sabato 30 marzo 2013

ADDIO JANNACCI, CON TE SONO CRESCIUTO, HO RISO E HO VISSUTO BENE

Il primo ricordo è Vengo anch'io no tu no...me lo cantava la mamma e lo associavo all'andare al parco giochi. Si attraversava Piazzale Biancamano, dove abitavamo, e si arrivava all'Arena. Il Parco Sempione allora era tutto aperto e i cani lasciavano enormi merde sull'erba poco curata. Fare il portiere, nelle partitelle, era un bel rischio. Poteva capitare che il pallone, calciato dall'avversario, schizzasse su una merdazza e ti arrivasse addosso...e quasi dovevi essere contento di poterlo deviare con le mani. Quando si arrivava al parco giochi, ero finalmente io a poter rispondere a mia madre "no tu no!". Il cielo degli anni Settanta era nuvole senza Messico, era una Milano che se la cantavi la dovevi cantare con la voce di Enzo Jannacci. Però c'era anche un mondo che mi girava intorno con la sua musica: c'erano Cochi e Renato alla domenica che tiravano un rigore e "la vita l'è bela"...Ho amato da subito quell'ironia immediata, surreale e un po' da bar. Era il mondo in cui entravo dando la mano a mio padre, quando il sabato lo accompagnavo a giocare la schedina del totocalcio. Ricordo quando a otto anni stordivo mia sorella cantando "Musical" e lei non vedeva l'ora che si arrivasse alla strofa "e poi qualcuno applaudirà" per poter esclamare "clip clap!" e poi qualcuno sputerà, "cip ciap!" E a capire perchè "silvano e non valevole ciccioli". Da lì in poi è stato tutto un ridere per ridere e la vita la vita. E la pojana è un falco, un falco delle mie montagne perchè ci vuole orecchio, e ho visto un re te vist cus'è? Perchè lo statu quo, e l'ottica, e quello che canta onliù e io e te che ridevamo io e te che sapevamo e prendimi amami e sgonfiami e vincenzina davanti alla fabbrica. Che bella vita con Enzo. E ricorderò da adulto, quando ho scoperto, scrivendo il saggio biografico su Rino Gaetano, quanto lui ti avesse ascoltato e idolatrato e che eri tu il suo riferimento più importante, più di Petrolini, Buscaglione e i Gufi. Poi quando ti chiamavo per le interviste e ti producevi in quei monologhi surreali che erano il tuo modo di rapportarti con chiunque, da Gaber al più sconosciuto giornalista de La Provincia. Non mi mancherai, Enzo, perchè ti sto ascoltando adesso e ti ascolterò sempre.

giovedì 21 marzo 2013

COME PARLARE DI AFRICA (di Binyavanga Wainaina)

