lunedì 21 marzo 2011

IL RAGAZZO DEL SALE


Oggi abbiamo trovato un'adozione a distanza per Baraka, uno splendido ragazzo della nostra accademia di calcio. E' ora di pubblicare il racconto che ho scritto quando l'ho conosciuto.
(grazie Fabio e Simona!)
Sole e sabbia salata, bianco accecante che va a sfumare nelle veloci nuvole passeggere, come se la terra d’Africa volesse scrollarsi di dosso una patina fastidiosa.
Il verde della boscaglia è puntellato dai contorni alti delle palme e degrada fino a quando, vinto dall’arsura, non si trasforma in blu.
Lontano, si scorge la piattaforma per le ricerche spaziali della base italiana San Marco.
In questo surreale scenario, inedito scorcio keniota, quattordici anni fa è nato Baraka Badi.
Siamo a Ngomeni, trenta chilometri da Malindi, sulla strada che porta a nord, verso la Somalia.
Qui nel 1965 uno scienziato italiano, il professor Luigi Broglio, scendendo da Mogadiscio, dov’era sbarcato, individuò il punto giusto per installare un centro di ricerche aerospaziali.
Meridiano Uno, poche centinaia di chilometri sotto l’equatore.
I tecnici che arrivarono furono i primi connazionali a mettere radici sulla costa del Kenya.
Alcuni di loro vivono ancora qui e hanno visto crescere i genitori di Baraka. Li hanno guardati macerarsi sotto il sole, tenere la loro resistente pelle sotto sale per anni.
Infatti a Ngomeni oltre alla base San Marco, ci sono le saline. Abbaglianti distese bianche da percorrere a piedi nudi, cumuli di sassi roventi da spalare.
Le saline sono una delle poche possibilità di lavoro sicuro per gli abitanti della zona.
I più fortunati sono stati assunti dai tecnici mzungu, agli altri non resta che il sale.
Dura la vita alle saline: pelle che brucia e si spacca, condizioni di lavoro inaccettabili. Tra i bianchi cristalli si è consumato uno dei primi scioperi kenioti.
Le aziende del sale sono governative o in mano a ricchi indiani, i lavoratori si sentono sfruttati non meno che ai tempi del colonialismo britannico. Certo, si possono pescare i gamberi, in mezzo alle saline, e arrotondare con quelli. Ma poi chi ha tempo di venderli? Alla fine li metti sulla bicicletta di un cugino, li carichi su un matatu con un amico che prova l’avventura di andare a piazzarli a Malindi e torna quasi sempre a mani vuote, oppure con due spiccioli per te e il resto in pancia o nella gola.
Allora si ritorna sul tappeto di chiodi bianchi, ci si fasciano i piedi e la testa con gli stracci, si fissano le vecchie lenti da sole comperate al mercato di Garsen con il nastro adesivo e si imbraccia la vanga. Per un euro al giorno.
Al padre di Baraka non è mai piaciuto il sale.
Ha iniziato a battere il ferro e la latta fin da ragazzo. Ogni tanto ha prestato le sue braccia alla San Marco e, dopo anni di pratica, qualche mzungu della zona gli da lavoro. Quando arriva il lavoro per il bianco, c’è qualche soldo per mandare a scuola i ragazzi, ma non sempre accade.
A volte per mesi e mesi devi vivere di espedienti, inventarti lavori o sapere che terminerai la giornata con cinquanta scellini in saccoccia e avrai i soldi per dividere con tua moglie e i ragazzi mezzo chilo di polenta e un piatto di fagioli. A volte non ci sono nemmeno i fagioli, e allora si inzuppa la polenta in acqua e sale. Il maledetto sale.
Baraka è il quarto di cinque fratelli. La sorella maggiore Amina era portata per gli studi, ma ha dovuto lasciare la scuola superiore al terzo anno. Mancavano i soldi per le rette e i libri. Mariam, la secondogenita, ha preferito sposarsi a sedici anni e dopo poco ha dato alla luce il primo figlio pensando che, chissà, forse quando avrà la sua età le cose saranno diverse, forse potrà garantirgli un futuro migliore. Amani invece ha deciso che non vuole studiare. Vive di espedienti, coltiva spinaci e fatalismo, aiuta il padre e ammazza i giorni come fossero serpenti.
