E poi c’è chi dice che la vita è uno schifo, che è tutta una presa in giro.
Sbagliato: semmai è il genere umano che sta rovinando tutto e così come cresce la netta distinzione tra ricchi e poveri, avidi e miti, così è più marcata la differenza tra chi vive ancora di passioni, del potere dei sentimenti e chi invece cavalca un realismo eccessivo che fa presto a degenerare in disfattismo, nichilismo e distacco da tutto ciò che è umano.
La vita, se la sai riconoscere, ti può addirittura svelare il suo significato, ed è capace di farlo in un giorno solo, nel ristretto giro di lancette di un orologio. Ma forse lo fa solo con chi ne ha accettato le regole e ne sa scernere il buono.
Gente bizzarra, inutile, anacronistica a questo mondo. Ma gente che, pur appartenendo a una minoranza (o proprio perché appartiene a una minoranza, ecco uno dei paradossi dell’umana condizione) non sarà mai sola.
Questa è la storia della vita che si rivela in un solo giorno e ti dice che fai bene ad amare, a vivere perennemente in bilico seguendo il battito pazzo del tuo cuore e le impennate fantastiche del tuo cervello e a non dileggiare mai il sogno. Gli incalliti detrattori del vivere di pulsioni e intenzioni,
di istanze e sogni, potranno non credere che più volte nella vita di un solo uomo ci siano simili intrecci, che i valori per cui vive lo vengano a cercare specialmente possono andare a braccetto anche tra di loro.
Non ho inciampato nell’esistenza di un altro uomo o donna, non ho diviso il destino con un personaggio famoso o con un parente stretto. Io da sempre ho legato gli avvenimenti più belli o più tragici della mia vita con il Genoa.
Non l’ho quasi mai fatto apposta.
E’ successo così.
Michela aspetta un figlio, come tutte le donne che hanno deciso di procreare, da quasi nove mesi.
Il termine è fissato per il 5 febbraio. E’ stata una gravidanza tranquilla e Michela è una donna ottimista e a suo modo coraggiosa. Ha deciso di partorire in Africa, benché nella sua breve vita abbia visto soltanto quella che l’uomo è solito chiamare “civiltà”.
La pancia di Michela dice che sarà una bimba, il grifone tatuato sulla schiena e quello tatuato nel cuore di suo marito, dicono che di secondo nome si chiamerà Zena.
In arabo significa “perfetta, raffinata”. Praticamente, la Superba. La mia Genova, quella dei vicoli stretti che ti allargano gli orizzonti guardando l'umana condizione dal basso, quella delle creuze che si lanciano verso il mare, quella di Faber e dei nostri fratelli.
Di primo nome sarà Agata.
Così ha scelto Michela.
Io e lei ci siamo sposati il 3 dicembre, un matrimonio tutto rossoblu in Africa. Tre giorni dopo El Principe ci fece il regalo di nozze che avevamo chiesto. Il gol vincente sotto la Nord nel derby.
Chissà cos’ha in mente il Destino, questa volta.
Ho parlato tanto con Agata, via pancia. Le ho chiesto gentilmente di non nascere di domenica pomeriggio.
L’uno c’è Genoa-Palermo, l’otto Roma-Genoa…
E’ tutto programmato: giovedì 29 gennaio, trasferimento da Malindi a Mombasa (120 km di strada africana) in albergo per attendere serenamente il momento.
Mercoledì 28 gennaio, turno infrasettimanale di campionato: Milan-Genoa.
Mercoledì 28 gennaio, sei del mattino: Agata Zena vuole esserci.
Mercoledì 28 gennaio. E’ colpa mia, non avevo detto ad Agata Zena del turno infrasettimanale.
Michela mi sveglia di soprassalto “Mi si sono rotte le acque”.
“Ss…sei sicura?”
La domanda è idiota. Il letto è un lago, lei è già una madre.
Sa cosa fare, come agire.
Prepara la borsa con le sue cose. Mi dice “chiama il gineocologo”.
Il ginecologo è indiano, è più che altro uno psicologo sta a Mombasa e gli attestati nel suo studio spiegano che è ostetrico e chirurgo. Sospetto che sia anche osteopata e logopedista, manicure e massoterapista nei giorni festivi.
Dall’alto della sua esperienza, scandisce che ci dovrebbe essere tempo a sufficienza per arrivare a Mombasa, da Malindi.
La sua capacità di convincimento e la visione della clinica Tawfiq di Malindi, che si chiama come la nostra macelleria di fiducia, sublimano nella certezza che bisogna sbrigarsi.
La strada da Malindi a Mombasa è meravigliosa.
Attraversa ritagli di foreste, distese di sisal, colline tempestate di baobab e annunci di savana dove la terra rossa d’argilla si confonde con il verde delle piante tropicali, dove la profondità del cielo costringe le nuvole a inventare sfondi credibili per tale meraviglia. E’ una strada splendida, se non la devi percorrere con l’ansia di dover tirare fuori tua figlia dal ventre materno nel mezzo dell’Africa equatoriale.
