mercoledì 19 agosto 2009
GLI ALBUM DEL DECENNIO: STEELY DAN "EVERYTHING MUST GO"
Non c’è regola che assicuri che facendo le cose con ponderatezza, lentamente, pensandoci e ripensandoci, limando e correggendo in corsa, controllando i minimi particolari, il prodotto finale sia migliore. E facile accorgersene quando si cucina uno spaghetto aglio, olio e peperoncino in venti secondi e ce lo si ricorda per tutta una vita, ma anche una torta estemporanea fatta, libro alla mano, per dimenticare un grande amore e venuta meglio di quelle della nonna.
Devono avere pensato a questo e mangiato la torta anche Donald Fagen e Walter Becker, al secolo Steely Dan. Il più raffinato, jazzato, complicato, innovativo gruppo pop-rock americano di sempre, si ripresenta a tre soli anni di distanza dal precedente album “Two against nature” e a trentuno dalla loro nascita artistica, con il pregevole “Everything must go”. Il fatto sorprendente è che prima di “Two against nature” erano passati vent’anni di silenzio, intervallati da due spettacolari dischi di Fagen (il culto “The Nightfly” e il più recente “Kamakiriad”) e uno tosto di Becker (“11 tracks of whack”, con interventi dello stesso amico tastierista). Il parto difficile del precedente album aveva fatto pensare a un sublime canto del cigno, a una reunion tra vecchi compagni o al massimo un episodio che si sarebbe potuto ripetere non prima di altri dieci anni. Invece subito dopo la tournée 2001 la coppia si è messa al lavoro e ha scritto altre canzoni, recuperando questa volta lo spirito di album scorrevoli come “Can’t buy a thrill”, i suoni che negli anni Settanta facevano gridare al miracolo (ascoltate oggi Aja e chiedevi se può essere un disco di venticinque anni fa) e che oggi vanno ancora per la maggiore, a giudicare dal successo dei vari Ben Harper e Lenny Kravitz. Senza stare a pensarci troppo sopra, hanno confezionato nove brani che sono soprattutto melodie, strofe e ritornelli, blues e funky, prima ancora che prodotti dai suoni ineccepibili e partiture esemplari. Nove pezzi facili alla loro maniera, perché la divertente “Blues beach”, che per loro è una canzonetta scritta alle Hawai, sarebbe già un punto d’arrivo per decine di buone band americane che scimmiottano i Toto o gli Eagles. Le atmosfere patinate di Aja tornano in maniera più leggera in “Slang of ages”, in cui c’è un’agilità di fondo che permette ai cori stile “Gaucho” e al sax che ricorda i tempi di “Doctor Wu” di appoggiarsi senza appesantire. C’è profumo di jazz e di continuità in Pixeleen che conferma l’esistenza di un marchio di fabbrica Steely Dan, dato non solo dai saliscendi della voce di Donald Fagen, assimilabile per equilibrismo soltanto a quella di Joe Jackson. E Pixeleen in qualcosa ricorda un brano del lungagnone inglese, altro geniaccio in grado di passare dal jazz al punk, al rocksteady alla musica classica contemporanea. Fagen e Becker invece rimangono nel loro seminato, un campo delle meraviglie in cui niente viene lasciato al caso ma dove ogni cosa ha imparato a farsi da sé, a partire dal team di musicisti scelti, sempre gli stessi conm ottime individualità, ma nessun fenomeno come in passato (da Lenny Carlton a Peter Erskine). Lunch with Gina è anche volutamente sporchina e Hugh McCracken si ricorda che sta suonando con quelli di “The Royal scam”. Si chiude con il brano che titola il tutto e che ne è un po’ la legenda, spruzzata jazz. Insomma, gli ex ragazzi che amavano Borroughs e John Coltrane sono vivi più che mai e sanno fare anche le cose “di fretta”, perché la classe non è acqua, ma nemmeno per forza brandy invecchiato nelle botti di rovere. Se, dicono loro, “tutto quanto deve passare”, questo disco resta e si aggiunge ai capolavori di una carriera che non accenna a fermarsi ne ad avere cadute di stile. Ecco un altro album da assaporare, assimilare e non dimenticare.
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