martedì 30 agosto 2011

UN SORRISO D'AFRICA E IL GRANDE SOGNO ROSSOBLU



Joseph guarda di sbieco l’enorme grifone che ghermisce un pallone. Sa che tra un attimo finirà sul suo petto. Gliela chiederanno, quella maglietta ambita. Cercheranno di sfilargliela, di rubarla di notte e per questo la custodirà sotto il cuscino. E’ stato appena nominato miglior difensore del torneo. Nasconde a fatica l’imbarazzo dei tanti flash di macchine fotografiche e non vede l’ora di saltare addosso agli amici di sempre, lanciarsi in quel grido di battaglia che ha contraddistinto il cammino della squadra fino alla finalissima. “We are the children of Africa, we are the future of Kenya, we are GENOA!!!” un ultimo urlo e via in campo.
Joseph Nyababwe, il ragazzo adottato dai Grifoni in Rete. Centrocampista diventato libero e leader del Karibuni Genoa. L’infanzia in una capanna di fango misto sterco di mucca alle porte della grande foresta di Arabuko, poi il trasferimento a Malindi con la famiglia. Con lui ci sono Mystic, che il padre rasta ha chiamato così in onore a un album di Bob Marley, prima di morire per qualcosa di strano al fegato, Gift che vuol dire regalo e solo ora i genitori si stanno accorgendo che è vero. Un domani, chissà, potrà fare il medico. Ci sono Mwanda, dagli occhi che fuggono come il padre, che entra ed esce di galera, Ahmal che prega in ginocchio in mezzo al campo che nessuno gli porti via il sogno, Baraka, adottato a distanza da una coppia di Sestri Levante. Ecco Karisa, Gitau l’intellettualino invidiato da tutti per la sua pagella, Fatih il timido invidiato da tutti per sua sorella, Janji l’indisciplinato invidiato da tutti per il suo dribbling e ancora Bereto, Mwanjumwa, Stanley, George, Waweru, Omar, Dominique, Mule, Kahindi, Kalu. Simon, Yusuf, Mjahid. Sono anime imberbi e pure di questa terra, si allenano e giocano insieme da un anno e insieme stanno crescendo. All’equatore, nel cuore di un’Africa che sarà difficile inquinare in poco tempo con le logiche perverse del capitale, della globalizzazione, delle fidelizzazioni e di tutte le altre schifezze che hanno rovinato la nostra società e di conseguenza anche il gioco del calcio. Quel giorno arriverà, non ci facciamo illusioni. Sono già sbarcati a Nairobi, hanno insegnato loro la corruzione, le lobby di potere. Proveranno anche a conquistare la savana, la foresta, la costa. Ma chissà. Gift, Joseph e Waweru quel giorno saranno pronti ad immolarsi per mantenere la purezza di questa vita povera e della loro comunità. Mwanda non finirà in galera, la sorella di Fatih non sarà costretta a prostituirsi, Mystic chiamerà il figlio Siddharta in onore al suo libro preferito. Come il loro idolo Charles Bruno, che sta per essere ingaggiato dal Latina, Legapro 1, non si sogneranno mai di scioperare, anzi devolveranno il 15 per cento del loro stipendio all’accademia di calcio Malindi United per alimentare il sogno di Janji e di Bereto.
Durante la parata che ha preceduto la finale ho detto loro poche parole: “Due anni fa ho sognato una scuola calcio in Kenya, e siamo riusciti ad aprirla. Poi ho sognato di potervi trasmettere la passione e la filosofia rossoblu, e oggi vedo nei vostri occhi i risultati, infine ho sognato un torneo di calcio che riunisse gli orfanotrofi di Malindi per far capire a centinaia di bambini che non saranno mai soli. E anche questo lo abbiamo fatto. Ricordatevi, non smettete mai di sognare”.
Ho venti figli maschi. Sono stati fantastici. Per tre giorni hanno fatto i padroni di casa del Torneo degli Orfanotrofi di Malindi. “Benvenuti nel nostro stadio del baobab, siete nostri fratelli”. Hanno preso per mano centocinquanta coetanei di sette children home cittadine, gli hanno spiegato come si fa a diventare una vera squadra di calcio. Non si sa con quali risorse economiche, dato che ogni fine mese attendono il piccolo contributo che la scuola gli passa, hanno fatto fare decine di braccialetti rossoblu. Li hanno infilati ai polsi dei giovani capitani di ogni team. Li hanno regalati anche agli organizzatori. Non è tutto, hanno preparato uno striscione rossoblu, abbastanza grande da avvolgerli tutti. Ci hanno messo le loro firme, hanno scritto Genoa Cfc Malindi.
Ora il Genoa Cfc Malindi fa il giro del campo, riceve un premio uguale a quello degli altri partecipanti, gli orfanotrofi Thoya Oya, Rising Sun, Kamunyaka, Mama Anakuja, Blessed Generation, Heart’s Children Home, Kisumundogo. Magliette, pantaloncini, palloni.
E’ la festa di tutti, il risultato conta poco. Sono gli sguardi, gli occhi che traboccano di divertimento allo stato puro, a raccontare tre giorni indimenticabili in cui sono stati protagonisti della loro vita e presenze importanti in quella di ragazzini disastrati come e più di loro. Dall’altra parte della rete, durante le molte sfide leali ma combattute, il pubblico. Ragazzi di strada che vengono al campo per gioire del sogno di chi è nato e cresciuto nelle stesse baracche, per le stesse strade di terra e pietre, bevendo acqua marroncina e respirando il cherosene delle lampade e la merda delle fognature a cielo aperto. Oggi ognuno ha una maglietta nuova, un pacco di biscotti in mano e un bricco di latte vicino alla bocca. E il sorriso inconfondibile delle anime belle d’Africa, quello che per un attimo ha il timore di aprirsi e splendere, come dovesse spogliare di vestiti e dignità di fronte all’uomo ricco occidentale. Ma appena incontra un altro volto sorridente, uno sguardo autentico e complice, esplode in tutta la sua predisposizione all’amore. Per la terra, per la vita e per i fratelli.