Le contrazioni cominciano in coincidenza con il sorpasso di un autoarticolato targato Tanzania che sputa pietre sull’asfalto già caldo del primo mattino. Siamo a metà strada e corro veloce. Non riesco a pensare a quel che sta succedendo, mi manca un caffè, forse. Mi concentro alla guida immaginando la formazione che Gasperini manderà in campo a San Siro. Nella partita che forse non riuscirò a vedere. Agata, solo Agata importa in questo momento.
Il Grifone gioca anche senza di me. Lo ha fatto tante volte: quando ebbi l’incidente d’auto e sprofondammo in C, quando non trovai la coincidenza da Nairobi a Liverpool e anche in qualche occasione felice.
Michela inspira profondamente e cerca conforto nel blu del cielo che ti attraversa, nell’aria densa che puoi toccare. Io mi vedo già estrarre la pupetta all’ombra di un baobab, circondato da bambini festanti e mamme che mi offrono latte di cocco per detergere Agata e sciacquare la sua mamma.
Invece arriviamo nel traffico islamico di Mombasa. Tieni duro Miky, ci siamo.
Infatti ci siamo. Dopo aver dribblato i mkokoteni, carretti carichi di patate o carbone trainati da uomini-buoi sudati e ingobbiti, che riescono con predisposizione così poco odierna anche a sorriderti, ci siamo. Dopo aver rischiato di tamponare i matatu, taxi collettivi inzuppati di persone, che inghiottono e sputano mamme colorate di parei, ragazzini vestiti come hip-hopper di Harlem e vecchi villani con galline in mano, ogni duecento metri, inventando le fermate in mezzo alla strada, sui marciapiedi e in testa coda senza preoccuparsi di chi sopraggiunge. Ci siamo.
Il Mombasa Hospital è una costruzione indiana tutta bianca sulla punta marina dell’isola di Mombasa, dove il canale di mare che la separa dalla terraferma incontra la spuma dell’oceano che s’infrange sulla barriera corallina. Qui puoi sentire l’influsso della luna, il lessico privato e il linguaggio popolare dell’Oceano incontrarsi e divenire un solo idioma. Solo un canto della Nord mi fa stare bene come il mare, ma la Nord purtroppo non canta tutti i giorni ininterrottamente.
La stanza di Miky è a pian terreno e sembra la suite di un hotel ai tropici.
A quindici metri c’è lo spettacolo blu più bello del mondo. Se non fai caso (e in Africa non devi farci caso) ai muri scrostati, alle piastrelle anni settanta, alla polvere sul davanzale e a un attendente che si toglie un topazio dal naso mentre saluta riverente al nostro passaggio in corridoio, sembra di stare in paradiso.
Pochi minuti dopo per Miky si aprono le porte dell’inferno del travaglio. Quattro ore di dolori che il cuore di un marito grande e grosso non può sopportare. Le danno un’enorme palla di gomma, come quelle che impazzavano vent’anni fa, sulle quali i bimbi diventavano canguri da rodeo.
Quando ha le contrazioni deve saltarci sopra e nei momenti di quiete tra una doglia e l’altra deve roteare come stesse rimestando un gran paiolo col sedere.
Il ginecologo ostetrico chirurgo psicologo parrucchiere di fiducia è un arcangelo indù. Infonde calma come un tè masala, predispone la sala parto e alle 13.30 Michela, esausta, entra.
Non c’è sala d’aspetto davanti alla sala parto, che in inglese si chiama “teatro”. Abbiamo dimenticato troppo in fretta quale incredibile spettacolo sia la vita, fin dal concepimento. Una rappresentazione che ha in se tutti gli stilemi della commedia e del dramma, di un’epica, grottesca, appassionante, a volte cruda e spietata opera le cui repliche quotidiane non dovrebbero mai essere uguali e men che meno noiose. Qui in Africa si vive alla giornata ed è un modo forse estremo di chiudere ogni rappresentazione con un finale che non preveda un seguito. Il prossimo episodio sarà una nuova alba, una nuova corsa, una nuova esperienza.
Mentre Michela entra in barella nel teatro per la “prima” di Agata Zena, penso che il suo primo respiro sarà puro e libero, sarà d’Africa e che farò di tutto perché lo rimanga più a lungo possibile, fino a quando lei amerà questo spettacolo. Ricerco emozioni così grandi, mi rivedo ragazzo, il primo amore, i concerti. Niente. Qualcosa di rossoblu mi ha fatto battere il cuore forte, ma non mi ha mai reso così vulnerabile, così nudo agli occhi della mia stessa vita.
Non c’è una sedia, la sala d’aspetto sono cinque gradini che portano in mare. Proprio così, una porta a vetri sempre aperta e davanti l’oceano.
E’ lì che me ne sto per più di mezzora. Quel che mi passa per la testa è un’altra storia, un romanzo intero, un’altra vita. Anzi, tre vite: la mia, quella di Agata e quella di sua madre.
