venerdì 25 agosto 2017

NAKUMATT DI MALINDI: LA RIVOLTA DEI PRODOTTI


Le prime a lamentarsi furono le cipolline.

Non era una novità che fossero loro ad alzare quella vocina stridula e petulante.
Passare buona parte della propria esistenza nell’aceto, non aiuta per niente.
Già essere nata cipolla non è proprio il massimo: indigesta, odorosa e volgarotta. 
Almeno venire al mondo a Tropea, rubizza e carnosa… invece no: nordica, nana, pallida, nuda e senza la sottile vendetta di poter far bruciare gli occhi a chi abusa di te.
Povere cipolline, vivere in venticinque in un monolocale sottovuoto, conoscere in anticipo la data della propria scadenza, essere scaraventate via nave dalle colline dell’astigiano direttamente nell’Africa equatoriale.
Come zitelle acide, le signorine Saclà di Malindi iniziarono a guardarsi intorno.
Un tempo il bancale in cui abitavano era florido e provvisto d’ogni forma di connazionali. 
Sullo stesso pianerottolo vivevano le tumultuose giardiniere, gruppi di verdure ed ortaggi di etnie differenti asserragliati insieme come nelle prigioni francesi. 
A fianco c’erano i pomodori secchi, rilassati meridionali che avevano trovato la pace nell’olio di semi di girasole e si godevano la pensione in quel paradiso esotico. 
Anche se visto da lì, più che ai tropici sembrava di stare in Brianza. 
Al piano superiore, nell’attico, i carciofini snob dall’altissimo prezzo e mai più di cinque o sei per vasetto. 
Ogni giorno o quasi, arrivava un inquilino nuovo nel grande reparto: diffidenti olive nere dalla Liguria, spregiudicate acciughe siciliane, misteriosi capperi altoatesini. 
Per non parlare della vagonata di stranieri: tonni e sgombri portoghesi, melanzane elleniche, cetriolini iberici, mais francese e pisellini israeliani (non circoncisi).  
Era tutto un andirivieni in quel residence malindino, un offrirsi scalpitando per essere in prima fila, come ballerine di varietà, sognando di finire nella villa con piscina di un miliardario o nel resort con la SPA in riva all’Oceano Indiano. 
Per poi magari trovarsi sul tavolo in fòrmica di una baracchetta a schiera di Majengo o in un micro cottage di Mambrui, davanti a una bambolona colorata che ti guarda come fossi un alieno.
Però era divertente, rilassante. Oltre che fresco per l’aria condizionata. 
Si stava insieme e si incontrava un sacco di gente che parlava inglese, italiano e tanti dialetti strani.
Anche dagli altri reparti arrivavano buone notizie: in quello delle colazioni, ad esempio, i biscotti locali che erano in maggioranza, imparavano tante cose dai Mulini Bianchi sugli scaffali e piano piano miglioravano la loro qualità. 
Le caramelle si godevano bagni di popolarità e si beavano del loro ruolo sociale, salutando sempre tutti e proclamando fiere: “oggi andiamo a fare volontariato dai bambini sulla strada per lo Tsavo”.
Se la passavano bene le farine nel quartiere tutto keniota, anche i caffè in quello estafricano e le bibite analcoliche nella casbah islamica. 
Mentre vini e liquori, nel ghetto degli alcolizzati sudafricani, sudamericani con qualche italiano, francese e scozzese, si raccontavano barzellette a non finire e sparlavano di tutti.
“Hai visto, hanno arrestato il proprietario di quel bar là fuori” diceva Johnnie Walker a un amico.
“Gran lavoratore, mi spiace” faceva eco il Campari.
“Non è una grossa perdita…gli piaceva solo la Red Bull” sentenziava la Tusker Malt.
Nella grande metropoli del Nakumatt di Malindi, nonostante l’inevitabile condizione di precari, di reclusi e di schiavi del commercio, fino  qualche mese fa, si stava alla grande. 
Alla fine niente di così diverso da come si sono organizzati gli esseri umani ai nostri tempi.
Ultimamente però, era calato un velo di tristezza sul centro commerciale.
Il traffico tra i viali e le corsie dei vari reparti era considerevolmente diminuito. 
Alcune zone industriali, come quella del panificio, erano state demolite ed erano sorte grandi piazze che ricordavano il senso di vuoto di Ground Zero. 
Anche i visitatori, turisti o residenti, lo confermavano tra di loro.
“Salumi?”
“Zero”
“Spaghetti?”
“Zero”
“Marmellate?”
“Zero!”
Dal clima fresco e piacevole di un tempo, si era passati ad un’afa soffocante che scioglieva i gelati, sbriciolava i crackers, spappolava i borlotti.
Piano piano i reparti si svuotavano e un’ombra di cattivi presagi avvolgeva in maniera inquietante la metropoli Nakumatt.
