martedì 31 dicembre 2013

LE CANZONI DEL CUORE DEL 2013

Anche quando esercitavo quotidianamente la professione di giornalista e soprattutto di critico musicale, ho sempre detestato compilare classifiche, graduatorie di merito o comunque segnalare il "miglior disco dell'anno" o "la più bella canzone d'amore" e altre puttanate simili. 
Resto convinto che nello stesso istante in cui vi dovessi sgranare un rosario di titoli, con la spocchia del grande intenditore, potrei essere colpito da una nuova melodia, un brano sconosciuto che di colpo mi entra nel cuore e non mi molla per i prossimi dieci anni. Alla stessa stregua, non sono mai stato un fanatico delle etichette: "questo è un gruppo pop-rock progressive", Bob Dylan è "folk-rock"...e quando fa blues? E nel "Live at Budokan" quasi tutto reggae? Per non parlare dei coglionazzi di adesso che tirano fuori delle robe che le nostre pippe di un tempo al confronto erano rispettosissime indicazioni. 
Ma io "tweet pop" "electrowave" e soprattutto "shoegaze" se ne possono andare affanculo insieme ai loro creatori. Possiamo discutere di tecnica, di suoni, di melodie, dei "treni" ritmici, di una gran voce o di armonie, di soluzioni e altri voli musicali. 
Quando però si tratta di giudicare cosa ti ha più colpito, quel che ti sei portato in macchina, in casa, sul giradischi (vero Puccia?) o nella chiavetta (sigh!), allora entra in ballo l'unico grande recipiente che possa contenere la musica che conta, e che sputazzi via in maniera indolore e gentile quella che non merita più di un giro di giostra.
Niente classifiche, quelle le lasciamo per le tabelle salvezza del Genoa in quei fogli a quadretti scarabocchiati a penna rossa e blu come faceva Fabrizio De Andrè. Tuttavia mi è sempre piaciuto il giochino delle nomination e dei premi differenziati. Per il 2013 il cuore ha accettato ad esempio album ben costruiti e dignitosissimi quali "Push the sky away" di Nick Cave (e a Jubilee Street darei una nomination per il miglior brano) e "Lightning Bolt" dei Pearl Jam (anche la ballatona "Sirens" ha attraversato un ventricolo), mentre ha ignorato serenamente roba pluridecorata tipo Daft Punk, Vampire Weekend (che meriterà un riascolto) e tutte le popperie dell'anno.
Il cuore da sempre fa il tifo per il blues, per il soul e per il rock non esageratamente invadente. Ha apprezzato molto "Old Sock" di Eric Clapton, che i soloncelli della critica italiana hanno ignorato e invece è ricoperto di classe come fosse una fonduta tartufata sulle patate lesse (nomination per il duetto con l’indimenticabile J.J.Cale che quest’anno ci ha lasciato, “Angel”). Ha goduto anche con Robben Ford (nomination per “Slick Capers blues” e per “Mostly likely…” come miglior cover) e tanto tanto con Eric Burdon, che merita sicuramente un premio. Pollice verso per Sting e la sua operetta noiosa, con una menzione per “The night the pugilist learn how to dance” che merita una nomination.
Buono anche il secondo Robert Randolph, ma era meglio il primo. Tra i songwriter, in mancanza del solito diamante biennale di Van Morrison, da segnalare “Dream River” di Bill Callahan. Per la black music, nomination brano a “It’s code” di Janelle Monae, che dimostra di poter essere la  nuova Chakha Khan, ma di non volerlo essere.
Nella categoria “piaceri passeggeri” infiliamo l’ennesima collaborazione di Ben Harper col vecchio armonicista Charlie Musselwhite, la coppia di countrymen Dayley & Vincent prodotti da Randolph, un simpatico Ron Sexsmith, una Madeleine Peyroux da salotto (con qualche cover azzeccata), Edie Brickell con il chitarrista non comico Steve Martin (pallosità in agguato), lo swing paraculo di Robbie Williams, la voce sinuosa di Laura Mvula (due canzoni e poi l’oblio) e la piacevole confezione di cover della volpe Boz Scaggs (uno dei pochi che si possa produrre in una rilettura degli Steely Dan).
Nei dischi da rigetto, categoria delusioni surrenali: Michael Franti (è morto nel 2009) e Black Joe Lewis, che sembrava il nuovo James Brown e rischia di diventare un vecchio casinista.
In Italia, difficile rubare il trono a Elio e Le Storie Tese, ci prova Bobo Rondelli, che però è meglio dal vivo, e Battiato con Anthony, che però sarebbero stati meglio in studio. Infine, non pensiate che non abbia trovato il tempo di ascoltare dischi d’esordio e roba nuova: mi sono sciroppato roba tipo Arbouretum, The Knife, Lorde, Anna Calvi…tutti nel fegato senza passare dal cuore, mi spiace.
E veniamo al Re incontrastato di quest’anno, colui che ha pompato sangue, che ha suscitato emozioni, energia, saliva e chiamato birra, vino rosso e gioia. Si chiama Warren Haynes, suona la chitarra e canta e ha confezionato il miglior album del cuore e il miglior live del cuore. Con i Gov’t Mule ha fatto uscire “Shout”, compendio del rock in cui nel disc 1 se la canta e se la suona, e nel disc 2 lascia il microfono a gente come Dave Matthews, Stevie Winwood, Elvis Costello, Ben Harper, Toots dei Maytals e altri pezzi da 91. Con la “Warren Haynes Band” rilegge un po’ di southern rock e blues con la classe dei grandi (cover di “Pretzel Logic” degli Steely…). Tutto in un solo anno, vi pare poco?

MIGLIOR DISCO DEL 2013: SHOUT – GOV’T MULE
MIGLIOR CANZONE DEL 2013: BRING ON THE MUSIC – GOV’T MULE
MIGLIOR DISCO LIVE: WARREN HAYNES BAND – LIVE AT MOODY’S
MIGLIOR COVER: MEDICINE MAN – ERIC BURDON
MIGLIOR DISCO ITALIANO: ALBUM BIANGO – ELIO E LE STORIE TESE


mercoledì 11 dicembre 2013

MI FACCIO LUCE CON LA PARAFFINA!

IL NUOVO LIBRO DI FREDDIE DEL CURATOLO STA PER ARRIVARE!!!
La prima (e ultima?) antologia di poeti malindini...tutta da ridere.
IN ESCLUSIVA ECCO LA PREFAZIONE...

PAPAIE E CACHI

Questa raccolta è frutto di uno studio.
Lo studio è frutto di una ricerca e la ricerca è frutto di un frutto.
Il frutto in questione potrebbe essere una papaia.
Compiendo un volo metaforico, infatti, possiamo comparare la poesia sulla costa keniota a questo frutto tropicale apparentemente insapore, ma ricco di storia e di proprietà benefiche.
Frutto poco invadente e invasivo che pulisce dentro come mondasse dallo sporco del nostro tempo, sana e provvidenziale lavanda interna di cui però è meglio non abusare.
I versi che ho raccolto, come fossero maturati per conto loro e poi caduti dal fronzuto albero dell’inconsapevole conoscenza, compongono liriche semplici e genuine che scaturiscono da situazioni di vita quotidiana e raccontano di comunità, incontri, abitudini,  rapporti con la natura (qualcuno anche contronatura) e con gli animali.
Portano in sé la dolcezza  del ripetersi infinito e lento di giornate vissute alla stregua di regali del Destino, mai eccessivamente graditi ma comunque degni di ringraziamento.
Proprio come quando si porta a qualcuno della frutta in dono: nella migliore delle ipotesi ci si aspettano fragole, ciliegie, percoche, frutti di bosco. All’equatore si gradisce il mango, il frutto della passione, magari anche un bell’ananas.
Se poi arriva una papaia… per carità, rifiutarla mai, specie se si ha fame, ma certo un filo di delusione traspare.
Per un keniota, in ogni caso, la sensazione di sbandamento dura un attimo, poi si cerca un coltello per aprirla, del lime da spremergli sopra, e si fa festa.
Questa può essere la forza della poesia a Malindi e dintorni: inattesa, carica di pathos e speranze, apparentemente anodina, scialba ma alla fine gradita.
Ovviamente qui non si parla della poesia tradizionale Mijikenda, che ha nei canti tribali e nei racconti circolari le sue origini e che s’ammanta di animismo e di magia quando viene mescolata a leggende epiche e storie dei secoli scorsi; quando il popolo Mijikenda si mosse dalle colline di Shingwaya, dove oggi si snoda il tribolato confine con la Somalia, per cercare la terra promessa nel profondo entroterra tra Mombasa e Malindi.
Di quei poemi “alti” il portavoce è il grande Kazungu Wa Hawerisa, autore di cui verrà presto pubblicato un volume (serio) a parte.
Qui di seguito, invece, diamo voce alla poesia attuale, nascosta, sconosciuta, inesistente, affiancando al percorso quotidiano della popolazione locale, la visione di chi sulla costa è venuto a vivere, mescolandosi con i kenioti. 
Nella vita di tutti i giorni, alla semplicità della gente locale, si contrappongono abitudini, storture, comportamenti tipici e strani dei nostri connazionali.
L’Italia patria di Leopardi, Foscolo, D’Annunzio, Montale, Ungaretti, Quasimodo, approccia una civiltà assolutamente digiuna poeticamente, pronta per questo a divorare con curiosità e infantile entusiasmo anche frutti a loro ignoti.
Ecco che la papaia potrebbe incontrare fragole succose, deliziose ciliegie, morbide albicocche, pesche profumate…ma a Malindi gli tocca imbattersi in un caco.
Sulla costa keniota la poesia non può essere invettiva, non è strumento di lotta o rivendicazione, al massimo, quando non è paziente e contemplativa, può diventare, con la presenza dei “mzungu”, un veicolo ronzante, indisponente, dissonante.
Una “poesia tuk-tuk” che con pochi scellini ti porta da una parte all’altra di Malindi, dai chioschi di lamiera di Maweni alle lusinghe di cemento di Lamu Road.
Un tuk-tuk apolide, su cui salgono contemporaneamente beach boy rasta per signora, pensionati in punta, pescatori e peccatrici, venditori di avocado e finanziatori di avvocati,   piccoli imprenditori veneti e avvenenti studentesse di Nairobi.
Cosa ne può  scaturire?
Quale linguaggio porteranno in dote?
Questo è un po’ il senso dell’antologia che vi apprestate a sfogliare: contrapporre le vicende di noi italiani, declamate con ironia e sguardo disincantato dall’estensore di questa prefazione, ai “quadretti” di sconosciuti, effimeri e singolari cantori di quest’angolo d’Africa.