Il mare da sempre sa come placarmi. Ho imparato a vivere presto senza i genitori, senza città, senza fedi politiche piantate nel petto come una fatica. Riesco a stare senza il mio stadio rosso e blu, senza gli spettacolo e le tournée, da poco senza le sigarette. Ma al mare non potrei mai rinunciare. E’ la mia cura, il mio psicofarmaco perfetto.
Mi dice tutto lui e quando non ce la fa più a raccontare e si placa, arriva lo psicologo travestito da chirurgo con l’aria da ostetrico. Ha lo sguardo da hostess della Kathai Pacific. Sulle prime penso mi voglia fare una messa in piega o lo smalto alle unghie dei piedi. In realtà mi ha guardato in faccia e ha capito che oggi nemmeno l’oceano indiano riesce a regolare i miei nervi con il lento ritmo della marea. “Non è ancora il momento, tra poco riproviamo” mi dice.
Michela sta soffrendo, lo sento.
Io e Acharya parliamo di politica, del Governo keniota, della corruzione, della bellezza dell’arcipelago di Lamu. Vorrei chiedergli se conosce il Genoa.
Poi un’ostetrica che sembra Ella Fitgerald lo chiama. Si riprova.
Agata nasce alle 14.24.
Me lo comunica un’infermiera dal sorriso di sole equatoriale, perpendicolare alle sue mani giunte che ringraziano il cielo. E’ stata dura, durissima. Michela e la bimba stanno bene.
Dopo dieci minuti qualcuno mi toglie dal mare. E’ un dottore indiano che pare faccia solo quello di mestiere, anche se giurerei di averlo visto dietro al bancone di un ferramenta a Nairobi.
Mi chiede se desidero vedere la neonata.
Lo desidero.
La prendo in braccio.
E’ bellissima. E’ mia, E’ nostra.
E’ Agata Zena.
Mi devo sedere. Sto per avere un mancamento. Le guardo la bocca, il naso, le orecchie, le minuscole dita una a una. Una forza che arriva dall’alto mi rimette in sesto.
Acharya dice che ci sono stati problemi, Michela è piena di punti, qui si usa ancora il forcipe quando il neonato non vuole uscire. Siamo negli anni Settanta, ma a me gli anni Settanta piacevano eccome! Agata ha ematomi in testa e la capoccia bislunga. Andrà a posto, ha detto il ginecologo dai mille mestieri.
Dopo un’ora possiamo abbracciarla entrambi.
Ora siamo una famiglia. Una bella famiglia davanti al mare d'Africa. Come ho sempre sognato.
Un’invisibile, misteriosa imbragatura di materiale non identificato, mi ha avvolto da quando ero seduto con in braccio Agata Zena. Ecco cos’era quella forza arrivata dall’alto. Mi ha donato un sorriso ebete.
Michela è sfinita, io ho l’imbragatura.
”Mi spiace non poter vedere la partita” dice con un filo di voce.
“Lo so, amore. E’ che oggi hai avuto parecchio da fare”
“Sì, sono molto stanca. Mandami i messaggini”.
Qualcuno ha prenotato l’albergo per me, grazie amici.
Cala la sera e lascio le mie donne che dormono, Agata è tornata nell’incubatrice.
Prendo la macchina e guido nel traffico islamico, il tramonto colora le moschee di luce irreale e per questo molto più sacra.
Ho soltanto la forza di fermarmi in un sushi pub vicino all’hotel, sulla riva dell’Oceano, a bere una birra.
Devo festeggiare, o no?
Chiedo al cameriere se alle 22.30 trasmettono il campionato italiano.
“Certo, mi dice, Milan-Genoa”. Prenoto un tavolo davanti alla televisione per le 22.
Il resto della serata, dopo una quarantina di telefonate intercontinentali, dovrebbe raccontarla uno dei tanti inglesi presenti nel pub. Musica industriale a volume altissimo e Rai Italia che trasmette la partita. Un uomo grasso che mangia sashimi con le mani e ha un sorriso ebete stampato in faccia. Qualcuno crede sia per il gol di Beckham. Ma il sorriso rimane anche quando nel secondo tempo il Genoa prende le redini dell’incontro, e sarebbe rimasto anche se il Milan ne avesse segnati altri nove. A cinque minuti dalla fine, però, quando si alza dallo sgabello, solleva il bicchiere dell’ennesima birra e urla: “AGATA ZENA! AGATA ZENA!”.
El Principe ha fatto il regalo anche a te.
Succede tutto in un giorno e nessun giorno si può cambiare con uno come questo. Agata Zena è nata a Mombasa il 28 gennaio 2009. Poche ore prima di una grande partita del Genoa.
Lei e i suoi genitori lo ricorderanno per tutta la vita.
2 commenti:
Quando l'ispirazione è tutto! Grandissimo Brod. Ma da papà quante te ne verranno, vecchio grifone incallito.
leggo solo ora e questo è il post + bello che abbia mai letto, fratellone... sì, tornerò presto a essere il tuo orgoglio... un abbraccio e a presto, perchè devo proprio vederla la vostra agata zena. samuzi
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