Quella mattina nonno Kazungu era di pessimo umore.
Non che dal suo sguardo trasparissero segnali di livore trattenuto o di insofferenza, ma quando le labbra faticavano a schiudersi in un sorriso appena accennato ai nipoti, prima di vederli scomparire dietro al grande baobab per andare a scuola, nonna Conjestina era certa che ci fosse qualcosa che non andava. Si era anche dimenticato di prendere il bastone nel cacatoio e, nello sforzo, aveva fatto un bel capitombolo su un fianco. Ci aveva messo un bel po' a tirarsi su e perfino la capra lo aveva guardato con compassione, senza belare per almeno un minuto.
La giornata era iniziata male. Era stato destato dal rumore di grandi fuoristrada che avevano fatto tappa a Kakoneni. Non erano i soliti pulmini o le Land Cruiser dei safaristi che sfrecciano veloci e lasciano un gran polverone e nessun altro ricordo. Erano macchinoni bianchi con a bordo wazungu, specialmente donne, e kenioti ben vestiti. Dopo un quarto d'ora, nel villaggio già si sapeva che appartenevano a qualche organizzazione che voleva aiutare i bambini.
“Costruiranno un nuovo orfanotrofio?” chiese Conjestina.
Nonno Kazungu bevve il suo the in silenzio. Aveva capito che quei bianchi non erano lì per donare vestiti o generi alimentari, nè per affari.
Lavoravano a qualcosa di più importante, qualcosa a lunga gittata.
“Forse porteranno l'elettricità dappertutto...” insistette la donna.
Il vecchio sbattè con energia la tazza di latta contro il ceppo che fungeva da tavolo, al centro della radura, come a dire di non seguitare a far inutili congetture.
“Hai negli occhi più rughe che sulla fronte” le disse la seconda moglie “non te la prendere con me”.
“Ci sono cose che non vanno bene, nel villaggio” si limitò a dire il vecchio, come attraversato da un fulmine di presentimenti, prima di prendere la via dello shamba.
Camminando, collegava alcuni avvenimenti e rifletteva.
Il figlio Ndoro, la sera prima era tornato ubriaco.
Non era una novità, ma una battaglia persa. Ndoro beveva mnazi oltre il dovuto ormai da anni, da quando aveva perso il lavoro e una mano negli ingranaggi di una macchina per fabbricare assi di legno. Una distrazione, disse il suo capo muhindi, non un difetto della macchina. Probabilmente era andata così. Ndoro si distraeva spesso: un pettegolezzo del collega, lo sguardo della mama che arrivava con le patate dolci, una bicicletta con il sellino inedito.
Con diecimila scellini era stato liquidato, ma la mano non gliel'aveva restituita nessuno, e nemmeno il lavoro. Altro che pensione di invalidità, il mnazi era diventato la sua religione.
Ndoro aveva due figli, Kokoto e Veronique. Quando tornava ubriaco a casa, si infilava nel loro letto. Kokoto si divincolava e andava a dormire con Kibebe, lo scemo, sotto al grande baobab.
La piccola Veronique, dieci anni, non riusciva a sfuggire dalla morsa del padre.
Accadeva più o meno una volta alla settimana.
Nel villaggio la voce aveva iniziato a circolare, ma nessuno aveva mai voglia di affrontare l'argomento e nonno Kazungu, tornato da poco a Kakoneni dopo aver passato quasi mezzo secolo a Malindi, al servizio di villeggianti, non riusciva a rompere quel muro d'omertà più duro del cemento con cui era stato costruito il Safari Bar.
Kokoto aveva provato anche a farsi annettere all'orfanotrofio di Ganda, ma gli avevano detto che lui una famiglia ce l'aveva, e poi non era di Ganda. Un giorno però era passata una ragazza mzunga accompagnata da un giovane kikuyu, avevano fatto alcune domande alla moglie di Ndoro. I bambini erano a scuola, il figlio di Kazungu chissà in quale chiosco a perdersi.
Ecco dove aveva visto quella ragazza.
Era la stessa che era scesa da quella grande macchina bianca all'alba.
“Questo non ha nulla a che fare con Malindi – pensò il vecchio – questi italiani non sono qui in vacanza e non vogliono fare beneficenza”.
Se ne andò al Safari Bar.