Papaie e cachi.

venerdì 29 novembre 2013

STORIE DEL JAHAZI: LA FUGA DELL'ARBITRO


Sarà perché i calci dati a piedi nudi, senza parastinchi e calzettoni ti rimangono come segni di vera battaglia, sarà perché un derby, per quanto non sia quello di Manchester o Boca-River, è sempre un derby e qui coinvolge dirimpettai dello stesso scassatissimo quartiere. E poi qui il derby si gioca almeno venti volte all’anno, è un campionato a due: Young Stars e Majengo United. C’è chi tiene lo “storico” dal 1963, c’è chi preferisce cominciare ogni volta da capo, com’è tradizione della vita africana.
Ieri pomeriggio è andata in scena l’ennesima rappresentazione sacra del nostro tempo, come diceva Pasolini. Il campo di sabbia teatro della partita ha il cielo come gradinate e il mare dietro al posto delle tribune. Non è lo squallore del Tirreno in fondo alla Circonvallazione Ostiense, dove l’ultimo grande intellettuale dei nostri tempi fu tradito come Cristo, ma un infinito Oceano pieno di vita e di storie minori che Pasolini intuì quando esplorò questa fetta d’Africa e che avrebbe raccontato meglio di me.
Più di quattrocento anime di Shela assiepano lo stadio di sabbia, cielo e oceano. Sventolano bandiere di stracci, suonano rudimentali trombe di latta, percuotono bidoni e agitano maracas costruite con bombolette spray riempite con gusci di vongole. A pochi minuti dalla fine il misfatto: l’arbitro Samir fischia un rigore che per quelli delle Young Stars appare inesistente. Lo stupore dei giocatori avversari fa il resto. Portiere e difensori vittime della decisione si scagliano contro Samir, entrano in scena i tifosi. Il campo diventa un polverone, volano piedi, mani e teste che pare una Guernica senza sangue e con i suoni delle risse popolari.
Grida, invocazioni, mischie da rugby e poi la fuga. Samir non è mai stato così veloce, la sua giacchetta nera dribbla le apecar in strada e cerca rifugio. La guardia fuori dal Jahazi Bar & Restaurant, il mio locale di fronte al campo di gioco, cerca a sua volta di placcarlo, ma Samir lotta per la sua incolumità e sguscia dentro. Mi guarda con gli occhi dell’antilope inseguita da una federazione di felini affamati.
“Proteggetemi”.
L’allenatore delle Young Stars mi conosce bene. Sharifu è anche il vicecapo dei vigili del fuoco. Mi ha venduto lui l’estintore per il ristorante. Dietro di lui si assiepano fuori dal locale trecento tifosi inferociti.
La federazione felina.
Dall’altro lato della barricata, due turisti napoletani bevono birra e sgranano gli occhi. Non hanno ancora capito cosa stia accadendo. Il marito cerca di far funzionare l’Ipad come fotocamera, ma gli prende una naturale ansia da prestazione. Non si accorge nemmeno che la moglie è fuggita all’interno del bar e si è riparata nella toilette temendo il peggio, neanche fosse la guardalinee.
Basta invece un po’ di diplomazia occidentale, accomodante e paracula, ma anche un po’ spietata. Quella che ha fatto la fortuna di gente come Henry Kissinger e Condoleeza Rice. Si inizia con parole di conforto, sguardi rassicuranti, e poi si consegna la vittima ai carnefici, con l’assicurazione che non gli verrà fatto nulla di male né ora né qui davanti.
Buona fortuna Samir!
(per la cronaca, la partita è ripresa qualche decina di minuti più tardi, il rigore è stato annullato e il derby è terminato senza vinti né vincitori).

domenica 27 ottobre 2013

LA FINE DI UNA GRANDE AVVENTURA

Potrebbe essere divertente avere un bambino da portare a zonzo Che riempia poco a poco i miei pensieri E io a riempire lui o lei con i miei sogni Un modo per dire la vita non è stata tutta persa Terrei quel bastardino lontano dalla scuola e gli farei io da insegnante / lo proteggerei dal veleno della gente Ma la non contaminazione dell’isolamento potrebbe non essere la migliore idea / non è una gran cosa cercare di divinizzare se stessi Inizio di una grande avventura Perché fermarsi a uno, potrei averne dieci, la classica covata da tivù Coltivare come una razza un piccolo esercito “liberal” nel bosco Proprio come quei pazzi redneck che vedo al bar Con la loro tribù di mutanti suinetti consanguinei con gli zoccoli Insegnare loro come disinnescare una bomba, accendere un fuoco, suonare la chitarra / "E se trovi un cacciatore, sparagli nelle palle" Mi piacerebbe tentare di essere più progressista di quanto avrei potuto / se ci avessi provato davvero Inizio di una grande avventura Agata Zena, Anita...un giorno vi racconterò chi era Lou Reed, perché a 12 anni ne andavo pazzo e balleremo insieme "Sweet Jane" e "Vicious".