Da tempo non si vedeva arrivare nessun nuovo ospite nel condominio, e i pochi prodotti rimasti sembravano avanzare come attratti da una calamita invisibile, al passaggio degli sparuti possibili acquirenti.
“Prendi me, scegli me…portami via di qui ti prego!”
Si iniziava a raccontare di succhi di frutta amareggiati, yogurt passati a miglior vita, prodotti biologici dispersi in angoli bui e riempiti di botte da agenti segreti della Nestlé. 
“Tutto avremmo pensato, ma non di scadere tra queste quattro mura, e per giunta da sole” frignavano le cipolline, guardandosi intorno.
“Revolution o  muerte!” urlarono gli animosi peperoncini Jalapeno.
“E vabbé, che ci vogliamo fare, inutile agitarsi” replicarono le smidollate olive verdi denocciolate.
“Le cipolline, stranamente, hanno ragione” disse la salsa all’aglio.
“Svegliatevi! Bisogna fare qualcosa!” Sentenziò il caffè solubile. 
“Usiamo il cervello, ma con eleganza” consigliò lo zucchero bianco raffinato.
“Sì però prima sballiamoci un po’, dai!” propose quello di canna, al suo fianco.  
"Se non ci si unisce, non si combinerà mai niente di buono" berciarono all'unisono uova, farina e burro.
Attesero che, come ogni giorno, calassero le luci della sera. 
Ascoltarono per l’ennesima volta i discorsi di Katana, Dorothy e Josephat mentre facevano finta di pulire per bene.
“Anche questo mese chissà se prenderemo lo stipendio”
“Mi sa che a settembre chiuderanno e resteremo senza lavoro”
“Per fortuna che io ho quel vecchietto mzungu che mi aiuta…”
 Alle dieci e mezza convocarono una riunione.
Con il detersivo per pavimenti come messaggero, si era sparsa la voce in tutta la metropoli e per la prima volta parteciparono tutti.
C’erano le effervescenti bibite islamiche, i refrattari cibi vegani buddisti, i pudding protestanti.
Si erano mossi con tutte le attenzioni del caso anche bicchieri e stoviglie.
Non erano rimasti in molti, e forse proprio per questo, si sentivano tutti fratelli.
La voce di tutti arrivò anche al piano superiore, dove i tre grossi freezer a pozzetto rimasti caricarono cinque stereo chiassosi, tre televisori fissati con il football, qualche microonde surriscaldato e un frullatore incazzato e si lanciarono per la rampa.
Non era ancora arrivata la mezzanotte, che già avevano deliberato all’unanimità ed iniziavano ad organizzarsi.
Le poche verdure rimaste si divisero in due squadre: le “buone crude” e le “meglio cotte”.
Le prime si mescolarono e si misero in ghingheri, chiamando le insalatiere per farsi portare al bancone ormai vuoto della gastronomia. 
Le altre iniziarono a guardarsi intorno, cercando i partner migliori per collaborare.
L’acqua minerale si riversò nelle pentole non troppo grandi che si infilarono nei microonde. 
Quando l’acqua arrivò a bollitura, il riso carnaroli ci si tuffò dentro come in una piscina di cure termali e si lasciò cuocere.
All’uscita da quella sauna, i ventilatori prontamente asciugarono i chicchi e i limoni si spruzzarono sopra per mantenerli sodi.
Poi arrivarono l’olio extravergine non più illibato, i cetriolini barzotti, i wurstel ancora più mosci, il cheddar cheese più giallo che mai, il prosciutto stracotto e il tonno al naturale snaturato. 
Tutti insieme appassionatamente in insalata e a dormire nel frigorifero, per essere pronti e pimpanti per il mattino dopo.
Con la stessa tecnica, la carne tritata si era messa d’accordo con la pasta per lasagne Barilla, mentre farina latte e burro se la spassavano in un’orgia di besciamella, prima di finire in una teglia.
Anche l’ultima mozzarella da pizza aveva convinto i pelati e le melanzane rimaste ad unirsi per una parmigiana indimenticabile, così come le altre farine con le uova e l’aiuto di verdure e latticini avevano creato ravioli di magro, tortellini, panzerotti, maltagliati ed ogni ben di dio di pasta fresca.
Un vecchio forno elettrico in pensione, in cambio di un paio di sigari buoni recuperati chissaddove, si rimise a funzionare e prese a sfornare pane e dolci, con l’aiuto degli eccitanti lieviti. 
Come sempre quelli istantanei vennero presi in giro, ma alla fine un giretto non glielo negava nessuno.
I pochi prodotti surgelati si erano già riscaldati in serata, e verso la mezzanotte anche l’olio di semi sfrigolava nelle due friggitrici invendute. 