martedì 23 agosto 2011

VIAGGIO NEL CUORE DEI MIJIKENDA


Sono qui di nuovo a raccontarvi di un popolo, di una cultura, della lotta pacata e dignitosa, ma disperata di un'etnia per conservare le proprie tradizioni e proteggere i saggi anziani.
Qualcuno, spinto dall’emotività scatenata dalla gravissima situazione del Corno D’Africa, mi ha detto in questi giorni che la cultura non si mangia, non disseta e non salva la vita. La prima obiezione che mi è uscita dalla bocca è: “se la generosità, l’umanità, l’intraprendenza del resto del mondo non riescono a salvare i propri simili che muoiono di fame e di sete, se la storia ci insegna che siamo sempre stati buoni ad imbandire tavole ben oltre il nostro appetito mentre altre persone crepavano o si scannavano per le briciole, permettetemi di provare, nel mio piccolissimo, ad andare alle radici della questione. L’ignoranza, da sempre, fa solo danni”.
Dite che l’ho presa troppo alla lontana? La verità è che io mi occupo di cultura, è il mio campo e mi viene spontaneo affidarmi a quest’arma. Ma è anche vero che, come in amore non c’è sottrazione ma solo addizione, così una filosofia, tradotta in pratica, non esclude l’altra.
A questo penso, mentre ci avviamo verso Bungale, profondo entroterra di Malindi. Un camion pieno di carboidrati e proteine, ci segue cigolante divorando polvere e orizzonte. La strada per Baricho, che si lascia il Galana River a sinistra, è sconnessa quanto basta. La sabbia bianca di vento e corallo dopo alcuni chilometri cede spazio alla rossa argilla che, in cromatico accordo con la natura, prende colorazioni sempre più violacee man mano che il terreno intorno s’inaridisce.
L’Africa è terra in cui le contraddizioni sono la regola. Baricho è il villaggio da cui proviene gran parte dell’acqua che scorre nelle tubature di Malindi. Grosse turbine, quando la società dell’acqua paga la bolletta dell’elettricità, filtrano il fiume Galana e lo sparano a valle.
Ci si aspetterebbe di entrare in una lussureggiante oasi, un “aquatic park” con microclima tropicale; invece qui regnano sassi e sterpaglie, formicai d’argilla e tronchi bruciati. Nella stagione più florida, dopo le grandi piogge, a Bungale è già arsura. Il giorno della Celebrazione però è un giorno di festa. Lo abbiamo fatto coincidere con una consegna di cibi raccolti attraverso malindikenya.net. Farina di mais e fagioli. Il centro culturale Mekatilili Wa Menza è la riproduzione di un antico villaggio giriama. Anzi, è quel villaggio. La comunità in cui viveva la “pasionaria” che osò sfidare l’Impero Britannico. Qui la gente sa. Mekatili fu arrestata una prima volta a Malindi. La liberarono i suoi fedeli compagni, guidati dal fido Wanje wa Madori. La seconda volta i governatori di Sua Maestà la deportarono in una sorta di campo di lavoro a cielo aperto, sulla strada per il lago Vittoria. Scappò pure dal lager e, a piedi, tornò a Bungale, per riorganizzare la resistenza. Qui morì, venerata dalla sua etnia, nel 1925. All’interno del villaggio, se escludi qualche telefonino e due paia di scarpe da ginnastica, siamo nel 1925.