Baraka a sei anni si ritrova tra i piedi un pallone mezzo sgonfio e rattoppato e capisce qual è la sua passione. Ogni giorno, dopo la scuola, corre al campo di calcio, due porte di ferro tra le saline e la strada polverosa che porta alla base. Dribbla i sassi, i ciuffi d’erba, le naturali gibbosità del terreno. I suoi primi avversari, tutti insieme contro le disgrazie della vita. Baraka scatta, passa, tira e molto presto entra nella squadra junior di Ngomeni. Osserva i ragazzi più grandi quelli a cui, finite le scuole dell’obbligo, rimane solo il pallone.
“Non vogliono lavorare alle saline ma non vedono un futuro diverso da quello. La loro giornata è una partita di calcio e dopo si riposano all’ombra di una palma. Vivono alla giornata, sperano di poter mangiare almeno una volta prima di andare a dormire. Poco a poco perdono ogni minima ambizione”.
A Baraka piace studiare e non ha intenzione di fare la fine della sorella Amina. Capisce che il suo futuro è lontano da Ngomeni. Così si allena più duramente degli altri e a dodici anni si ritrova nella squadra con i diciottenni. Si mette in difesa, sulla fascia, e aspetta la palla come una possibilità per emergere, per dimostrare di essere già grande e di voler crescere ancora.
E’ così che viene notato dalla Kenya Football Academy.
E’ raro trovare un ragazzo così giovane con una tale strenua volontà.
“Mi piace studiare e giocare a calcio e quando ho capito che a Malindi avrei potuto fare quello che ho sempre sognato, non ho avuto esitazioni. Ci ho provato. Durante le selezioni ho dato tutto me stesso per raggiungere questo obbiettivo”.
Baraka fissa la sua meta, vuole arrivare un giorno a giocare nella Premier League keniota, ma se dovesse scegliere, preferirebbe iscriversi all’università.
“Magari, tramite il mio stipendio da calciatore, potrei laurearmi e diventare professore. Mi piacerebbe, un giorno, insegnare ai più piccoli ad amare lo studio, perché è un modo appassionante per sconfiggere, nel nostro piccolo, la povertà”.
Per Baraka la cultura è una salvezza, ma il calcio è una palestra di vita.
“Per diventare un buon giocatore devi imparare innanzitutto le regole e rispettarle. Se non conosci i principi fondamentali di questo gioco di squadra e fai di testa tua, non arriverai da nessuna parte.
Anche nella vita è così, credo. Io gioco terzino, ma potrei anche avanzare a centrocampo, mi piacciono i calciatori che usano l’intelligenza in campo, prima ancora che il piede. Il mio campione preferito è Xavi, il regista del Barcellona. In pochi secondi, prima ancora di ricevere il pallone, sa già cosa ne dovrà fare”.
Questo è Baraka, quattordici anni e una maturità che fa venire brividi di speranza.
Baraka, che ha dato un calcio al sale sotto i piedi e all’ancestrale rassegnazione dei suoi amici di Ngomeni, e ora quel sale ce l’ha solo nella testa.

martedì 8 marzo 2011

NONNO KAZUNGU E LA FESTA DELLA DONNA


Vedere un bianco a Kakoneni, alle otto del mattino, non è un fatto raro ma regala sempre un senso di inaspettato, di nuovo; l’effetto sorpresa delle cose immaginate che si materializzano in un istante imprevisto. Questo accade soprattutto ai bambini che gioiosamente si dispongono sul bordo della pista come per il passaggio dei ciclisti sul Tourmalet e sono un tutt’uno con la polvere arancione, l’ombra delle acacie e il sorriso del sole.
Nonno Kazungu invece sa che un mzungu a quell’ora, su una strada sterrata, cinquanta chilometri all’interno di Malindi sulla via per il Parco Nazionale dello Tsavo, se non c’è nelle vicinanze un pulmino da safari, può appartenere a due categorie:

1. Turista attardatosi a orinare e dimenticato dal conducente del pulmino da safari e non segnalato dai passeggeri (in questo caso dopo al massimo un’ora e mezza torneranno a recuperarlo) o
2. Turista che si è avventurato verso la savana con la propria auto e l’ha lasciata qualche chilometro indietro, con la moglie grassa e sudata a frenare i rivoli con la sua camicia e la coppia di amici giunti per la prima volta in Africa a sognare, sui sedili posteriori, il giardinetto della loro villetta a Pietra Ligure.