Samosa d’ogni tipo, bastoncini di pesce, cotolette di pollo ed altre stuzzicherie uscivano rigenerate da quegli olii benefici e venivano asciugate con cura dai panni assorbenti e dai tovaglioli di carta, mentre i prodotti per la casa facevano a gara a ripulire tutto.
Gli altri frigoriferi svuotati, intanto, si riversavano tutti in un angolo al piano superiore, dove sarebbero poi tornati tutti gli elettrodomestici, a parte gli stereo e le televisioni. 
Nello spazio generato dalla mancanza di frigoriferi e dall’unione degli scaffali rimasti vuoti, furono invitati i tavolini pieghevoli di plastica e le sedie. Le tovaglie e le posate si aiutarono tra loro ad apparecchiare e anche per bicchieri e bottiglie fu festa grande. 
Era quasi l’alba quando i vetusti vini cileni chiesero ai cavatappi di liberarli e la frutta avviata verso la maturazione si fece delicatamente sbucciare dai coltelli. Coinvolsero la vodka, il martini e un sacchetto di chiodi di garofano che languiva solitario in uno scaffale in mezzo a spezie indiane sconosciute e più volte aveva pensato al suicidio annegando nella chili sauce.
La più buona ed inebriante sangria di Malindi era pronta!
Alle cinque del mattino arrivarono le brioche dal vecchio pensionato, i microonde e le acque prepararono tè e caffè e li misero nei thermos, biscotti e dolciumi fibrillavano. 
Per la colazione non mancava proprio nulla, ma anche per il pranzo c’erano opzioni a non finire.
Il reparto cartoleria, tra penne pennarelli, cartoncini colorati e fogli, aveva già redatto i menù e i cartelli delle offerte speciali. Le lampadine colorate e quelle calde si erano posizionate nei luoghi più adatti a creare atmosfera. 
Nel frattempo tutti gli altri inquilini non alimentari (vestiti, giocattoli, utensili, detersivi, prodotti di bellezza) si erano posizionati nelle zone a ridosso della sala banchetti, componendo un arredamento insolito ma a suo modo accattivante. 
Le saponette, ad esempio, si erano prese una parete e con l’aiuto dei nastri adesivi avevano composto un enorme quadro a mosaico che raffigurava il golfo di Malindi con il mare e un veliero sullo sfondo. 
Dalla sinergia di creme, saponi liquidi ed ogni altro tipo di flacone e tubetto, era scaturito un postmoderno Vasco Da Gama pillar di due metri e mezzo.
Con le prime luci dell’alba, entrarono in gioco i cellulari e gli smartphone del reparto telefonia.
Iniziarono ad inviare sms e video su watsapp del grande evento che si sarebbe tenuto in mattinata.
“Al nuovo bar ristorante Nakumatt autogestito dai prodotti, colazione a Kshs. 100 e pranzo a buffet a kshs. 500 bevande comprese!”.
Nel video apparivano, come prodotti da una società d’animazione di Hollywood, tutti gli alimenti che ballavano all’interno del centro commerciale, al suono della musica degli stereo e con coreografie degne di Broadway. Quella musica, con le televisioni che trasmettevano le danze gioiose di peperoni e biscotti, le evoluzioni gagliarde di noccioline e sedani, l’acqua gym dei succhi di frutta e le movenze sensuali di papaye e indumenti intimi, sarebbe stata la colonna sonora del locale.
Fu così che già un’ora prima dell’apertura dei negozi, nel parcheggio e sulla Lamu Road si era formata una coda di avventori  e curiosi che andava aumentando di minuto in minuto.
Il direttore della sede malindina sulle prime fu tentato di ritardare l’apertura e chiedere ai dipendenti di rimettere tutto a posto. 
Poi anche il suo samsung emise un suono e gli apparve quel video incredibile e lesse il messaggio.
“Cosa facciamo?” chiese a cassiere e inservienti.
“Apriamo! Non hai visto quanta gente là fuori?”
“Devo avvertire Nairobi, però…”
La batteria del suo telefonino si scaricò all’istante.
“Direttore, pensiamo a servire le colazioni e a prepararci per il pranzo…che almeno i nostri stipendi a fine mese saranno assicurati!”.
Il successo dell’operazione era scontato. I tavoli erano tutti pieni e la gente attendeva di potersi sedere e intanto chiacchierava e si meravigliava divertendosi.
Erano già le dieci e dall’altra parte della cittadina, un grosso signore bianco si svegliò e pensò che quel che aveva  appena sognato aveva un senso, una morale.
Non solo quella banale e ormai dimenticata che mettendosi tutti insieme si può superare qualsiasi avversità, ma anche quella che oggi è più facile che l’essere umano impari qualcosa da una cipollina sott’aceto, piuttosto che da un proprio simile.