L’avvocato Mwarandu è in piedi in mezzo a un cerchio formato da un centinaio di esponenti di spicco dei Mijikenda. C’è il figlio di Simba Wanje, il “leone di Kaya Fungo”, ultimo sovrano dell’etnia, quando ancora si usava eleggere un re tribale. E’ bardato con una sciarpa rossa in diagonale sul petto e indossa il copricapo di piume d’uccello ereditato dal padre. Ci sono i capotribù dei “mandamenti” di Ribe, Rabai e Jibana. Ad ognuno di loro viene lasciato spazio per presentarsi e ribadire la volontà di pace, di unità e di lotta per la causa comune della sopravvivenza culturale. C’è il giovane capo Duruma, arrivato dalla lontana Mazeras tra mille peripezie stradali. Infine, seduto sul “kihi”, lo sgabello tradizionale di legno, poco più grande di un barattolo, l’enorme Mzee Kahindi Jogolo. Il gallo, viene chiamato. Centocinquanta chili di voce roca, salute precaria e sguardo torvo. Ha preso le redini di Kaya Fungo, luogo sacro dell’etnia non lontano da Kaloleni, dove la regina Mepoho fece i suoi vaticini. Nel suo sprezzo per le novità, c’è la frustrazione di non essere diventato monarca triviale. Mwarandu mi presenta ai convitati. Spiega che ho un nome giriama, che non sono lì per caso o per turismo. Tra poco apriremo il sito internet makayakenya.com e girerò un video sulle celebrazioni annuali. Jogolo scuote la testa, ricorda quando una delle sue venti figlie prese un tedesco come marito e con riluttanza da il suo benestare. Sono il primo uomo bianco ad entrare nel mausoleo di Mekatilili durante la preghiera.
Senza scarpe e senza vestiti occidentali. Un khanga avvolto alla vita e la sciarpa al collo, come ogni uomo mijikenda. Leni, senza macchina fotografica e con l’hando prestato dall’amica Jumwa.
L’archivista John ci spiega che non si possono fare riprese o scatti al sepolcro dell’eroina giriama. Ai suoi tempi non c’erano questi marchingegni e fino a qualche anno fa da queste parti era abitudine credere che la fotografia rubasse l’anima delle persone e di conseguenza la possibilità di agire da antenati, dopo la morte. “Siamo convinti che se qualcuno immortalasse la tomba di Mekatilili, qualcosa di terribile potrebbe accadere ai giriama”. Rispettiamo, senza troppo violentarci. E’ già difficile raccontare l’atmosfera intorno al sepolcro. Gli anziani pregano, invocano Mekatilili. Mzee Katana Kalulu, uno dei più anziani “kaya elders” ha la voce rotta dall’emozione e il respiro, prendendo corpo nelle corde vocali, fatica ad uscire dai denti storti. Ognuno regala un pensiero alla sua Santa. “Sono tempi difficili, i giovani non ci seguono, la profezia di Mepoho si è avverata in pieno” spiegano a turno i capotribù, lanciando un augurio, una speranza, una richiesta di pace. Mama Kapucheche, un donnone che sembra l’Aretha Franklin mijikenda, guida il gruppo delle donne che escono dal sepolcro cantando, insieme a Tremalnaik, il giriama col turbante della tribù di Bamba, entroterra di Kilifi.
Le celebrazioni proseguono e la giornata andrà avanti come da copione con l’arrivo delle autorità provinciali e la distribuzione del cibo alla comunità del villaggio di cui abbiamo già raccontato. Più che parlarne e descrivere era importante esserci. E credetemi, più si riesce a vivere, meno viene da scriverne.

