lunedì 14 settembre 2015

CARTE DA GIOCO STRAPPATE


Siamo carte da gioco strappate
portate dal mare
Siamo fatue promesse d'estate
Mal pronunciate o da dimenticare
Siamo frasi non dette
Matite spezzate
Pensieri di cose fin troppo pensate
Americhe amare e maledette
Siamo quel che non resta da fare
Giorni da passare
E non giornate da vivere

sabato 12 settembre 2015

FIORENTINA-GENOA 1-0 Il commento del Beccioni: "PROFONDO VIOLA"


Profondo Viola.
Al comunale di Firenze va in scena un Genoa horror, che si fa pugnalare una sola volta e non riesce mai a ferire l’avversario, con una sterilità offensiva endemica e prevista, ma davvero desolante.
Il viola è un colore secondario, composto dall’unione del rosso e del blu.
Anche questa sera i viola per imporre i loro colori hanno avuto bisogno dello scioglimento dei due colori. Una fusione a freddo che è risultato naturale, quasi matematico, di aver giocato con l’uomo in più per 70 minuti. Poi l’espulsione di Badelj, che ha riequilibrato le cose. Noi con Pandev in campo, loro finalmente come noi con l’uomo in meno.
In superiorità numerica, la Fiorentina ha fatto gioco in maniera mediocre, affidandosi al cervello e al mestiere di Borja Valero, che a storpiare il nome gli si fa sempre un favore, a lui e a mammeta. Con Pepito che non gioca dai tempi di Letta presidente, il giovane Duccio della Bernardesa che se è il nuovo che avanza stiamo freschi, e Paracar, non sembrerebbero fare del male, se noi potessimo schierare una squadra decente.
Invece ci presentiamo con JetLag Rincon che per un’ora vaga per il campo spaesato cercando Isla e un Margarita, e trovando solo i polpacci di Borja e Vecino, Tino Costa più lento e defilato del solito e Ntcham dal quale forse si pretende un po’ troppo. Senza stare a guardare il Capel.
Così le cose meno peggio arrivano dalle fasce, dove Laxalt dimostra di volersi imporre, pur in un ruolo non suo, dimostrando abnegazione, spirito di sacrificio e palle ancora troppo giovani per mandare a cagare il Vate.
Dall’altra parte, Hiram Bullock Cissokho fa davvero il possibile e anche di più, considerato che con 500 mila euro ci comperi Falletti della Ternana o Mammarella del Lanciano. A fine partita risulteranno i migliori in campo.
Davanti, l’horror vacui.
Due ottantenni con una buona pensione ma senza l’idea di dove siano i lavori in corso da andare a vedere. Due umarelli tristi che non riescono ad accattare un pallone nemmeno durante un paio di saldi di fine estate di Astori e Tomovic. Clamoroso il pallonettino aziendale del macedone sull’unica occasione che un tempo un piede come il suo avrebbe tramutato in qualcosa di meglio e che invece ci lascia a reti inviolate all’intervallo.
Il George Romero della panchina, Mago Gasp, dopo aver spostato il francesino del City da ala alla Kucka a mezzala alla Kucka, a falso nueve alla Perotti, a dovecazzovuoitu, non si schioda dal 3-6-1 transgender e continua a contare i giocatori in campo per capire se sono davvero undici o almeno due si sono dati.
Come ci si può attendere, la Viola di settembre, confortata da tanta pochezza avversaria, spinge un po’ di più nel secondo tempo e il rossoblu in campo inizia a mescolarsi con il nulla della tavolozza verde del Comunale.
Varcare la trequarti è come un valico appenninico affrontato in monopattino, rifornire Pandev non varrebbe la pena nemmeno si vedesse in lui un’oca da paté.
Inevitabile la marcatura di Paracar, con De Maio che ancora risente della spalla e Burdisso che preferisce il culatello.
Subito dopo, l’orrore della partita propone due decisioni abbastanza indecifrabili: l’espulsione di Badelj (fin troppo severa) e la sostituzione di Tino Costa (anche da fermo, meglio dell’attuale Capel).
Con la ritrovata parità numerica, pur con il fantasma macedone e un mezzo macedone che ancora non ha capito dove gioca e chi sia Gasperini, non riusciamo a fare un tiro in porta.
L’ingresso di Perotti riporta superiorità presunta. Si vede quel che potrebbe essere in futuro: prediche nel deserto e predicatori al dessert.
Al fischio finale ci si può giusto affidare al significato letterario del termine “orrore”:  
Sostantivo maschile [dal lat. horror -oris, der. di horrere (v. orrido)]. – letter. Senso di sbigottimento ispirato dalle tenebre, dall’oscurità: un solitario orrore d’ombrosa selva mai tanto mi piacque(Petrarca); all’orror de’ notturni Silenzi si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube (Foscolo).
Con le tenebre in attacco e oscurità di modulo, attendiamo l’ombrosa selva di tre partite facili. Per ora nessun tumulto, siamo quel che siamo e le tube del giudizio sono ancora lontane, tanto vale pensare a quelle di falloppio.
Pensando alla ripresa di Perotti, al ritorno di Pavoletti e della sua contagiosa voglia, ripieghiamo sull’ accezione particolare di questo “orrore”: 
sacro orrore (e, meno comune, orrore religioso), sentimento misto di superstizioso terrore, di rispetto e di venerazione ispirato da luoghi in cui si sente la presenza della divinità; nell’uso odierno, l’espressione sacro orrore è per lo più adoperata in tono scherzoso per indicare avversione (soprattutto per ciò che non è in sé un male): ha un sacro orrore dell’acqua, di persona che è poco amante della pulizia o anche di persona a cui piace molto il vino.
Ecco.
Salute, Genoa!