Se non fa parte di una delle due tipologie, allora può essere soltanto lo Svaporato, che ha approfittato di un passaggio da avventurieri in Land Cruiser o è appena sceso dal matatu rapido Malindi-Kakoneni.
“Jambo, mzee!”
“Buongiorno, nipote pallido”
Dal candore della camicia e del volto, si direbbe Land Cruise, che passerà a riprenderlo domani.
E’ il momento di un tè alla cannella, di una partita a dama africana e di una sportsman da fumare con lentezza da olimpiade dei rilassati.
“A cosa dobbiamo questa visita, amico?”
“Oggi è l’otto marzo, sono venuto perché è la festa della donna e vorrei che anche a Kakoneni venisse festeggiata questa ricorrenza”
“La festa…?”
“…della donna…mwanamke! Delle tue mogli, figlie, delle nipoti, delle malaya”
“Ci mancava anche questa…ragazzo mio, il Kenya è il Paese con più feste comandate del continente africano e, credo anche del mondo. Non avendo adottato una religione ufficiale, celebriamo tutte le ricorrenze cristiane, quelle di Roma e quelle celebrate nei paesi anglosassoni, come la Pentecoste, per non fare torto al Papa ma nemmeno ai protestanti britannici che per primi ci hanno parlato di fede. Poi rispettiamo le feste islamiche, ci mancherebbe altro…la nascita del profeta Mohamed, la rivelazione e i giorni di preghiera in cui in molti si dirigono alla Mecca. Ovviamente facciamo festa anche nel giorno di inizio e in quello della fine del Ramadan. Abbiamo poi le ricorrenze storiche della nostra Nazione: il giorno dell’indipendenza, “Uhuru day”, quello della costituzione, “Jamhuri day”, il compleanno di Jomo Kenyatta, il padre della patria e anche quello del suo successore, un po’ meno padre ma sempre un po’ monarca, Arap Moi. Chiaramente ci allineiamo al mondo anche per quanto riguarda il 1 maggio, pur non avendo una grande tradizione operaia…il primo dell’anno non si lavora e dall’anno scorso è stato dichiarato festa nazionale anche il giorno di San Silvestro. Ultimamente c’è chi sussurra che ci stiamo aprendo al buddismo e ai giorni solenni del calendario celtico…e come ignorare a Malindi le festività italiane? Se non ci fosse stato il 25 aprile i tuoi connazionali erano ancora in Somalia, altro che spiagge, safari e cocktail tropicali!”
La saggezza e l’ironia di Nonno Kazungu lasciavano sempre allibito lo Svaporato, d’altronde sapeva bene che solo per uno come lui avrebbe affrontato l’entroterra malindino e dormito una notte in una capanna di fango tra serpenti e scorpioni. Era un esemplare unico: più di quaranta stagioni a fianco di bianchi di ogni razza e cultura, imparando ad osservarne altre migliaia di passaggio, gli avevano trasmesso come un calcolatore elettronico miliardi di informazioni e stimoli, il tempo a disposizione, il fluire lento delle cose e la limpidezza del pensiero avevano elaborato il tutto, sublimandoli con la filosofia della vita africana.
“Ma questa non è una festa del calendario, nemmeno in Italia…è un modo per celebrare la fortuna di avere il genere femminile al nostro fianco”
Nonno Kazungu guardò lo Svaporato in tralice e strinse con vigore ritrovato il suo pareo ai fianchi.
“Una festa per ringraziare il Cielo per la riproduzione della specie, dici?”
Lo Svaporato scosse alla maniera di un banano la folta chioma che aveva in testa.
“Andiamo a discuterne al Safari Bar”
Lawrence Kamongo stava caricando il suo pick-up celeste.
Sul cassone c’erano già sette persone, un piccolo generatore da portare a riparare, una cassetta degli attrezzi, due casse di vuoti della Tusker, la ruota di scorta di un camion, una bicicletta e una bombola del gas. Nel posto di fianco al guidatore, incassato e sorridente, l’elettricista Makotsi.
“Si va in trasferta!” disse, ordinando un kenya coffee.
“Quando torni? C’è da organizzare la festa della donna al tramonto”
“Sarò indietro intorn…LA FESTA DI CHE’?”