Un brano tratto da un divertente, ironico libretto di uno scrittore keniota, che prende in giro i luoghi comuni degli scrittori occidentali che si cimentano con l'argomento africa. Sottoscrivo pienamente, infatti nel mio romanzo "Safari Bar" trovate scene di vita quotidiana, amore tra africani, cenni a bambini scolarizzati e cosi via... Nel titolo, usate sempre le parole “Africa”, “nero”, “safari”. Nel sottotitolo, inserite termini come “Zanzibar”, “masai”, “zulu”, “zambesi”, “Congo”, “Nilo”, “grande”, “cielo”, “ombra”, “tamburi”, “sole” o “antico passato”. Altre parole utili sono “guerriglia”, “senza tempo”, “primordiale” e “tribale”. Mai mettere in copertina (ma neanche all’interno) la foto di un africano ben vestito e in salute, a meno che quell’africano non abbia vinto un Nobel. Usate, piuttosto, immagini di persone a torso nudo con costole in evidenza. Se proprio dovete ritrarre un africano, assicuratevi che indossi un abito tipico masai, zulu o dogon. Nel testo, descrivete l’Africa come se fosse un paese caldo, polveroso con praterie ondulate, animali e piccoli, minuscoli esseri umani denutriti. Oppure caldo e umido, con popolazione di bassa statura che mangia scimmie. Non perdetevi in descrizioni accurate, l’Africa è grande: cinquantaquattro nazioni e novecento milioni di persone troppo impegnate a soffrire la fame, morire, combattere o emigrare per aver tempo di leggere il vostro libro. Il continente è pieno di deserti, giungle, altipiani, savane e molti altri paesaggi, ma questo non interessa ai vostri lettori. Fate delle descrizioni romantiche, evocative, senza esagerare con i dettagli. Ricordatevi di dire che gli africani hanno la musica e il ritmo nel sangue, e che mangiano cose che nessun altro uomo è in grado di mangiare. Non citate mai riso, carne e grano: preferite, tra i piatti tipici del continente nero, cervello di scimmia, capra, serpente, vermi, larve e ogni sorta di selvaggina. E ricordatevi anche di aggiungere che voi siete riusciti a mangiare questi cibi e anzi che avete imparato a farveli piacere. SOGGETTI VIETATI: SCENE DI VITA QUOTIDIANA, AMORE TRA AFRICANI, RIFERIMENTI A SCRITTORI O INTELLETTUALI, CENNI A BAMBINI SCOLARIZZATI CHE NON SOFFRANO DI FRAMBOESIA, EBOLA O ABBIANO SUBÌTO MUTILAZIONI GENITALI. Nel libro adottate un tono di voce sommesso e ammiccante con il lettore e un tono triste, alla “era esattamente quello che mi aspettavo”. Chiarite subito che il vostro progressismo è senza macchia e dite quanto amate l’Africa e come vi sentite in armonia con quella terra e anzi, non potete viverne lontani. L’Africa è l’unico continente che si può amare: approfittatene! Se siete uomini, descrivete le torride foreste vergini. Se siete donne, parlate dell’Africa come di un uomo in giubbotto multitasche che sparisce nel tramonto. L’Africa è da compatire, adorare o dominare. Ma qualsiasi punto di vista scegliate, assicuratevi di dare l’impressione che senza il vostro intervento l’Africa sarebbe spacciata. I vostri personaggi possono essere guerrieri nudi, servitori fedeli, indovini, sciamani e vecchi saggi che vivono in splendidi eremi. O ancora politici corrotti, guide turistiche incapaci e poligame o prostitute che avete frequentato. Il servitore fedele deve avere l’atteggiamento di un bambino di sette anni, bisognoso di una guida, che teme i serpenti e vi trascina di continuo in oscuri complotti. Il vecchio saggio discenderà sempre da una nobile tribù, i suoi occhi saranno cisposi e lui sarà vicino al cuore della madre terra. L’africano d’oggi è un grassone che lavora (e ruba) all’ufficio visti e nega permessi di lavoro agli esperti occidentali, che hanno davvero a cuore il bene del continente. È un nemico dello sviluppo, che ostacola gli africani buoni e competenti che vorrebbero creare organizzazioni non governative e riserve protette. Oppure è un intellettuale che ha studiato a Oxford ed è diventato un serial killer di politici in doppiopetto: è un cannibale a cui piace lo champagne di marca e sua madre è una ricca maga e guaritrice. Non dimenticatevi di inserire nel libro la donna africana denutrita che vaga seminuda nel campo dei rifugiati aspettando la carità dell’occidente: i suoi figli hanno le mosche sugli occhi e gli ombelichi tondi e lei ha le mammelle vuote e cadenti. Deve sembrare bisognosa e non deve avere né un passato né una storia (qualsiasi digressione smorzerebbe la tensione drammatica). Si deve lamentare ma non deve spendere una parola per sé, tranne i riferimenti alla sua sofferenza. Inserite anche una figura femminile materna e sollecita, dalla risata forte, che si occupa di voi e del vostro bene e chiamatela semplicemente Mama. I suoi figli saranno tutti delinquenti. Tutti questi personaggi dovrebbero far da contorno al vostro eroe, aiutandolo a sembrare migliore. È lui che li può istruire, lavare, sfamare. Si occupa di moltissimi bambini e ha visto la morte. Il vostro eroe siete voi (se si tratta di un reportage), oppure un generoso aristocratico (o vip) straniero pieno di fascino tragico, che ormai si è dedicato ai diritti degli animali (se il vostro libro è di narrativa). Tra i personaggi occidentali cattivi ci devono essere i figli dei ministri conservatori al governo, gli afrikaners, gli impiegati della Banca mondiale. Quando parlate dello sfruttamento esercitato dagli stranieri, citate i commercianti cinesi e indiani e, in generale, accusate l’occidente per la situazione del continente africano. Cercate però di non entrare troppo nello specifico. I ritratti rapidi e approssimativi vanno benissimo. Evitate che gli africani ridano, o educhino i loro bambini, e non ritraeteli in circostanze frivole. Fategli dire qualcosa d’interessante sull’impegno europeo o statunitense nel continente. I personaggi africani dovrebbero essere pittoreschi, esotici, più grandi della vita, ma vuoti dentro, senza contrasti, conflitti e scelte nelle loro esistenze, nessuna profondità o desideri che confondano le idee. Descrivete nel dettaglio i seni nudi, i genitali sottoposti a mutilazione e quelli di grosse dimensioni. E i cadaveri. O, meglio ancora, i cadaveri nudi. E soprattutto i cadaveri nudi in putrefazione. Ricordatevi: qualsiasi opera in cui la gente africana sembri miserevole e ripugnante sarà vista come l’Africa “vera”, ed è proprio questo che volete sulla copertina del vostro libro. Non fatevi troppi scrupoli in proposito: state cercando di aiutare il continente chiedendo aiuto agli occidentali. Il massimo tabù quando si scrive di Africa è descrivere la sofferenza e la morte di un bianco. Anche gli animali devono essere ritratti in modo complesso e articolato. Parlano e hanno nomi, ambizioni e desideri. Sono anche bravi genitori: “Vedete come i leoni istruiscono i figli?”, gli elefanti sono altruisti, le femmine sono vere matriarche e i maschi dei dignitosi capibranco. E lo stesso per i gorilla: non dite mai niente di negativo sugli elefanti o sui gorilla. Difendeteli sempre, anche quando invadono terre coltivate, distruggono raccolti e uccidono gli uomini. Descrivete i grandi felini con enfasi. Le iene invece sono un bersaglio consentito e devono avere un vago accento mediorientale. Qualunque piccolo africano che viva nella giungla o nel deserto va descritto sempre di buon umore. Dopo gli attivisti vip e i volontari, in Africa le persone più importanti sono quelle che si battono per la tutela dell’ambiente. Non offendetele. Avete bisogno che v’invitino nelle loro riserve da diecimila metri quadrati, perché è l’unico modo a vostra disposizione per incontrare e intervistare gli attivisti vip. Mettere in copertina l’immagine di uno (o una) che si batte per l’ambiente, con l’aria intrepida e lo sguardo ispirato, funziona benissimo in libreria e vi farà vendere un sacco. Chi può essere considerato così? Be’, qualsiasi bianco, abbronzato, con vestiti tinta kaki, che almeno una volta abbia accudito un antilope o possegga un ranch è uno (o una) che sta cercando di tutelare il ricco patrimonio naturale dell’Africa. Quando l’intervistate, non fate domande sul denaro; non chiedete quanti soldi ne ricava. Soprattutto, evitate qualsiasi riferimento alla paga che dà ai suoi lavoranti. Se vi dimenticate di citare la luce africana, i vostri lettori rimarranno stupiti. E i tramonti. Il tramonto africano è d’obbligo. È sempre grande e rosso e il cielo è vastissimo. Gli enormi spazi aperti e gli animali da cacciare sono i punti focali. L’Africa è la terra degli enormi spazi aperti. Quando descrivete la flora e la fauna, ricordatevi di dire che l’Africa è sovrappopolata. Invece, quando il vostro protagonista si trova nel deserto o nella giungla in mezzo agli indigeni è bene avvisare il lettore che l’Africa è stata spopolata dall’aids e dalla guerra. Vi servirà anche un nightclub chiamato Tropicana dove s’incontrano i mercenari, i malvagi parvenu indigeni, le prostitute, i guerriglieri e gli esuli. In ogni caso, chiudete il vostro libro con Nelson Mandela che dice qualcosa sugli arcobaleni e sulle speranze di rinascita. Perché voi ci tenete.