sabato 5 ottobre 2013

IL SOGNO DI ASAD

Non riesce a pensare ad altro, non ha salutato Malik. Dopo l’incendio la loro vita era cambiata, non abitavano più vicini, la famiglia di Malik si era trasferita in un’altra zona dello slum. Si erano salvati tutti, il padre di Malik era riuscito anche a caricarsi sulle spalle un sacco di vestiti e stoviglie prima che la casa crollasse. Il padre di Asad invece non ce l’aveva fatta, schiacciato dal tetto di lamiera e da un palo che lo puntellava, si proponeva sempre di fissarlo meglio ma la sera arrivava stanco dopo aver camminato tutto il giorno con il peso sulla testa delle merci che trasportava da un punto all’altro della città, legna, pacchi, sacchi di patate. Prima o poi si sarebbe comprato un furgoncino, diceva sempre, e sarebbero diventati ricchi. Asad si era voltato e aveva visto suo padre tra le fiamme con le braccia alzate nell’illusione di proteggersi dal tetto che gli crollava addosso. Si era sentito strattonare, sua madre lo trascinava via. Correvano, sentivano il caldo dietro di loro come il respiro di un animale feroce che li inseguisse, il fuoco non sarà più veloce del giaguaro, aveva pensato Asad. Correvano e nel fumo distingueva altre persone correre, ombre che apparivano e sparivano, a un certo punto aveva visto Malik con una delle sue sorelline in braccio. La bambina piangeva forte, a tratti Asad non li vedeva ma sentiva la bambina e capiva che Malik stava correndo poco distante da lui, poi il pianto si era affievolito, era diventato un verso come il belato di una pecora lontana, Malik aveva cambiato direzione. Lo aveva incontrato dopo qualche mese, si erano abbracciati. “ Gioco a calcio”, gli aveva detto Malik, una morsa d’invidia aveva serrato stomaco e gola di Asad. Avevano giocato insieme appena erano stati in grado di camminare, prima nello spiazzo polveroso davanti alle loro case, con una palla di stracci cucita dalla mamma di Asad, poi con un pallone vero avuto in regalo da un turista, si era sgonfiato presto, non sapevano come gonfiarlo ma lo usavano lo stesso, lo calciavano con forza sollevando solo polvere. Il pallone era finito in un angolo dietro la casa. Malik ne aveva rubato uno in città, in un negozio di italiani, un uomo lo aveva inseguito poi aveva lasciato perdere, Malik era veloce, non gli stava dietro nessuno. Asad non correva come lui ma aveva un tiro preciso e se decideva che il pallone sarebbe passato sopra la testa di Malik per infilarsi nell’angolo della porta che avevano costruito con qualche bastone e un telo di plastica, ci riusciva, ci si poteva scommettere. Anche il pallone rubato si era afflosciato presto, il padre di Malik lo aveva portato da un suo amico che gonfiava le gomme delle automobili, quando lo aveva riportato i due bambini avevano urlato di gioia ed erano andati a ripescare il vecchio pallone dietro la casa perché facesse gonfiare anche quello. Avrebbero avuto un pallone ciascuno. Asad era tornato a cercare il suo, dopo l’incendio. Aveva visto il palo bruciato e la lamiera del tetto, li avevano spostati per togliere i resti di suo padre, glielo aveva raccontato sua madre, lei non lo aveva condotto con sé e lui si era arrabbiato. “ Voglio che ti ricordi di lui com’era” gli aveva spiegato lei. Era andato a cercare il pallone senza dirglielo, si era mosso cauto, trattenendo il respiro, nello spazio che fino a pochi giorni prima era la sua casa, i sensi in allerta pronti a riconoscere una percezione famigliare. C’era ancora odore di bruciato. La vista di Asad era impegnata a esaminare ogni dettaglio: un brandello di stoffa agganciato a un pezzo squarciato di lamiera, un cucchiaio annerito e deformato, la plastica bruciata delle buste in cui sua madre teneva le loro cose, troppe per riuscire a scegliere quale salvare, sua madre aveva trascinato lui e non si era preoccupata d’altro, se suo padre non fosse rimasto sotto il tetto avrebbe portato via la loro roba come aveva fatto il padre di Malik. Il pallone era ridotto a un grumo, lo aveva riconosciuto per quel centimetro quadrato di plastica gialla che era stato risparmiato. Quando avevano deciso di tenerne uno ciascuno, ad Asad era toccato il pallone giallo, Malik aveva tenuto il pallone rubato nel negozio dell’italiano, era il suo trofeo ed era un pallone bianco e nero, come dev’essere un pallone da calcio. “ Gioco in una squadra, perché non vieni anche tu?” gli aveva detto Malik. Asad non aveva avuto il coraggio di raccontarlo a sua madre, era già deciso, sarebbero partiti, lei aveva lavorato mesi per pagare il camionista che li avrebbe portati in Etiopia da dove, con un altro camion, sarebbero andati in Libia. Avrebbero lavorato tutti e due, lei avrebbe pulito le case o avrebbe lavorato in un ristorante o in un mercato, diceva, Asad avrebbe potuto fare il lustrascarpe, tre, quattro mesi, poi sarebbero ripartiti con una nave, sarebbero andati in Italia. Lei spiegava e con la punta di un bastoncino disegnava un percorso sulla sabbia, dopo l’incendio avevano preso l’abitudine di andare sulla spiaggia ogni sera. Lei parlava sempre del viaggio, lui ascoltava in silenzio. La sera prima della partenza avevano mangiato la pizza, lei l’aveva comprata dagli italiani, non l’avevano mai mangiata prima, la mangeremo sempre, diceva lei, senti com’è buona. Allora Asad le aveva detto di Malik, le aveva detto che giocava a calcio in una squadra, che mangiava tutti i giorni insieme ai suoi compagni, che aveva un allenatore e una maglia a due colori, rossa e blu. Gli avrebbero pagato gli studi, forse anche lui sarebbe andato in Italia per fare il calciatore o per frequentare l’università, così diceva Malik. Asad, mentre mangiava la pizza, avrebbe voluto dire a sua madre “ restiamo qui” , avrebbe voluto chiederle di andare a parlare con la madre di Malik, erano amiche fino a pochi mesi prima, l’incendio aveva cambiato tutto, non si cercavano più. Avrebbe voluto andare anche lui nella squadra con la maglia rossa e blu, se avevano aiutato Malik avrebbero aiutato anche lui, era un giocatore meno veloce ma con un tiro più preciso. Sua madre aveva ascoltato, poi gli aveva fatto una carezza. “ Giocherai a calcio anche tu quando saremo in Italia. Te lo prometto” aveva detto. Non riesce a pensare ad altro, non ha salutato Malik. Non c’è stato tempo, avrebbe voluto abbracciarlo e chiedergli di parlargli ancora della squadra, degli allenamenti e delle partite. Avrebbe avuto più elementi per fantasticare. Per resistere al caldo, al freddo, alla puzza di sudore, di urina, di escrementi, per resistere ai crampi alle gambe e allo stomaco, durante il viaggio ha disegnato un immaginario campo da calcio, c’erano sempre lui e Malik con le maglie colorate, si allenavano, correvano, avevano perfino le scarpe come i professionisti. C’erano altri ragazzi e l’allenatore, alla fine dell’allenamento si giocava la partita, l’allenatore correva in mezzo a loro e aveva un fischietto, i vincitori ballavano e cantavano abbracciati, c’era acqua per tutti per dissetarsi e poi mangiavano tutti insieme e chi aveva perso si consolava. Lui e Malik giocavano sempre insieme, quando era sul camion che li portava in Libia aveva provato a immaginare una partita in cui giocavano contro, era sicuro che il suo tiro preciso sarebbe stato decisivo e avrebbe fatto vincere la sua squadra contro quella di Malik, lo avrebbe preso un po’ in giro ridendo ma, poi, aveva cambiato idea, era schiacciato contro il corpo di sua madre, dall’altro lato c’era un uomo corpulento, non riusciva quasi a muoversi e respirare, aveva caldo e sete, gli faceva male la gamba destra, lui di sinistro non valeva niente, stava talmente male che aveva cambiato tutto: Malik era nella sua stessa squadra e lo incitava, Asad, al momento giusto e con una palla buona, sarebbe riuscito a tirare anche se aveva male alla gamba. A Bengasi lustrava le scarpe e gettava uno sguardo ai bambini che giocavano a pallone per strada. Nessuno era veloce come Malik, nessuno può eguagliare il passo di un ragazzo kenyota. “Vorresti giocare a calcio? Ti sbagli, devi correre, tu sei un kenyota, appena arrivi in Europa devi andare da qualcuno che ti faccia correre, finisce che ti vediamo alle Olimpiadi “ gli diceva il datore di lavoro di sua madre, lei lavava i pavimenti del magazzino e Asad metteva a posto le scatole con ogni genere di merce, c’erano anche i palloni. Guai a te se ne rubi uno, gli aveva detto sua madre. Si erano imbarcati di notte, del mare sentiva solo l’odore e il rumore, vedeva corpi, braccia, gambe, teste, schiene di uomini e donne, voci e lamenti, il pianto di un bambino piccolo. Quando l’acqua ha cominciato a scarseggiare e le labbra si sono screpolate, quando al mattino non riusciva quasi più ad aprire gli occhi perché anche gli occhi erano secchi come le labbra, all’ombra di una sciarpa larga e leggera che sua madre teneva sopra le loro teste Asad faceva incominciare la partita. Calcio d’inizio, lui si risparmiava perché non aveva le forze, era Malik a correre dietro al pallone, glielo avrebbe servito e lui avrebbe segnato. Non doveva stancarsi a inizio partita, glielo diceva anche l’allenatore, doveva lasciar fare ai compagni, a ciascuno il suo ruolo, lui era nato per segnare, l’importante era non perdere la posizione, tra lui e Malik sarebbe bastato uno sguardo. “ Non ho salutato Malik”, finalmente lo dice a qualcuno. Lo racconta a una signora che lo ascolta, che è lì per ascoltarlo, gli ha detto. Asad si decide e racconta del viaggio sul camion, dei mesi in Libia, lui ci sarebbe anche rimasto ma sua madre contava i soldi tutte le sere, lei voleva andare in Italia. Racconta della nave e di quando chiamava sua madre e lei non rispondeva più e dell’uomo che lo teneva stretto mentre la buttavano in mare con la testa fasciata nella sciarpa bianca. Racconta dello sbarco e del medico che lo aveva curato. “Perché sei venuto fin qui ragazzino?” aveva chiesto tanto per attaccare discorso. “ Per giocare a calcio” aveva risposto. Asad racconta di Malik, il suo amico, della squadra di calcio, del pallone giallo bruciato. “ Giocherai a calcio, te lo prometto” gli dice la signora e sembra una capace di mantenere una promessa. Finisce che se Malik diventa un calciatore e viene in Italia e anch’io sarò un calciatore, potremo giocare finalmente l’uno contro l’altro, pensa Asad stringendo la mano all’assistente sociale. EMILIA MARASCO per "SOTTO UNA LANTERNA AFRICANA" di FREDDIE DEL CURATOLO E LENI FRAU

venerdì 4 ottobre 2013

LAMPEDUSA: CONTINUATE PURE A SFAMARE L'IGNORANZA (anche la vostra)