lunedì 7 settembre 2015

AUGURI, COMPAGNO DI VITE


Centoventidue anni.
Un uomo non li vive mica.
Sì, c’era uno in Nepal, mi sembra.
O forse era in Ungheria, ma non si faceva vedere in giro.
A Matsangoni, nell’Africa Equatoriale, Mzee Kaingu è morto che ne aveva 115 e la gente del villaggio non ha più trovato il corpo.
Dicono che è diventato una pianta.
Ecco, centoventidue anni può essere forse solo una pianta, un albero.
Il baobab africano può arrivare anche a mille anni.
E il vitigno che produsse quella bottiglia di Bordeaux datata 1893, è ancora lì.
Vivo.
Qualcosa che c’era prima di te e che se l’uomo stesso non la distrugge, stai sicuro che ci sarà anche dopo.
Annate migliori, stagioni grame.
Natura, fatica, sudore.
Arte, cultura, tradizione.
Cambiano i bouquet, i prodotti, s’insediano insetti nuovi, arrivano terribili pesticidi.
Ma il vino è ancora lo stesso.
E’ sempre la medesima etichetta.
Identico, inconfondibile timbro.
Come il Grifone.
No, non l’animale mitologico.
Lo so, è un vino marchigiano.
Nemmeno quello.
Sto parlando del Genoa, che oggi festeggia 122 anni dalla fondazione.
Sì, il Genoa Cricket and Football Club.
Avete capito bene.
Perché sono robe che tanta gente non comprende.
Che va pure bene, non si può pretendere di capire tutto.
Ma a quel punto, bisognerebbe stare zitti.
Umilmente, con rispetto e dignità.
Prendendosi tempo per provare a intendere, a sapere, ad imparare.
Sempre che gliene freghi qualcosa di te o della questione.
E invece parlano, commentano, ti giudicano.
Oggi è ancora più facile, basta un click.
L’hanno inventato apposta, il click.
Perché non c’è più tanto tempo da dedicare agli altri.
Con un click credono che tu stia pensando a loro, che sia interessato a quel che dicono e a quel che fanno, alle cose in cui credono e a quel che gli piace mostrare di loro.
Il bello è che la faccenda è reciproca, lo puoi fare anche tu e gli altri penseranno lo stesso, in una piacevole e serena accettazione di farsi ognuno i cazzi degli altri e allo stesso tempo non interessarsene minimamente.
Anche per questo non temo critiche.
Men che meno quelle costruttive, prendono troppo tempo e poi c’è il rischio che ti arriva una risposta e devi pure controbattere.
Meglio affidarsi frettolosamente a sentenze di comodo, a qualche luogo comune non proprio banalissimo e al limite prendersi un altrettanto frettoloso vaffanculo.
Con la stessa serena accettazione di un click.
L’ironia invece è sempre bene accetta.
La chiamano “fede”, quindi non è una cosa che uno deve prendere sul serio.
Com’è giusto a volte non prendere sul serio le pulsioni del cuore o quelle della pancia.
Per non parlare del basso ventre.
Ironia sì.
Pregiudizio, sufficienza, snobismo o peggio, velato disprezzo di chi considera snobismo il mio.
Un intellettuale che si interessa di calcio, che fa addirittura il tifo per una squadra.
Fosse stato un ignorante, un decerebrato, capivo.
Ma ci siamo abituati.
L’innamoramento con una squadra di calcio.
Ti additano come un immaturo, un superficiale.
Uno che in fondo non ha tanti problemi nella vita o, peggio, con tutti i pensieri che dovrebbe avere, guarda come perde tempo dietro a una cazzata.
Poi vedi tanti di loro dedicarsi amorevolmente, piangere e sdilinquirsi davanti ad un micino o una cagnetta che hanno il quoziente d’intelligenza poco più basso di Cassano.
E condividono, si indignano, si lanciano in effusioni verbali, virtuali, emotiche ed ematiche anche per gli animaletti degli altri.
