile, con 14 ore di ritardo.
La domenica successiva è quella di Genoa-Roma, ma anche quella che sta preparando la mia ultima notte africana. Il Beccio mi viene a prendere in albergo per soffrire insieme davanti a qualche altro elettrodomestico cieco. È un po’ in ritardo, dopo i bagordi di un megaconcerto della notte precedente e un pomeriggio al mare. Non faccio in tempo ad aprire la portiera dell’auto che mi dice, con la morte nel cuore: “Abbiamo appena beccato gol. Stiamo risuscitando la Rometta”. Mi invita a casa sua, armeggia un po’ con TV e Internet ed ecco la seconda pera. Cacchio. C’è una tristissima trasmissione RAI. Fanno vedere la partita del Milan e si collegano con gli altri campi ad ogni gol segnato. Si sente lo squillo di una trombetta stonata ed è di nuovo Marassi: 3-0. Fanculo. Tiriamo giù le madonne equatoriali, spegniamo gli ardori e cominciamo a parlare di affari e di passatempi vari. Di quando passerò sei mesi all’anno da queste parti e piazzerò via mail Mystic al Ligorna e Stanley al Sestri Levante. La mia ultima domenica si preannuncia nera. Nera come l’Africa, e forse anche di più. Nello studio della RAI i romanisti gongolano. Comincia il secondo tempo e squilla la trombetta. Il golletto di Palacio ci rianima. Forza, ragazzi! Dopo il secondo gol rossoblù siamo sicuri che non finirà così: o loro fanno il quarto o pareggiamo. Trombetta. Birre. Immagini dei Grifoni che si abbracciano. Saltiamo su come matti, urliamo, svegliamo tutto il quartiere. Guardo l’orologio, guardo il Beccio e proclamo: “Adesso voglio vincere”. Cosa sia successo al gol della vittoria ve lo lascio immaginare. Una rimonta storica, una goduria. Vado in albergo a prendere la mia amica, ci vestiamo di rossoblù e andiamo a festeggiare in uno splendido ristorante consigliato dal Beccio: “The old man and the sea”. Come avrebbe fatto Hemingway, ma anche P.A.P. , ci strabuffiamo di pesce e crostacei, bardati con i colori del Grifone. Intorno a noi c’è una famiglia musulmana, che non capisce ma si adegua.
Poi la serata scivola verso la notte, che è la lunga notte degli addii. La gioia si diluisce in nostalgia, le tusker non bastano più a tenere a freno la tristezza e dagli occhi della mia compagna afro-genoana scivolano giù lacrime incontenibili. Decido che è meglio tagliare la testa al toro, prima che la situazione degeneri. Ci stringiamo con tutta la tenerezza possibile e infilo nell’ultima birra due Roipnol. I sentimenti si attenuano. Anche il 4-3 del pomeriggio ora sembra lontano. E ancor più distante, l’ultimo derby vinto in contumacia. Ma va bene così. Anche a sopportare la felicità bisogna essere allenati.
Dai ragazzini alla prima squadra: un Grifone indimenticabile, un’apoteosi.
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Altro che Pizzighettone!

venerdì 4 febbraio 2011

NONNO KAZUNGU E I CANI

‎"Nonno, perchè il cane abbaia all'acacia?"
"Spesso, nipote, quando non hai niente da dire, riesci a dirlo soltanto urlando"