Vedendo via satellite le immagini della tragedia di Lampedusa, quella fila di pesci umani e di pesciolini inermi sulla banchisa di uno scoglio ormai straniero per chiunque, il pensiero è andato ai giovanotti, alle madri, ai bambini, agli anziani, ai padri di famiglia, alle adolescenti che ogni giorno mi sfilano accanto nel quartiere popolare in cui vivo a Malindi. I miei vicini di casa: la mamma di Raphael, che non lavora e con due figli a carico (il piccolo Raphael, quindici mesi e asma da paraffina per fare luce in casa, e lo splendido Julius, sette anni e il muso accigliato di chi è pronto a ricevere una missione importante dall’uomo bianco), l’oste della tavernaccia degli operai con la moglie e gli innumerevoli figli, a cui almeno la zuppa e un po’ di polenta non manca mai. Loro accanto al sorridente, chiassoso popolo che affolla la piazza di Mijikenda, appena dietro l’angolo di casa nostra. Mi sono venuti in mente i loro volti e le voci di tutti quegli italiani, anche amici e conoscenti, che in questi anni in cui mi sono dedicato ai ragazzini del quartiere, dei villaggi di Mnazi Mmoja e di Kaoyeni, della Central Primary School e dello slum di Kisumundogo, mi hanno detto: “ma cosa ti dedichi a fare questa gente che non ha riconoscenza, che sembra non voglia nemmeno essere aiutata, che vive alla giornata, che non ha un governo alle spalle che li supporta e protegge”. A una parente un tempo prossima che mi accusava di dedicarmi a loro per evitare i miei doveri famigliari. Da un po’ di tempo mi sono stancato di ripetere la stessa solfa “dobbiamo aiutarli qui, far crescere in loro la consapevolezza che vivono in un Paese splendido, in un Continente ricco e vario, pieno di contraddizioni e di ancestrali storture ma in cui, a differenza dell’occidente, è ancora possibile prendere in mano la propria vita e migliorarla radicalmente. L’educazione e la cultura sono strumenti essenziali per intraprendere questo cammino possibile. In molti ancora oggi pensano che il mio stile di vita sia puro egoismo, che io lo faccia per me, per sentirmi a posto con la coscienza o cose del genere. Bene, è arrivata l’ora di mandarvi tutti affanculo, ma di cuore. Voi forse non siete egoisti, ma con buona probabilità rincoglioniti, idioti e conniventi Quando decisi nel 2007 di affiancarmi alla Onlus Karibuni, lo feci perché trovai molto sincero,seppure poco condivisibile, secondo le mie idee e la mia formazione, il discorso del suo presidente Gianfranco Ranieri. Mi disse di condividere la Bossi-Fini, di non essere pro-immigrati e che invece era ben contento di aiutare i kenioti in patria, affinché venissero create le premesse per farli stare bene a casa loro. “Se tutti lo facessero nei paesi del terzo mondo – disse – non avremmo le situazioni disperate che abbiamo nel nostro Paese, da noi verrebbe solamente gente che vuole lavorare, che ha la cultura necessaria per capire e rispettare il nostro Paese e la nostra mentalità”. Piano piano ho capito che con questo tipo di persone avrei potuto lavorare bene, condividere situazioni di solidarietà attiva con programmi mirati e intelligenti. L’aiuto una tantum e campato in aria dei “buonisti per caso” non serve quasi a nulla, e questi anni d’Africa me lo hanno confermato. Meglio un razionale, quasi cinico percorso sociale come quello di Karibuni. Oggi il mio approccio è una via di mezzo, nel senso che la mia sensibilità non riesce a farmi astrarre da certe situazioni, ma la decisione di occuparmi particolarmente di educazione e di portare quanti più ragazzi possibile al diploma di scuola superiore è proprio mirato a questo: aiutarli qui, renderli consapevoli e indipendenti, sicuramente non li farà salire su quei barconi, dove si stipavano centinaia di eritrei e somali, gente ingenua, innocente senza la cultura necessaria per capire che qualcuno stava vendendo loro il paradiso e in realtà li consegnava all’inferno. Vorrei vedere in futuro sempre meno corse al piatto di riso, alla solidarietà con gli sms ai porci dei programmi internazionali, le donazioni di chi ancora sta costruendo i pozzi per l’acqua dove tutto sarebbe già pronto per le irrigazioni, in un Paese che nel sottosuolo ha interi laghi. Gente che costruisce case nei campi profughi ben sapendo che lì dentro si alimenta il mercato delle armi necessario a mantenere intere comunità nella povertà che serve, nell’ignoranza necessaria. Io continuo nel mio piccolissimo a crescere ragazzini che sicuramente non saliranno su quei barconi, e continuate pure a pensare che lo faccia per stare a posto con la coscienza. Voi invece, divoratori di merda mediatica, indignati del prime time e dell’ultima ora, condivisori di “sciagure evitabili”, sputasentenze nei piatti dove non avete né mangiato voi né tanto meno offerto da mangiare, voi che alzate il cellulare prima ancora della voce, che fate gli Erode del sociale mettendo due spiccioli in mano al primo che capita purché sia più sporco e malmesso di voi...fate almeno il piacere di rispettare non un minuto, ma una vita di silenzio e raccoglimento.

martedì 24 settembre 2013

I TITOLI DEI MIX SULLE MUSICASSETTE

Quando non c'erano le playlist, ma i "mix", il cui titolo era scritto con gli Uniposca e contornato con le uniball. Duravano 90 minuti, una ventina di canzoni che ci facevi Milano-Rapallo quando non c'era traffico nell'autoradio Majestic che sulle prime del lato B rallentava un po'. E i titoli dei mix erano tutti un programma...un'avventura, un ricordo, un pensiero, un'idea. Com'era quel tempo, com'era quell'età. Come (per fortuna) sempre sarà la musica. E forse anche il mio cuore.

domenica 15 settembre 2013

GENOA-SAMP IN KENYA SULLA GAZZETTA

(di Marco Pastonesi) C’era una volta soltanto il Genoa. Poi sono arrivate, a Genova, Andrea Doria, Sampierdarenese, Liguria, La Dominante, Giovani Calciatori Grifone, Spes Genova e Giovani Calciatori Genova. Dal 1946, anche la Sampdoria. E da allora, il derby di Genova – il derby della Lanterna – è fra Genoa e Sampdoria. Due volte l’anno, quando va bene. Domani sera: Samp-Genoa. Ma c’è un derby fra Genoa e Samp che si gioca una volta al mese. Non a Genova, ma a Malindi, in Kenya. Karibuni Genoa (“karibuni” in swahili significa “benvenuti” ed è il nome di una onlus che propone un progetto sociale legato al calcio, ed è sostenuto dai tifosi genoani) contro gli orfani della Happy Samp Watamu (l’orfanotrofio inglese Happy House è sostenuto dai tifosi blucerchiati). A organizzare tutto il presidente Freddie del Curatolo, scrittore e giornalista, genoano, che dal 2005 vive a Malindi e si occupa di solidarietà, a sua volta sostenuto da alcune associazioni locali. In campo vanno ragazzini dai 12 ai 15 anni, dei quartieri poveri, delle favelas, degli slum. Unica condizione: i ragazzini devono impegnarsi a scuola. Maglie rossoblù e blucerchiate. Terra più che erba, e pozzanghere d’acqua durante la stagione delle piogge. Dribbling, cross, gol, invece che droga, furti, violenze. Per un po’, per un tanto, magari per sempre.

martedì 10 settembre 2013

KWAHERI ABOO, IL VERO CLOCHARD DI MALINDI

Era morto già parecchie volte, Aboo. Questa purtroppo è proprio l'ultima. Quando lo hanno portato via da un angolo buio di Lamu Road che aveva scelto come giaciglio, non c'era più possibilità di rianimarlo. Non come la penultima volta, quando tutti avevano giurato di averlo visto spirare e invece si era piano piano ripreso dal coma, tornando a passeggiare davanti al Karen Blixen. Aboo era uno dei più longevi questuanti di Malindi, ma l'unico che avremmo potuto definire clochard. Nei primi anni Novanta era il capo dei tassisti, ma lo stipendio se ne andava tutto in Tusker Lager. Poi l'avvento dei tuk-tuk lo aveva lasciato senza lavoro. La sua voce roca da cantante soul americano non designava più le vetture per i turisti, ma lanciava invettive politiche o raccontava storie surreali, e chiedeva qualche spicciolo ai turisti, quasi sempre in maniera meno invadente dei suoi "colleghi". Io con Malindikenya.net per anni lo ho mantenuto, pagando l'affitto della sua baracca, perché era una specie di monumento di una Malindi a cui siamo affezionati, guarnita anche di personaggi come lui. Sono stato a casa sua, nel ghetto di Kisumundogo, si parlava di conflitti etnici, di corruzione, snodava le formazioni delle squadre di calcio italiane, elargiva commenti sarcastici su qualche italiano che proprio non gli andava a genio. Per molti, uno dei tanti "fastidi" giornalieri di Malindi. Per me un simpatico accattone, forse troppo intelligente per vivere la strada di questi tempi non più poetici come una volta e come è stato spesso il suo modo di vivere. Addio vecchio Aboo, mi mancherai.

domenica 28 luglio 2013

CIAO JJ, HOPE THERE'S LIFE AFTER MIDNIGHT

Un pezzo del mio essere blues se n'è andato. Il "mio" blues, che non è solo malinconia o accompagnamento all'alcool, ma anche tranquillità, senso di appartenenza a un mondo semplice, un andar per strade conosciute, ha perso un compagno di giochi, di pensieri e di bevute. Un pezzo di me, quello più tranquillo e raffinato, più solitario e notturno, concreto e coerente, eppure sognante e romantico, ma un filo ironico e cinico, umile e geniale. Che bel piacere la sua gentilissima chitarra, il suo sussurro che non sapeva essere invadente. Ciao grande JJ. Tell us if there's life, after midnight.

lunedì 1 luglio 2013

SAFARI BAR - SERATA PER IL KENYA A MILANO, CHE SUCCESSO!!!