martedì 16 agosto 2011

BUON 16 AGOSTO!

Non vi ho augurato buon Ferragosto. Perché Africa è il 16 agosto, il 22 dicembre, il 3 gennaio. Africa sono i giorni normali che diventano speciali. Non vi farà mai gli auguri di Natale, di Pasqua, di Capodanno l'Africa. La vita vera, gloriosa o tragica, indecifrabile o gratificante, non è nei giorni rossi del calendario, ma in quelli neri come questo Continente. (F.d.C.)

giovedì 11 agosto 2011

MUKOMBERO, IL BIO VIAGRA KENIOTA (da "Pillole di Malindi")

Da qualche settimana il Kenya ha aggiunto alle sue grandi attrazioni (savana, oceano, grandi laghi, montagne, maasai, corruzione) anche un motivo in più per essere visitato. Il “boom” mondiale del Mukombero. No, non si tratta di un nuovo ballo come la Macarena ma di un viagra naturale dalle insospettabili proprietà. Il Mukombero è un tipo di ginger molto chiaro ed esile che cresce specialmente a nord del Paese, ma che ultimamente viene commercializzato anche sulla costa.
Il suo effetto, se viene masticato come una radice di liquirizia, è quello del più potente afrodisiaco trovabile in natura. Ecco allora che sui depliant pubblicitari che promuovono il Kenya, accanto all’immancabile leone in primo piano, di tre quarti, con la zazzera bionda al vento, al maasai salterino lenzuolato in rosso e ricoperto di perline, al pescatore di 115 anni con la barba bianca che aggiusta la sua vela ricavata dai sacchi della polenta, possiamo aggiungere il pensionato mzungu che mastica il mukombero mano nella mano con una procace ventenne sulla spiaggia di Malindi e, invece di ammirare la sua preda, felice e sorridente, ha lo sguardo fiero verso il basso a valutare come il suo salice piangente italiano si stia trasformando in una gloriosa palma tropicale.
E le coppie in viaggio di nozze? Luna di miele e ginger, roba da ricordare tutta la vita. Così per le signore in odor di menopausa, gli adolescenti timidi, i latin lover caduti in disgrazia, i precari con impotenza coordinata continuativa…mukombero in compagnia, mukombero per tutti! All inclusive!
Per non parlare degli slogan: “Donne, è arrivato il mukombero!” “Prova anche tu il gingerone africano del piacere”. Grazie a questo miracolo della natura, l'economia del Kenya può davvero avere un'erezione e il settore turistico nel suo ventaglio di proposte per le vacanze a tutto tondo (e a tutto duro) sarà imbattibile! Savana, mare, escursioni montane, laghi, deserti, social, etno, equo, bio, mio, tuo, suo, luo…tutto al sapor pizzicorino della radice di zenzero che a nord del Paese, ma da qualche settimana anche a Nairobi e Mombasa, si vende a pochi scellini la "dose" e che promette performance degne di un Rocco Siffredi equatoriale, con l’unico piccolo effetto collaterale di un po’ di stitichezza, ma niente a che vedere col rischio infarto della pillolina azzurra, che è così squallidamente chimica. Questo è un eccitante bio! Equo solidale…e per questo fa godere ancor di più! Comunque occhio alla stitichezza, non la sottovalutate! Lo hanno provato