Il barista Kibonge si era alzato da poco e stava finendo di pulire con uno strofinaccio consunto i tavolini di fòrmica. Cantava una canzone che aveva ascoltato la sera prima su Mtv. Una canzone di Beyoncé latrata come farebbe Adriano Pappalardo se fosse nato a Matsangoni.
“Mzee, che piacere vederti in giro a quest'ora...accendo la televisione?”
“Lascia stare, Kibonge”
“Cosa è successo?”
“Hai visto quei fuoristrada?”
“Già. Belle ruote. Solidarietà muzunga anche per noi di Kakoneni?”
“Non credo”
“La chiesa?”
“No. E nemmeno un nuovo ospedale, ne sono quasi certo”
“E allora chi sono? Basta che non facciano un altro bar...”
“Sono Wazungu che hanno capito qualcosa di diverso”.
“Diverso?”
Kibonge aveva quattro figli, tre maschi e una femmina. Ma non li vedeva quasi mai, da tempo erano parcheggiati nel villaggio dei genitori, al di là del fiume Sabaki.
“Come cresce la tua bambina?”
“Bene, credo. Mi costa una fortuna farla studiare”
“Quanti anni ha?”
“Undici. Perchè queste domande, mzee?”
“Noi non vediamo l'ora che i nostri figli siano grandi, facciamo di tutto perchè lo diventino il più presto possibile.”
“Effettivamente siamo i più lenti in questo...i cuccioli di elefante ad esempio...”
“Lascia perdere, Kibonge. Dammi una fanta tiepida, per favore”.
Il pomeriggio lo Svaporato, il figlio del suo ultimo datore di lavoro mzungu, era arrivato al villaggio per portare medicine e taniche di olio usato recuperato da alcuni alberghi.
Aveva mangiato kassava fritta con il vecchio e gli aveva spiegato a chi appartenevano i fuoristrada del mattino.
Se lo aspettava.
“E' in atto una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi sessuali ai minori, da parte di alcune associazioni keniote e italiane – spiegò il mzungu – un lavoro svolto contemporaneamente nei vostri villaggi e nei luoghi frequentati dagli stranieri”.
“Cosa vogliono ottenere?” chiese Kazungu, che stentava a trovare un nesso tra la follia di Ndoro e le tentazioni dei turisti della costa.
“In Italia hanno scritto cose assurde sugli italiani – disse lo Svaporato – dicono che andiamo nei villaggi e prendiamo bambini e bambine, poi ce le portiamo nelle ville e le violentiamo, che la comunità di residenti accoglie interi charter di pedofili e gli vendono le ragazzine”.
Nonno Kazungu stava per mettersi a ridere, ma capì che il suo amico diceva sul serio, ne uscì una smorfia agrodolce.
“Ma che storie sono queste! In tanti anni non ho mai visto cose simili...italiani che comprano le bambine e le rivendono? La tratta degli schiavi è finita duecento anni fa! Certo, la costa è sempre stata piena di malaya giovani, ragazzine scappate da casa, specialmente dal nord del Paese. Ma noi giriama non venderemo mai nostra figlia per soddisfare le voglie di un mzungu. Un conto è se la vuole sposare. Anche noi paghiamo, per prendere moglie. Deve scappare da casa, se vuole fare una vita del genere. Le bambine poi, ma come si fa...”.
“Per i soldi si farebbe di tutto...” disse sconsolato lo Svaporato, che conosceva le squallide abitudini di alcuni suoi connazionali ma anche gli ancestrali richiami della popolazione locale.
Il vecchio si alzò in piedi.
Non sapeva con chi prendersela ma aveva capito che bisognava agire.
“Andiamo”.
Kazungu gli si mise di fianco e lo fece entrare per primo al Safari Bar.
Lui si fermò, come per lasciare quella conversazione poco piacevole fuori da un luogo di culto.
“E' vero quel che dici, mzee – lo apostrofò lo Svaporato - ma è vero anche che c'è qualcosa che non va, da queste parti, come nel resto del mondo. Molte di quelle ragazzine hanno subito abusi e violenze in ambito familiare, prima di concedersi agli wazungu. Il problema ce l'avete in casa vostra, prima che con gli ospiti. Non centra Malindi, è qualcosa che ha a che fare con la cultura africana, che assomiglia a quella italiana di tanti anni fa”.