"Cronaca di un successo annunciato. Da giorni se ne parlava qui e su Facebook, molte le prenotazioni e l'interesse suscitato anche dalla diretta streaming. La serata evento di Malindikenya.net con lo spettacolo "Safari Bar" di Freddie del Curatolo e Marco "Sbringo" Bigi è stata straordinaria. Vuoi per il cast composto da ottimi musicisti accomunati dallo stesso spirito, vuoi per gli amici cabarettisti Alessandra Sarno, Giorgio Centamore e Giorgio Ganzerli che si sono prestati a gag che hanno inframmezzato il concerto, vuoi per la stessa musica, espressa da una superband composta da Savino Cesario e Franco Cufone alle chitarre, Furio Bigi al basso, Fabio Amodio alla batteria, Roberto Coppolecchia al sax. Tutti insieme a supportare la presentazione del libro "Safari Bar" da ormai qualche mese in libreria in Italia, con un buon riscontro di vendite all'attivo. Anche ieri sera, copie andate esaurite. Al Centro Culturale Francescano Rosetum di Milano non c'era solamente lo spettacolo di Freddie ad allietare la serata, ma anche la cena preparata dall'Associazione Kenioti in Italia e la presenza dell'Associazione Imprenditori Kilifi County (IAKC) che ha presentato il logo "Amani Riviera" alla presenza, tra gli altri, del Console Italiano a Malindi, Marco Vancini. Suggestive anche le immagini fotografiche del Kenya proiettate di fianco al palco dai reporter Filippo Romano, Carlo Ramerino e della nostra Leni Frau. Il resto è stato buonissima musica, con i brevi interventi e monologhi di Freddie tratti dai suoi libri "malindini". Un ringraziamento alle trecento persone convenute, che hanno permesso al Rosetum di donare 1200 euro per le borse di studio di Malindikenya.net che manderanno alle scuole superiori almeno tre ragazzini. Asante sana yote!

giovedì 6 giugno 2013

LO SPETTACOLO "SAFARI BAR" IN ITALIA!


In un periodo storico in cui la fuga dall'Italia è un desiderio di molti connazionali e per alcuni è diventato realtà, si parla molto di Malindi, la località africana in cui migliaia di italiani si stanno trasferendo a vivere o si recano in vacanza per svariati motivi. Infatti la cittadina keniota non è soltanto un paradiso turistico, ma anche un luogo in cui trovare una vita più sana, libera e a contatto con veri valori della vita. Tra questi anche la solidarietà. Però sulla costa del Kenya approdano anche altri tipi di italiani: costruttori, imprenditori, uomini e donne in cerca d'amore o di avventure ed altri personaggi che compongono un inedito, originale, spesso grottesco "spaccato" d'Italia. Freddie del Curatolo, scrittore cantautore e giornalista, vive da anni a Malindi e ha pubblicato già diversi libri sull'argomento. Guide e romanzi che raccontano in maniera divertente questa strana "colonia" italica in Africa. L'ultimo si intitola "Safari Bar" (Edizioni GVE) e come Freddie è solito fare, ne è tratto uno spettacolo di monologhi, cabaret e musica per il quale l'autore viene accompagnato dal musicista Marco Bigi (autore Rai, già per dodici anni con la band di Paolo Rossi e compositore delle musiche della trasmissione per bambini "L'albero azzurro"). Tra storie, leggende, aneddoti, poesie e canzoni, Freddie del Curatolo ripercorre la storia e la geografia di un luogo a molti noto soprattutto per ospitare Flavio Briatore e Silvio Berlusconi. Ma c'è molto di più, da scoprire divertendosi e appassionandosi alla magia del "mal d'Africa".
Alfredo "Freddie" del Curatolo Nato a Milano nel 1968, è giornalista e collabora con quotidiani, riviste e siti internet. Come critico musicale ha pubblicato diversi saggi biografici, tra cui "Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano" (Selene Edizioni) e "Il provocautore" (Bevivino Editore). Per le edizioni Liberodiscrivere è uscito il vademecum "Malindi Italia, guida semiseria all'ultima colonia italiana in Africa" che è diventato anche uno spettacolo di teatro canzone, interpretato da lui stesso e portato in giro per l'Italia con il musicista Franco Cufone. Come cantautore, nel 2004 ha pubblicato l'album "Nel regno degli animali" (Alambicco/Venus). Dal 2005 vive a Malindi, in Kenya, dove dirige il portale d'informazione Malindikenya.net e segue progetti sociali.
Marco Bigi Musicista e compositore, fin dagli anni '80 si è specializzato in colonne sonore dal vivo per il teatro e il cabaret. Collabora da sempre con l'Improvvisazione Teatrale, ha fondato il gruppo "Cè quel che c'è" che ha accompagnato per molti anni gli spettacoli e le trasmissioni TV di Paolo Rossi e di altri famosi comici di Zelig, ha scritto colonne sonore per il cinema e per il teatro e dal 2001 lavora per la RAI per la quale ha suonato in orchestra, è stato consulente musicale e attualmente scrive le musiche della fortunata trasmissione per bambini "L'Albero Azzurro". Negli ultimi anni ha frequentato Malindi e dall'amicizia con Freddie sono nate le musiche per lo spettacolo "Safari Bar".
9 giugno: MARINA DI CARRARA Sgabeus, v.le Colombo 121bis prenotazioni 339 2966817
10 giugno: SARZANA Piazza Luni, Rassegna "Libri per strada"
15 giugno: CARPI Club Giardino, Strada Statale 468 Motta, 39 prenotazioni: 059 680283
21 giugno: MILANO Centro Culturale Rosetum, via Pisanello 1 serata speciale di solidarietà all'aperto con numerosi ospiti

mercoledì 3 aprile 2013

ENZO JANNACCI E RINO GAETANO (da "Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano" di Freddie del Curatolo, Edizioni Selene)

"...In realtà Rino Gaetano ha un maestro dichiarato che è difficile considerare un cantautore puro, Enzo Jannacci. Il medico meneghino di origine pugliese è quanto di più simile a ciò che Gaetano vorrebbe essere: l’espressività e le gestualità teatrali con cui si muove sul palco, i testi taglienti e crudi, minimalisti e cinematografici che passano dal drammatico al surreale, dal comico all’impegnato, i monologhi e le battute che condiscono i suoi pezzi, sono il suo obbiettivo. Partire dal concetto di “Petrolini rock”, da lui enunciato nella conferenza stampa di presentazione al Festival di Sanremo, per arrivare, un giorno, a comporre testi come il seguente, che in tempi recenti ha ispirato due musicisti romani che sono fan dichiarati di Rino Gaetano, Daniele Silvestri (“Il mio nemico” e Frankie Hi-Nrg (“Quelli che benpensano”). Il nemico non è , no non è oltre la tua frontiera, il nemico non è, no non è oltre la tua trincea, il nemico è qui tra noi, mangia come noi, parla come noi, dorme come noi, pensa come noi ma è diverso da noi. Il nemico è chi sfrutta il lavoro e la vita del suo fratello, il nemico è chi ruba il pane, il pane e la fatica del suo compagno, il nemico è colui che vuole il monumento per le vittime da lui volute e ruba il pane per fare altri cannoni e non fa le scuole e non fa gli ospedali per pagare i generali, quei generali, quei generali per un'altra guerra... (Il monumento, 1966). L’attività artistica di Enzo Jannacci, secondo Rino Gaetano, è il giusto dosaggio di cantautorato, cabaret, canzone colta e canzone popolare, denuncia e ironia spesso amara. “Di Enzo Jannacci posso dire che è un gran poeta – si legge in un’intervista rilasciata nel 1976 a Ciao 2001 – non so se mi abbia influenzato direttamente, personalmente mi sento molto vicino al suo feeling. Però c’è una differenza notevole di esperienze, di città, di età. Lui è uno che sa divertire e divertirsi… prendere le cose per il verso giusto e dire delle cose importantissime. Prendi “Giovanni il telegrafista”, dove risulta patetico con molta eleganza. Mi sento abbastanza vicino alle sue vedute”. Se fosse stato più giovane di qualche anno avrebbe scritto tormentoni come “Vengo anch’io, no tu no” o “Ho visto un Re”, ma v’è da dire che al suo fianco non c’è mai stato un Dario Fo o un Giorgio Gaber. A quest’ultimo invidia l’idea del teatro canzone, rimasta inespressa nelle prove registrate su nastro, nei fogli scarabocchiati in cui insieme con l’amico Bruno Franceschelli scriveva monologhi per introdurre le sue prime ballate. Come Gaber, Gaetano avrebbe voluto utilizzare dialoghi, battute e recitativi tra un brano e l’altro per stupire, provocare e spiegare il mondo delle sue liriche. Gaetano però non vuole fare prosa militante né sociologia, piuttosto una sorta di cabaret off, come quello dei Gufi, uno Ionesco in musical. Per questo ammira Jannacci, avrebbe voluto essere lo Jannacci romano, e Franceschelli è stato agli esordi per lui ciò che Luporini era per Gaber, un “consigliori”, un correttore di bozze, un amico colto con cui confrontarsi e scrivere. Jannacci frequenta Dario Fo, il giornalista Sandro Ciotti, Cochi e Renato, negli anni Settanta quella magnifica penna che era Beppe Viola, con cui compone canzoni e scrive racconti, poi Gino e Michele. Gaetano da questo punto di vista si sente un po’ solo, solo con la dannata periferia cantata in “Cerco”, che insieme con “Io scriverò” appare come uno dei brani più autobiografici, solo con gli amici al bar che gli offrono spunti di vita vera ma non lo portano facilmente al paradosso, allo sviluppo di modalità inedite nell’affrontare i concetti che ha in mente. Così Rino si ritira nella sua stanza di via Monte Cimone e legge, legge molto..."