per primi i kenioti bigami, i capotribù con più mogli. Onesmus Mtondi, 72 anni di Mazeras, ha trentuno mogli. Si è mangiato un chilo di mukombero ed è riuscito a soddisfarne 28, anche perché le tre più vecchie sarebbero state intrombabili anche da un cieco in astinenza da vent’anni ripieno di viagra. Il vecchio Mtondi, visibilmente soddisfatto dopo la performance, non è andato di corpo per un mese e mezzo ed è esploso due notti or sono, concimando gli “shamba” di tutto il villaggio. Al limite, quando lo assumete, inghiottiteci insieme due samosa prese in un chioschetto locale.
Anche a Nairobi, in certi ambienti, va di moda il mukombero. Potrebbe stupire il fatto che i primi ad impazzire per l'eccitante naturale siano stati infatti gli stessi kenioti, di cui noi occidentali ignoravamo tali problemi. Con tutti quelli ancestrali che già hanno, lo stress di una veloce civilizzazione evidentemente ha aggiunto pure questa sciagura. Oltretutto, con i loro "carichi eccezionali", la morbidezza è ancora più imbarazzante. Proboscidi da cimitero degli elefanti su corpi da gazzelle. A Nairobi si sono verificati però problemi collegati al continuo stato d’eccitazione degli uomini: in molti, proprio per le misure considerevoli dei loro organi sessuali, non riescono più a salire in macchina, nei negozi o in casa dove, muovendosi, distruggono tutto ciò che trovano ad altezza del basso ventre. Non possono sedersi al ristorante senza che i tavoli apparecchiati prendano il volo e così via. Si può anche assistere, nelle toilette e nei parchi della capitale, ad epiche sfide di fioretto e sciabola tra bandoleri mukomberi.
A Mombasa, una ditta indiana di demolizioni edilizie, offre il mukombero da masticare ai propri operai, che di conseguenza sono in grado di tirare giù interi agglomerati di case a colpi di mazza. C’è chi si sta allenando anche per la ricostruzione. Dalla cazzuola al… il passo è breve.
Scherzi a parte, gli unici davvero contenti del “boom” del mukombero, sono i rinoceronti, il cui corno per anni è stato definito afrodisiaco e ancora viene cercato da qualche idiota bracconiere assassino al soldo di aziende cinesi. Alcuni esemplari dell’Amboseli, alla vista del malintenzionato, hanno imparato a guidarlo verso le radici miracolose. “Prendi questo, coglione, e lascia stare il mio naso”. Il ginger non ammazza nessuno, nel tè è perfino piacevole, la moglie può grattugiarlo nelle vivande senza che il marito abbia a vergognarsi delle sue tristezze a letto e l'amante focoso può farne incetta e presentarsi al cospetto della partner canticchiando "donna donna lo sai chi c'è, è arrivato il Mukombero!" Attendiamo ora che i ricercatori della Pfizer (casa produttrice del viagra) se ne escano con altri effetti collaterali del gingerone del piacere, oltre alla stitichezza. Altrimenti, con buona pace delle multinazionali, anche sulla costa keniota, ci daremo tutti alla coltivazione...immaginando un nuovo tipo di turismo di cui c'è già pronto lo slogan: "Il Kenya tira...eccome se tira!"