giovedì 14 marzo 2013

L'AFRICA E LA PAZIENZA

In Italia la pazienza da tempo non è più una virtù, ma un lubrificante anale. In Africa si torna a un rapporto viscerale, meno neurologico e più materiale con le piccole disavventure del quotidiano. Sarà perché qui si sente la sfida con la Natura, con l’ancestrale rotolare delle cose che siamo noi ad aver voluto cambiare per primi. Normale che poco a poco, con l’influsso di piante secolari e polvere d’argilla, di formule magiche di stregoni che si perdono nell’aere mescolandosi all’odore di mais bollito e all’afrore di ascelle arrosto, siano loro a cambiare noi. La pazienza è il primo sintomo di africanizzazione. Comprendere le esigenze primarie della popolazione locale e confrontarle con la nostra passione per il superfluo, accettare l’animismo e scaricare l’anima de li mortacci vostri, saper attendere l’attesa, che qui Godot non ci viene di sicuro, non c’è nemmeno bisogno di aspettarlo. Prendersela. “Io me la prendo”, usiamo dire. E’ un concetto astratto, per carità, ma dovrebbe comunque sottintendere un fine, un oggetto, una modalità. Prendersela (con qualcuno) nel mondo occidentale ha perso l’originale significato di rivendicazione, di sfogo o reprimenda per affermare le proprie ragioni o la propria volontà. Qui ha invece lo stesso senso da sempre, un senso di passività. Me la prendo in quel posto. Che comunque è sempre ricevere qualcosa, quindi arricchirsi. In un Paese dannatamente povero, è già un buon inizio. Forse per questo chi “la prende” sente il bisogno di far partecipare anche gli altri di questo grande dono, di questa pesca miracolosa. Ed ecco che è tutto un prendere e poco dopo regalare. Non sentirete mai, da queste parti, l’invocazione “non prendertela, dài”, ma piuttosto “prenditela, e poi dalla al prossimo tuo”. Non crediate che sia un pessimo insegnamento, perché se si rovescia il presupposto iniziale, è normale che il percorso sia all’incontrario. Ovvero: la lezione antica era “non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi”, ove però si cercava di consigliare qualcuno prima che l’azione fosse stata compiuta. In Africa l’azione invece è già avvenuta, da secoli. Quindi è plausibile che da queste parti l’assunto diventi “Fate agli altri ciò che è stato fatto a voi”. Ma con calma...