sabato 30 marzo 2013

ADDIO JANNACCI, CON TE SONO CRESCIUTO, HO RISO E HO VISSUTO BENE

Il primo ricordo è Vengo anch'io no tu no...me lo cantava la mamma e lo associavo all'andare al parco giochi. Si attraversava Piazzale Biancamano, dove abitavamo, e si arrivava all'Arena. Il Parco Sempione allora era tutto aperto e i cani lasciavano enormi merde sull'erba poco curata. Fare il portiere, nelle partitelle, era un bel rischio. Poteva capitare che il pallone, calciato dall'avversario, schizzasse su una merdazza e ti arrivasse addosso...e quasi dovevi essere contento di poterlo deviare con le mani. Quando si arrivava al parco giochi, ero finalmente io a poter rispondere a mia madre "no tu no!". Il cielo degli anni Settanta era nuvole senza Messico, era una Milano che se la cantavi la dovevi cantare con la voce di Enzo Jannacci. Però c'era anche un mondo che mi girava intorno con la sua musica: c'erano Cochi e Renato alla domenica che tiravano un rigore e "la vita l'è bela"...Ho amato da subito quell'ironia immediata, surreale e un po' da bar. Era il mondo in cui entravo dando la mano a mio padre, quando il sabato lo accompagnavo a giocare la schedina del totocalcio. Ricordo quando a otto anni stordivo mia sorella cantando "Musical" e lei non vedeva l'ora che si arrivasse alla strofa "e poi qualcuno applaudirà" per poter esclamare "clip clap!" e poi qualcuno sputerà, "cip ciap!" E a capire perchè "silvano e non valevole ciccioli". Da lì in poi è stato tutto un ridere per ridere e la vita la vita. E la pojana è un falco, un falco delle mie montagne perchè ci vuole orecchio, e ho visto un re te vist cus'è? Perchè lo statu quo, e l'ottica, e quello che canta onliù e io e te che ridevamo io e te che sapevamo e prendimi amami e sgonfiami e vincenzina davanti alla fabbrica. Che bella vita con Enzo. E ricorderò da adulto, quando ho scoperto, scrivendo il saggio biografico su Rino Gaetano, quanto lui ti avesse ascoltato e idolatrato e che eri tu il suo riferimento più importante, più di Petrolini, Buscaglione e i Gufi. Poi quando ti chiamavo per le interviste e ti producevi in quei monologhi surreali che erano il tuo modo di rapportarti con chiunque, da Gaber al più sconosciuto giornalista de La Provincia. Non mi mancherai, Enzo, perchè ti sto ascoltando adesso e ti ascolterò sempre.

giovedì 21 marzo 2013

COME PARLARE DI AFRICA (di Binyavanga Wainaina)

Un brano tratto da un divertente, ironico libretto di uno scrittore keniota, che prende in giro i luoghi comuni degli scrittori occidentali che si cimentano con l'argomento africa. Sottoscrivo pienamente, infatti nel mio romanzo "Safari Bar" trovate scene di vita quotidiana, amore tra africani, cenni a bambini scolarizzati e cosi via... Nel titolo, usate sempre le parole “Africa”, “nero”, “safari”. Nel sottotitolo, inserite termini come “Zanzibar”, “masai”, “zulu”, “zambesi”, “Congo”, “Nilo”, “grande”, “cielo”, “ombra”, “tamburi”, “sole” o “antico passato”. Altre parole utili sono “guerriglia”, “senza tempo”, “primordiale” e “tribale”. Mai mettere in copertina (ma neanche all’interno) la foto di un africano ben vestito e in salute, a meno che quell’africano non abbia vinto un Nobel. Usate, piuttosto, immagini di persone a torso nudo con costole in evidenza. Se proprio dovete ritrarre un africano, assicuratevi che indossi un abito tipico masai, zulu o dogon. Nel testo, descrivete l’Africa come se fosse un paese caldo, polveroso con praterie ondulate, animali e piccoli, minuscoli esseri umani denutriti. Oppure caldo e umido, con popolazione di bassa statura che mangia scimmie. Non perdetevi in descrizioni accurate, l’Africa è grande: cinquantaquattro nazioni e novecento milioni di persone troppo impegnate a soffrire la fame, morire, combattere o emigrare per aver tempo di leggere il vostro libro. Il continente è pieno di deserti, giungle, altipiani, savane e molti altri paesaggi, ma questo non interessa ai vostri lettori. Fate delle descrizioni romantiche, evocative, senza esagerare con i dettagli. Ricordatevi di dire che gli africani hanno la musica e il ritmo nel sangue, e che mangiano cose che nessun altro uomo è in grado di mangiare. Non citate mai riso, carne e grano: preferite, tra i piatti tipici del continente nero, cervello di scimmia, capra, serpente, vermi, larve e ogni sorta di selvaggina. E ricordatevi anche di aggiungere che voi siete riusciti a mangiare questi cibi e anzi che avete imparato a farveli piacere. SOGGETTI VIETATI: SCENE DI VITA QUOTIDIANA, AMORE TRA AFRICANI, RIFERIMENTI A SCRITTORI O INTELLETTUALI, CENNI A BAMBINI SCOLARIZZATI CHE NON SOFFRANO DI FRAMBOESIA, EBOLA O ABBIANO SUBÌTO MUTILAZIONI GENITALI. Nel libro adottate un tono di voce sommesso e ammiccante con il lettore e un tono triste, alla “era esattamente quello che mi aspettavo”. Chiarite subito che il vostro progressismo è senza macchia e dite quanto amate l’Africa e come vi sentite in armonia con quella terra e anzi, non potete viverne lontani. L’Africa è l’unico continente che si può amare: approfittatene! Se siete uomini, descrivete le torride foreste vergini. Se siete donne, parlate dell’Africa come di un uomo in giubbotto multitasche che sparisce nel tramonto. L’Africa è da compatire, adorare o dominare. Ma qualsiasi punto di vista scegliate, assicuratevi di dare l’impressione che senza il vostro intervento l’Africa sarebbe spacciata. I vostri personaggi possono essere guerrieri nudi, servitori fedeli, indovini, sciamani e vecchi saggi che vivono in splendidi eremi. O ancora politici corrotti, guide turistiche incapaci e poligame o prostitute che avete frequentato. Il servitore fedele deve avere l’atteggiamento di un bambino di sette anni, bisognoso di una guida, che teme i serpenti e vi trascina di continuo in oscuri complotti. Il vecchio saggio discenderà sempre da una nobile tribù, i suoi occhi saranno cisposi e lui sarà vicino al cuore della madre terra. L’africano d’oggi è un grassone che lavora (e ruba) all’ufficio visti e nega permessi di lavoro agli esperti occidentali, che hanno davvero a cuore il bene del continente. È un nemico dello sviluppo, che ostacola gli africani buoni e competenti che vorrebbero creare organizzazioni non governative e riserve protette. Oppure è un intellettuale che ha studiato a Oxford ed è diventato un serial killer di politici in doppiopetto: è un cannibale a cui piace lo champagne di marca e sua madre è una ricca maga e guaritrice. Non dimenticatevi di inserire nel libro la donna africana denutrita che vaga seminuda nel campo dei rifugiati aspettando la carità dell’occidente: i suoi figli hanno le mosche sugli occhi e gli ombelichi tondi e lei ha le mammelle vuote e cadenti. Deve sembrare bisognosa e non deve avere né un passato né una storia (qualsiasi digressione smorzerebbe la tensione drammatica). Si deve lamentare ma non deve spendere una parola per sé, tranne i riferimenti alla sua sofferenza. Inserite anche una figura femminile materna e sollecita, dalla risata forte, che si occupa di voi e del vostro bene e chiamatela semplicemente Mama. I suoi figli saranno tutti delinquenti. Tutti questi personaggi dovrebbero far da contorno al vostro eroe, aiutandolo a sembrare migliore. È lui che li può istruire, lavare, sfamare. Si occupa di moltissimi bambini e ha visto la morte. Il vostro eroe siete voi (se si tratta di un reportage), oppure un generoso aristocratico (o vip) straniero pieno di fascino tragico, che ormai si è dedicato ai diritti degli animali (se il vostro libro è di narrativa). Tra i personaggi occidentali cattivi ci devono essere i figli dei ministri conservatori al governo, gli afrikaners, gli impiegati della Banca mondiale. Quando parlate dello sfruttamento esercitato dagli stranieri, citate i commercianti cinesi e indiani e, in generale, accusate l’occidente per la situazione del continente africano. Cercate però di non entrare troppo nello specifico. I ritratti rapidi e approssimativi vanno benissimo. Evitate che gli africani ridano, o educhino i loro bambini, e non ritraeteli in circostanze frivole. Fategli dire qualcosa d’interessante sull’impegno europeo o statunitense nel continente. I personaggi africani dovrebbero essere pittoreschi, esotici, più grandi della vita, ma vuoti dentro, senza contrasti, conflitti e scelte nelle loro esistenze, nessuna profondità o desideri che confondano le idee. Descrivete nel dettaglio i seni nudi, i genitali sottoposti a mutilazione e quelli di grosse dimensioni. E i cadaveri. O, meglio ancora, i cadaveri nudi. E soprattutto i cadaveri nudi in putrefazione. Ricordatevi: qualsiasi opera in cui la gente africana sembri miserevole e ripugnante sarà vista come l’Africa “vera”, ed è proprio questo che volete sulla copertina del vostro libro. Non fatevi troppi scrupoli in proposito: state cercando di aiutare il continente chiedendo aiuto agli occidentali. Il massimo tabù quando si scrive di Africa è descrivere la sofferenza e la morte di un bianco. Anche gli animali devono essere ritratti in modo complesso e articolato. Parlano e hanno nomi, ambizioni e desideri. Sono anche bravi genitori: “Vedete come i leoni istruiscono i figli?”, gli elefanti sono altruisti, le femmine sono vere matriarche e i maschi dei dignitosi capibranco. E lo stesso per i gorilla: non dite mai niente di negativo sugli elefanti o sui gorilla. Difendeteli sempre, anche quando invadono terre coltivate, distruggono raccolti e uccidono gli uomini. Descrivete i grandi felini con enfasi. Le iene invece sono un bersaglio consentito e devono avere un vago accento mediorientale. Qualunque piccolo africano che viva nella giungla o nel deserto va descritto sempre di buon umore. Dopo gli attivisti vip e i volontari, in Africa le persone più importanti sono quelle che si battono per la tutela dell’ambiente. Non offendetele. Avete bisogno che v’invitino nelle loro riserve da diecimila metri quadrati, perché è l’unico modo a vostra disposizione per incontrare e intervistare gli attivisti vip. Mettere in copertina l’immagine di uno (o una) che si batte per l’ambiente, con l’aria intrepida e lo sguardo ispirato, funziona benissimo in libreria e vi farà vendere un sacco. Chi può essere considerato così? Be’, qualsiasi bianco, abbronzato, con vestiti tinta kaki, che almeno una volta abbia accudito un antilope o possegga un ranch è uno (o una) che sta cercando di tutelare il ricco patrimonio naturale dell’Africa. Quando l’intervistate, non fate domande sul denaro; non chiedete quanti soldi ne ricava. Soprattutto, evitate qualsiasi riferimento alla paga che dà ai suoi lavoranti. Se vi dimenticate di citare la luce africana, i vostri lettori rimarranno stupiti. E i tramonti. Il tramonto africano è d’obbligo. È sempre grande e rosso e il cielo è vastissimo. Gli enormi spazi aperti e gli animali da cacciare sono i punti focali. L’Africa è la terra degli enormi spazi aperti. Quando descrivete la flora e la fauna, ricordatevi di dire che l’Africa è sovrappopolata. Invece, quando il vostro protagonista si trova nel deserto o nella giungla in mezzo agli indigeni è bene avvisare il lettore che l’Africa è stata spopolata dall’aids e dalla guerra. Vi servirà anche un nightclub chiamato Tropicana dove s’incontrano i mercenari, i malvagi parvenu indigeni, le prostitute, i guerriglieri e gli esuli. In ogni caso, chiudete il vostro libro con Nelson Mandela che dice qualcosa sugli arcobaleni e sulle speranze di rinascita. Perché voi ci tenete.