“Della donna…è l’otto marzo! In tutto il mondo si festeggia la donna”
“Noi festeggiamo tutti i giorni la donna, non c’è bisogno di un giorno speciale”
“Anche Gesù viene festeggiato tutte le domeniche, eppure ci sono ricorrenze particolari, settimane più importanti” disse nonno Kazungu, che aveva deciso di prendere le parti dell’amico italiano, immaginando che si sarebbe trovato presto in minoranza.
Sentendosi chiamato in causa, il prete si sgranchì la voce.
“Vogliamo mettere sullo stesso piano Gesù e…”
“La Madonna da cui è nato? Perché no!” lo anticipò lo Svaporato.
“La Madonna era una donna speciale, non commise alcun peccato…per questo la adoriamo” sbottò il prete “non dimenticate che è Eva ad aver commesso il peccato originale”.
“Il peccato che hanno commesso le nostre donne è stato quello di sposarci…” sghignazzò Kazungu.
“Avessero potuto decidere loro…” saltò su il gestore del bar, Kibonge.
“Che peccato ha commesso la mia prima moglie, venduta dal padre per sette capre e una piantagione di pomodori?” fece rimbombare Makotsi dall’interno del pick-up.
“Quello di non scappare a Matsangoni!” berciò una voce di giovanotto dietro il generatore.
“E io, che mi spacco la schiena da dieci anni per trasportare l’acqua dal pozzo e curare i miei quattro pargoli? – chiese con tono stridulo una delle ospiti del cassone, spostando la bicicletta affinché la si potesse vedere in faccia - Sono una peccatrice, forse?”
Il prete fu ricacciato nel più religioso silenzio, Kamongo proseguì.
“E in cosa consiste questa festa della donna?”
“Dovrebbe accadere che per un giorno la donna può fare quello che durante il resto dell’anno le è vietato…l’otto marzo decide lei, è la protagonista!” s’infervorò lo Svaporato.
“Cioè oggi le nostre donne dovrebbero ubriacarsi, farsi cucinare il capretto, costringere l’uomo a un rapporto sessuale…”
“Per esempio, stasera il Safari Bar è a loro disposizione e non si vede la partita, ma il programma che decidono loro…”
“Ma c’è West Ham-Portsmouth…” provò Kibonge.
“Vi rendete conto di quel che fanno da sempre le donne per noi? - disse allora Kazungu – i lavori di fatica, i figli, tengono puliti i villaggi, lavano i vestiti, si procurano la legna e pestano il mais, raccolgono gli spinaci, vanno a prendere l’acqua…”
“Ma è normale, noi siamo a lavorare in giro o in città e guadagnamo i soldi per mantenerle…” disse Kamongo.
“E tu capovolgeresti la situazione? Manderesti a servizio tua moglie restando al villaggio a fare quello che fa lei?”
“Non è possibile – rimbombò Makotsi, apprendo la portiera – l’uomo non può allattare, i figli vanno cresciuti dalla madre, di conseguenza lei deve stare al villaggio”
“Ecco trovato l’alibi…” mormorò lo Svaporato.
“Su questo non posso dar loro torto…” confermò nonno Kazungu.
“Ho capito! – disse Kibebe, lo scemo del villaggio destandosi da un sonno sbroffante sotto il flipper – oggi si festeggiano le tette della donna!”
Quella sera, per l’otto marzo, gli uomini del villaggio cucinarono capretto e patate alla carbonella per le loro mogli, intonarono canti popolari ai quali le voci femminili si unirono, trascinandoli in danze tribali. Qualcuna di loro provò anche un goccio di mnazi, ubriacandosi all’istante. Quasi tutte fecero l’amore con i loro mariti e per chi aveva due o tre mogli fu una serata impegnativa.
Nonno Kazungu prevedeva che i primi di dicembre la popolazione di Kakoneni sarebbe aumentata del 90 per cento.
Lo Svaporato non sapeva se essere felice per le donne di Kakoneni o essere convinto di avere avuto un’idea del cavolo.
Ma soprattutto, alle nove la festa era già terminata e, con grande gioia di Kibonge, gli uomini stappavano Tusker Malt al Safari Bar, guardando West Ham-Portsmouth e facendo ogni volta un brindisi speciale.
“Viva l’otto marzo! Viva le nostre donne!”