Kazungu, entrando, si rese conto che in quel momento stava facendo un distinguo tra la violenza “retribuita” di un bianco, che gli appariva come un crimine, come l'ennesimo sfruttamento di quelli che in fondo erano dei “colonizzatori buoni” e quella probabile, terribile, atavica consumata tra le mura domestiche da suo figlio e chissà da quanti altri padri e fratelli snaturati.
Rabbrividì.
Lo Svaporato lo vide cambiare espressione (colore era impossibile...) e provò con una Tusker.
“No, grazie. Il tuo discorso mi ha dato da pensare”
Uscì di nuovo sulla soglia del bar, come gli mancasse l'aria. Vide le capanne del suo villaggio ed ebbe un leggero capogiro. Vide stupri consumati senza violenza in ogni letto di ragazzine e ragazzini, vide famigliole felici la domenica fuori dalla chiesa ed esaminò gli sguardi di tutte le Veronique di Kakoneni. Cosa c'era di normale in quello che accadeva da sempre? Come mai tutto d'un tratto si rendeva conto che il male si nascondeva ovunque, anche in una povera, tranquilla comunità rurale a cento chilometri da Malindi?
Lo Svaporato lo raggiunse sospettoso, gli lesse gli occhi e si accese una delle sue rare sigarette.
“Amo la libertà dell'Africa, lo sai – disse – e anche le regole a volte crudeli ma immutabili del regno degli animali. Ma noi siamo esseri umani, certe abitudini non devono fare parte del nostro vivere. C'è gente malata, Kazungu, che deve essere isolata e curata”.
Il vecchio recuperò un filo di voce. Si sentiva colpevole per ogni notte ubriaca di Ndoro.
“Cosa state facendo a Malindi?”
“Educhiamo i giovani, avvertiamo i turisti, cerchiamo quei pochi residenti che hanno la tentazione di vivere il Kenya da animali anche nelle loro deviazioni. Si chiama pedofilia, Kazungu. E noi la combattiamo”.
“Ma... le malaya?”
“E' un discorso complicato, mzee. Personalmente non voglio dover pensare che una ragazza maggiorenne offra il suo corpo a un ricco turista straniero solo e sempre perchè in passato è stata vittima di violenze. Voglio pensare che stia cercando di accasarsi il meglio possibile, che abbia imparato il significato della parola “reversibilità”, che sappia di poter rappresentare un piacevole diversivo e ricevere in cambio qualcosa che le serve. Le vedo spesso fare la coda alla Western Union con il gruzzoletto da mandare a casa, al nord. Soldini per mantenere la famiglia, una sorellina agli studi. A casa pensano che facciano la segretaria, che stiano lavorando nel turismo”.
“E invece molte di loro hanno subito violenze da piccole...”
“Proprio così, Kazungu. Una su tre, all'incirca. Odiano gli uomini, di qualunque razza siano. Bevono, non vogliono una relazione fissa, vivono alla giornata e si spendono tutti i denari guadagnati in poco tempo. Quelle sono le donne che non vorrei vedere, in giro la sera. Anime disperate che non credono di avere altra scelta, la cui sessualità è stata dilaniata molto tempo prima del mzungu”.
Il nonno prese per il braccio il suo nipote bianco e si diresse a passo di mulo verso la capanna di Ndoro.
Guardò il cielo sopra il grande baobab. Due nuvole facevano a gara a rincorrersi, sembravano due adolescenti invaghiti del primo gioco d'amore. Ridere, saltare, cercarsi, tenersi per mano e nascondersi per farsi trovare. Correre, voltarsi, cadere e abbandonarsi sfiniti su un prato.
“Le cose cambieranno – sussurrò, riportando lo sguardo all'altezza delle cose terrene – dobbiamo fare qualcosa. E lo faremo”.
“Lo stiamo già facendo, nonno!”
Dicembre 2008: A Malindi Unicef, Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e l'associazione di imprenditori e operatori turistici italiani MWTWG intraprendono un percorso comune di prevenzione e sensibilizzazione contro gli abusi ai minori e per la tutela dei bambini e lanciano la campagna "MALINDI PROTEGGE I BAMBINI".
E' la prima volta in assoluto, non solo in Africa, che organizzazioni non governative che operano nel sociale e il mondo del turismo si uniscono per combattere la pedofilia.
1 commento:
bella storia, e speriamo che cambino davvero le cose. Un abbraccio.
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