giovedì 14 marzo 2013

L'AFRICA E LA PAZIENZA

In Italia la pazienza da tempo non è più una virtù, ma un lubrificante anale. In Africa si torna a un rapporto viscerale, meno neurologico e più materiale con le piccole disavventure del quotidiano. Sarà perché qui si sente la sfida con la Natura, con l’ancestrale rotolare delle cose che siamo noi ad aver voluto cambiare per primi. Normale che poco a poco, con l’influsso di piante secolari e polvere d’argilla, di formule magiche di stregoni che si perdono nell’aere mescolandosi all’odore di mais bollito e all’afrore di ascelle arrosto, siano loro a cambiare noi. La pazienza è il primo sintomo di africanizzazione. Comprendere le esigenze primarie della popolazione locale e confrontarle con la nostra passione per il superfluo, accettare l’animismo e scaricare l’anima de li mortacci vostri, saper attendere l’attesa, che qui Godot non ci viene di sicuro, non c’è nemmeno bisogno di aspettarlo. Prendersela. “Io me la prendo”, usiamo dire. E’ un concetto astratto, per carità, ma dovrebbe comunque sottintendere un fine, un oggetto, una modalità. Prendersela (con qualcuno) nel mondo occidentale ha perso l’originale significato di rivendicazione, di sfogo o reprimenda per affermare le proprie ragioni o la propria volontà. Qui ha invece lo stesso senso da sempre, un senso di passività. Me la prendo in quel posto. Che comunque è sempre ricevere qualcosa, quindi arricchirsi. In un Paese dannatamente povero, è già un buon inizio. Forse per questo chi “la prende” sente il bisogno di far partecipare anche gli altri di questo grande dono, di questa pesca miracolosa. Ed ecco che è tutto un prendere e poco dopo regalare. Non sentirete mai, da queste parti, l’invocazione “non prendertela, dài”, ma piuttosto “prenditela, e poi dalla al prossimo tuo”. Non crediate che sia un pessimo insegnamento, perché se si rovescia il presupposto iniziale, è normale che il percorso sia all’incontrario. Ovvero: la lezione antica era “non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi”, ove però si cercava di consigliare qualcuno prima che l’azione fosse stata compiuta. In Africa l’azione invece è già avvenuta, da secoli. Quindi è plausibile che da queste parti l’assunto diventi “Fate agli altri ciò che è stato fatto a voi”. Ma con calma...

sabato 16 febbraio 2013

SAFARI BAR: COMMENTI CHE FANNO PIACERE

Termino in questo momento il tuo libro che ho scoperto per caso girovagando alla ricerca di persone che hanno avuto il coraggio di iniziare una nuova vita in Africa, quel coraggio che mi manca ma che spero un giorno di trovare. Sono stata in Kenya una sola volta purtroppo ma spero di tornarci il prima possibile magari come volontaria magari come insegnante dal momento che sono una laureata in lingue che non vede alcun tipo di futuro in questo bel paese che è l'Italia e che si sente vincolata da una società sempre meno attenta ai valori e sempre più in balia delle cose futili. I miei complimenti varranno poco ma ci tenevo a dirti che il tuo libro mi ha entusiasmata; Mi sono fatta un sacco di risate leggendo tutti gli aneddoti che racconti e in alcuni momenti ho pensato di essere nei luoghi che ho visitato e di cui tu parli direttamente o indirettamente.. Marafa, Che Shale, Watamu Malindi.. Ti ringrazio per avermi fatto tornare alla mente il profumo d'Africa con queste 200 pagine, profumo del resto indelebile e costante, un po' come quello della bresaola per i mzungu Asante sana e complimenti sinceri per questo splendido libro. Giulia