Come se io mi mettessi a urlare come un assatanato per un rigore negato all’Udinese, se perdessi la voce seguendo la Spal e mi si gonfiassero gli occhi per la retrocessione del Cesena.
E’ la mia pianta, quella che da ragazzo mi ha fatto sentire una delle migliaia di gocce di pioggia che la innaffiavano con lo stesso ardore, dei granelli di polline che l’aiutavano a far germogliare i fiori.
Corpuscoli in trasferta a Liverpool, a Sassari, a Oviedo, a Giulianova, a Odense.
Rugiada piangente a Firenze, con il Cosenza.
Foglie secche a Treviso, petali strappati a Cogliate e trasformati in fiori di plastica che il polline non sa più dove cazzo andare a posarsi.
Di questo vorrei parlare, di come ogni pianta meriti di veder nascere i propri fiori, di come ogni sentimento, ogni passione sia buona, se dal tuo cuore può nascerne qualcosa di vero, onesto, semplice, umano.
Di tutte le belle persone che ho incontrato, ho conosciuto senza click, ho frequentato e ho avuto il privilegio di chiamare “amico”. 
Ma che importa, a chi serve sapere queste cose, in un mondo di indaffarati che non ascoltano e hanno affidato le loro sorti a chi ha già le migliori soluzioni per mandare tutto a puttane. 
E allora va bene.
Il calcio è malato, è pompato, è dopato, è truccato, è al soldo dei media.
Dovrei ragionare così.
Invece la domenica mi ritrovo lì, davanti ai miei fiori.
Per  molti sono io l’eterno infante, quello che giustifica i violenti, i poco equilibrati.
Gli unici che spalano il fango delle alluvioni altrui, invece di restare a concionare con l’iphone in mano, per intenderci.
Stiamo tornando alle posizioni fisse, alle poche idee ma in compenso confuse, all’integralismo come risposta agli estremismi.
Click.
Vaffanculo.
In tutto questo bordello dovrei vergognarmi di esternare amore per una maglia che mi fa battere il cuore?
Probabilmente, di questi tempi, non mi vergognerei nemmeno se il cuore me lo facesse battere Bono Vox con il tupé biondo.
Siamo così diversi e sconosciuti l’uno all’altro che sembriamo proprio tutti uguali.
E non dovrei sentirmi libero di pensare al Vecchio Balordo, alla sua storia, alle emozioni che mi ha donato, al piacere di vedere una palla di cuoio sospinta in fondo alla rete da un milionario poco più che ventenne che sgomma al semaforo con la sua Porsche Panamera, solo perché indossa la casacca rossoblu?
Segnalatemi nel novero dei malati di leggerezza, prenotate pure un posto per me nel girone dei rincoglioniti.
Confortatevi, siamo sempre meno.
Oggi la passione a gratis è un bene che non fa comodo a nessuno.
Cosa importa, abbiamo il cuore, la pancia e curiamo con amore la nostra pianta.
Io, se fossi una pianta, sarei sicuramente la vite.
Tanto per parlare di integralisti, un amico vegano e animalista convinto mi chiedeva perché continuo imperterrito a bere vino, più dell’acqua.
Gli risposi quel che mi hanno insegnato in Africa.
“Dovresti saperlo, anche gli animali mangiano e bevono sempre la stessa cosa, per tutta la vita”
“Infatti un cane e un gatto vivono 15 anni” mi ha risposto.
“Vivono meno perché li abbiamo addomesticati. Un elefante vive anche 80 anni”
“In ogni caso la vita media di un animale è 20 anni”
“Vedi, amico, quel ignori e che invece uno come te dovrebbe sapere, è che gli animali non muoiono dopo quindici o vent’anni da quando sono nati, ma da quando hanno smesso di essere cuccioli, e diventano adulti”.
Ecco, mi va bene così.
Datemi dell’eterno bambino, ditemi pure che sono infantile.
La mia vita vera da animale non è ancora cominciata.
Quella nell’eterno vigneto arriverà quando sarà il tempo.

E ti faccio gli auguri, caro Genoa.