giovedì 4 agosto 2011

LA NOTTE DI JUMWA E MWANENGO


Le nuvole vanno e vengono, come le emozioni.
Questa sera hanno deciso di danzare avanti al cielo e scoprirne a tratti l’immensa volta stellata. Prima, però, c’era l’Africa al tramonto. Quel momento sempre troppo breve, come sono gli attimi di vera felicità.
La scenografia terrena racconta di un villaggio mijikenda alle porte di Malindi, fedele riproduzione di una comunità tribale del secolo scorso. Quando le capanne erano trulli di legno e palme secche, senza nemmeno il conforto del fango compattato a mo’ di cemento. Una capanna per le donne, con le pentole sul fuoco, gli stracci ammassati e culle di foglie di banano per gli infanti. L’altra è per gli uomini, con le stuoie da sonno, il vino di palma e odore di tabacco per rudimentali pipe. La terza è per gli antenati, i feticci intagliati a mano e colorati con sangue animale ed erbe macerate. Padri e padri dei padri da invocare affinché garantiscano saggezza e protezione al villaggio.
Le donne, con i volti inespressivi intagliati nell’ebano, i capelli come zerbini e i corpi tozzi e scattanti, danzano asimmetriche cantando, con voci acute e compenetrate. Il poeta, vestito come un giovane Ghandi equatoriale, le incita scandendo onomatopeici slogan. “Donne! Siete qui? Fatemelo sentire” e quelle a urlare con toni acuti che si confondono con gli uccelli tropicali.
Gli altri uomini muovono i piedi, alzano mani in segno di partecipazione, dispongono sedie di bambù, sgabelli alti una spanna e un tavolo per le vivande.
Nelle due capanne, i rispettivi aiutanti, stanno vestendo Jumwa e Mwanengo. Loro non sanno ancora che si chiameranno così. La cerimonia per consegnare loro il nome giriama è un rito studiato nei minimi particolari ed è riservato a chi è entrato in sintonia con l’etnia mijikenda. Che può significare aiutare questa gente, ma non è solo questo.
C’è una filosofia di fondo, che ti spinge ad abbracciare anche fisicamente queste persone vere, anacronistiche, se vogliamo anche rudimentali. E’ il pensiero naturale di sentirsi vivi, pienamente consci del luogo in cui si è scelto di vivere la quotidianità.
Max e Maddalena escono dalle rispettive dimore, accompagnati dai loro “padrini”.
Lui indossa un khanga, tipico pareo giriama avvolto a mo’ di kilt scozzese al bacino e tenuto da una cintura di altro tessuto, e una sciarpa bianca al collo. Il busto nudo scopre i molti tatuaggi, il volto è un arcobaleno ampio come il suo sorriso e infinito come un ponte che unisce il grigio dell’hinterland milanese, dove è nato ed ha vissuto fino a qualche mese fa, con i mille colori dell’Africa equatoriale.
Lei è bardata con l’hando, la caratteristica gonnellina bianca a più strati, tempestata di pendagli di perline colorate. Sopra il bacino, è avvolta da una fascia superiore che i giriama mai chiamerebbero “top”. Si incontrano nel bel mezzo della radura ed il loro intreccio di sguardi dipinge d’ironia l’emozione, mentre Morgana, la figlia della coppia, li osserva cercando di misurare con i suoi pochi anni come metro di giudizio, la distanza tra un rito sacro e lo scherzo carnevalesco.
Alla coppia sono bastati pochi mesi, per capire che Malindi è un mondo da scoprire, come sollevare il pesante coperchio di un antico forziere. Sopra il baule, i luccicanti ori del paradiso turistico, le spiagge dorate, la barriera corallina, gli animali della savana, la prorompente verde natura. Scavando, un tesoro ben più affascinante e duraturo, quello delle tradizioni millenarie e della saggezza primordiale della gente. Ci voleva coraggio per fare la scelta di trasferirsi in Kenya e di abbracciare questo luogo nella sua interezza. Fare qualcosa per sé e per gli altri allo stesso tempo, senza pretendere nulla in cambio se non un benessere interiore che è per forza arricchimento. Un bene incurabile e inestimabile.