mercoledì 13 febbraio 2013

DUE CHIACCHIERE CON FREDDIE DEL CURATOLO, AUTORE DI "SAFARI BAR" RITRATTO DI MALINDI E DELLA COMUNITÀ ITALIANA

(DA VOGLIOVIVERECOSI' WORLD) Eccoci a Malindi, città del Kenya ricca di storia e di suggestioni. Rifugio per un'umanità varia, spinta qui da mille e uno motivi, Africa vera per qualcuno, enclave di costumi e nefandezze occidentali per altri. Comunque una località che non ha certo avuto bisogno degli occidentali per conoscere, già tra il 1300 e il 1500 uno dei periodi più floridi della sua storia e che ne fecero, insieme a Mombasa la città più ricca della costa orientale africana. Anzi l'arrivo degli europei coincise con la nascita dello schiavismo e con uno dei periodi più bui della sua esistenza. E in fondo anche ora, alcuni occidentali hanno portato un'altra forma di saccheggio, quello culturale, facendone un luogo in cui perpetrare le loro "cattive abitudini". Però c'è posto, per chi la vuole scorgere e vivere, anche per autenticità, e per un'Africa più vera. Ne parliamo con Freddie Del Curatolo, milanese, classe 1968, giornalista, scrittore e musicista che qui ci vive. Autore di alcuni libri tra cui, nel 2008, di "Malindi Italia, guida semiseria all'ultima colonia italiana in Africa" vero caso editoriale tra turisti e residenti nella città keniota. Oggi Freddie, oltre a molti progetti sociali, dirige anche il portale Malindikenya.net ma ha anche pubblicato il divertente libro "Safari bar" Guido Veneziani Editore. Un divertente ma anche amaro spaccato di una città che, per molti aspetti, sembra specchio di una certa Italia; caciarona, apparentemente innocua ma non del tutto priva di una pericolosa volgarità. Tanti gli episodi divertenti, tragicomici che Freddie però racconta con ironia, senza ergersi a giudice superiore. La voce narrante è quella di Nonno Kazungo perché il racconto di un vecchio saggio serve per dare un'altra prospettiva alle parole e alle descrizioni di cose e persone. E, in alcuni punti, il libro sembra parlare di un'Italia fin troppo simile a quella di oggi oltre che del Kenya. Un bello spaccato comunque di una comunità italiana all'estero. Da leggere per ridere riflettendo. E con Freddie facciamo anche due chiacchiere. Tu come e perché hai "scoperto" il Kenya? E’ stato tutto merito di mio padre. Si è trasferito qui quando avevo 18 anni per aprire la prima pizzeria in Est Africa. Finito il liceo mi sono preso un anno sabbatico per stare un po’ con lui e ho scoperto il paradiso. Tanto che per sette anni l’ho frequentato per almeno sei mesi all’anno. Come è arrivata la decisione di viverci? Qui continui a svolgere il tuo lavoro di giornalista? Ho amato da subito il Kenya. A vent’anni l’avevo già eletto luogo ideale dove passare la vita. Però perseguivo alcuni obbiettivi che sapevo mi avrebbero dato grandi soddisfazioni personali. Dopo essere diventato giornalista, aver pubblicato il primo libro, aver inciso un disco come cantautore, ho pensato che ero pronto per lasciare l’Italia e tornare definitivamente “a casa”. Dopo aver gestito un ristorante sulla spiaggia, ho trovato il sistema di svolgere il mio mestiere, unendo molte attività imprenditoriali della costa keniota in un portale: malindikenya.net. Parliamo un po' del tuo libro. Da dove ti è venuta l'idea di scriverlo? Bando alla modestia: credo di essere il massimo esperto di italiani a Malindi. In venticinque anni ho raccolto tante di quelle storie, aneddoti e memorie altrui da poter scrivere almeno altri venti libri. Ho iniziato con una sorta di vademecum: “Malindi Italia, guida semiseria all’ultima colonia italiana in Africa” (Liberodiscrivere) che ha avuto un ottimo riscontro e qui a Malindi è diventata una piccola “bibbia” per turisti. Ora mi sono cimentato con una forma più vicina al romanzo, per raccontare le stesse cose: trent’anni di allegra, grottesca, a volte disdicevole ma spesso compenetrata ed ecosolidale invasione italiana in Kenya. Perché non lo hai scritto in prima persona ma usi il personaggio del nonno per raccontare le storie? Perché è più divertente che sia un africano che ha imparato a conoscere gli italiani, a parlare di loro. Io comunque ho fatto come alcuni registi cinematografici e mi sono ritagliato una piccola parte: quella dello Svaporato. Gli italiani non ci fanno certo una bella figura. Ma anche alcuni kenioti non ne escono un po' come delle caricature? I kenioti di Malindi, in trent’anni, hanno imparato molto da noi; sono come spugne di mare che assorbono, nel bene o nel male, la civiltà ma anche le abitudini non proprio civili che portiamo. Alcuni grazie a noi hanno potuto studiare migliorando la loro vita e quella dei familiari. Altri, scimmiottandoci, hanno accentuato alcune nostre peculiarità, come quella di imparare i dialetti o di diventare tifosi sfegatati delle nostre squadre di calcio. A volte sembra che più che del Kenya, tu abbia voluto parlare dell'Italia. Un po' è così? Malindi è Italia. Nel bene e nel male. E’ un posto unico nel mondo, un enclave in cui convivono svariate anime del nostro Paese. Provenienze diverse, differenti estrazioni sociali, ideali e ideologie agli antipodi. Tutti (o quasi) accomunati da quel sentimento che siamo soliti chiamare “mal d’Africa”. Ma per fortuna (o purtroppo come diceva Gaber) Malindi è anche molto altro, che con l’Italia ha ben poco da spartire. C'è qualcuno dei personaggi che descrivi a cui sei particolarmente affezionato? Tanti! Voglio bene a tutti, anche perché sono quasi tutti veri e reali. Ieri l’elettricista Makotsi è venuto a ripararmi una presa, Buddy Bufalo Pazzo mi ha chiamato per dirmi che un amico gli porterà giù il libro, Ruggero Borsello…è mio padre! La comunità italiana in Kenya è come la descrivi nel tuo libro? “Safari Bar” va un po’ a ritroso nel tempo, una ventina d’anni. Ma lo fa anche per poter parlare dei tempi attuali senza che nessuno si offenda. Oggi la comunità è un po’ più frammentata, sono sbarcati più Vip, c’è Briatore, arrivano Berlusconi e Grillo…loro fanno notizia, ma c’è anche tantissima gente che aiuta la popolazione locale, che si è rifatta una vita nel rispetto della natura e che vive a contatto con la miseria e i problemi di questo Paese che è pur sempre Terzo Mondo. Non mancano però gli intrighi, le storie comiche e le disavventure che continuano a farci apparire agli occhi di tanti stranieri come un popolo di “albertisordi”. A cura di Geraldine Meyer

giovedì 24 gennaio 2013

FINALMENTE IN LIBRERIA "SAFARI BAR" di FREDDIE DEL CURATOLO

Frank Sinatra che canta ubriaco in riva all’Oceano Indiano per Ava Gardner. L’inseguimento ad una bresaola valtellinese fuggita insieme a una “lucciola” nel quartiere islamico. Maggiordomi che combinano guai, eseguendo alla lettera le istruzioni di stranieri che si credono poliglotti e amatori mandinghi che conoscono l’arte primordiale della seduzione e ignorano le più elementari regole della contraccezione. Ecco alcuni dei racconti che l’anziano Kazungu, dopo quarant’anni di lavoro per i bianchi di Malindi, narra ai nipoti, all’ora del tramonto, nel suo villaggio alle porte della savana. Nonno Kazungu conosce pregi e difetti di un paradiso terrestre che con il tempo si è riempito di mzungu di ogni specie. Chi, meglio di lui può snocciolare fatti, misfatti, avventure e risvolti grotteschi della più strampalata, variopinta e singolare “colonia” di italiani all’estero? Freddie del Curatolo descrive con la verve di uno Stefano Benni in salsa africana il rapporto tra una civiltà stanca e logora e una tribù povera e dignitosa, i giriama, in uno dei luoghi turistici del mondo più frequentati dai nostri connazionali. Il Kenya è sogno di libertà per alcuni, ma anche terreno di conquista per billionaire-dipendenti. Forse là è ancora possibile decidere da che parte stare. FREDDIE DEL CURATOLO SAFARI BAR Guido Veneziani Editore 216 pagg. € 13,90 SCHEDA LIBRO Malindi, perla turistica del Kenya che si affaccia sull’oceano indiano. Dalle prime navi cinesi nell’anno mille, attraverso arabi, indiani e portoghesi, si è arrivati al Novecento degli inglesi. I mzungu, come vengono chiamati i bianchi dalla popolazione locale, oggi sono in gran parte italiani che approdano per vacanze “all inclusive” o per svernare in ville da sogno. Ma ci sono anche avventurieri fulminati dal “mal d’Africa”, ex professionisti che hanno cambiato vita e prospettive, pensionati in cerca di una seconda giovinezza sessuale e splendide persone che hanno scelto una solidarietà partecipe, diretta. Quarant’anni di uno strampalato, improbabile colonialismo sono raccontati ai nipoti da un anziano maggiordomo che torna alla sua capanna di fango sulla strada per il parco nazionale dello Tsavo. Vicende grottesche e tragicomiche che coinvolgono tycoon alla Briatore, artisti come Frank Sinatra e Zucchero, bresaole valtellinesi disperse in quartieri malfamati, giovani “rampolle” in cerca di stalloni africani, “desperate houseboys” alle prese con la tecnologia e tanti altri personaggi ispirati alla realtà in cui l’autore vive da molti anni. FREDDIE DEL CURATOLO Alfredo “Freddie” del Curatolo è nato a Milano nel 1968. Giornalista professionista, collabora con quotidiani e riviste nazionali. Come critico musicale ha pubblicato diversi saggi biografici, tra cui vale la pena menzionare “Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano” (Selene Edizioni) e “Il provocautore” (Bevivino Editore). Per le edizioni Liberodiscrivere è uscito il vademecum “Malindi Italia, guida semiseria all’ultima colonia italiana in Africa” che è diventato anche uno spettacolo di teatro canzone, interpretato da lui stesso e portato in giro per l’Italia con il musicista Franco Cufone. Come cantautore, nel 2004 ha pubblicato l’album “Nel regno degli animali” (Alambicco/Venus). Dal 2005 vive a Malindi, in Kenya, dove dirige il portale d’informazione Malindikenya.net, si occupa attivamente di progetti sociali e ogni tanto apre un ristorantino in riva al mare.