Con questi valori e con questa leggera, spontanea consapevolezza, abbiamo goduto di un pomeriggio fantastico. Dopo le danze, la cerimonia del sorteggio della tribù (Akiza, la stessa del grande politico giriama Ronald Ngala) e del nome di Maddalena, Jumwa Mwagandi. Risate, piroette, felicità quasi infantile dei suoi omonimi, Sylvia Jumwa e Kiponda Mwagandi.
Poi l’oscurità, i balli nei locali che ospiteranno un giorno, quando troveremo i finanziamenti, il primo museo della cultura e della tradizione giriama. Danze d’augurio e di festeggiamento per Mwanengo Kidata della tribù Amelulu. L’ex grafico, fumettista e pittore Max Banfi.
L’avvocato Mwarandu da loro la benedizione, mentre tutta la comunità intona una preghiera gospel da brividi. L’iniziazione prevederebbe che i nuovi affiliati alla tribù vengano irrorati a spruzzo di acqua di cocco, dalla bocca del loro parente prossimo. Con i due nuovi arrivati viene usata una delicatezza non richiesta, il liquido scende in testa direttamente dal mestolo. Max è quasi risentito, la sua espressione sembra dire “…sputatemi nel petto, sono un giriama!”.
Le ultime danze sono una rappresentazione storica del bene e del male, della vita comune nei villaggi. Lo stregone è vestito con pelle di facocero e piume in testa, si tormenta e si getta a terra come posseduto. I tamburi incalzano con il ritmo oscuro e penetrante della notte, un ritmo che si fa via via più avvolgente e rassicurante, come una coperta di stelle e nuvole.
Le anziane mama mijikenda cercano le nostre mani chiare con le loro dita callose da lavoro agreste, gli uomini si congedano fieri del loro sudore. Non c’è fastidio o riluttanza nel nostro abbraccio. Per loro è un’ulteriore conferma. Due colori, due etnie, due culture agli antipodi, unite da un’unica volontà: fare del bene agli altri, pensare al loro futuro, vivendo il presente da persone normali, in cerca di valori semplici, raggiungibili.
Oggi l’occidente è popolato perlopiù da persone che si guardano troppo intorno (ed a volte è un alibi) perché hanno perso l'istinto rapace che è sempre stato dell'uomo innovatore, rivoluzionario, di guardare a sé, alla propria vita. E fare il possibile per migliorarla, non per cambiare parere sugli altri o su chi sta in alto, di fianco o sotto, a seconda di come cambia il vento.
Di critici, indignati, di ironici disfattisti, populisti, qualunquisti, dei sempre contro, di moralisti e antimoralisti...ne abbiamo avuti abbastanza. Questo reportage non è per loro, che possono tranquillamente attenersi alla breve e fredda cronaca seguente:
Ieri sera, durante una cerimonia tribale alle porte di Malindi, Max e Maddalena sono diventati giriama. I loro nomi sono Mwanengo Kidata e Jumwa Mwagandi. Abbiamo mangiato pollo, agnello, verdure e polenta con le mani, respirato cielo, patate bollite e ascelle acri, abbiamo ballato con gente che probabilmente non ha le basi per fare critica sociale né tantomeno per sovvertire l’ordine delle cose che li vede da sempre ultima ruota del carro africano. Un popolo che però sa bene quello che vuole: vivere in pace e non perdere la propria cultura e le proprie tradizioni.