martedì 19 gennaio 2010

GABER, PER FORTUNA O PURTROPPO ERI UN GRANDE ITALIANO


Avendolo eletto personalmente come miglior autore del decennio scorso, per gli album "La mia generazione ha perso" e "Io non mi sento italiano", recupero la recensione dell'album postumo di Giorgio Gaber, scritta a suo tempo per il quotidiano "La Provincia". A sette anni dalla scomparsa, uno come lui mi manca tantissimo, molto più dell'Italia.

Per fortuna Gaber è stato un italiano. Si dice che al giorno d’oggi non servano nuovi slogan, ma gente che sappia urlare. Giorgio Gaberscik in arte Gaber fino all’ultimo è stato uno dei pochi uomini di pensiero del nostro paese che non hanno avuto bisogno di urlare, di apparire in televisione, di legarsi a una corrente o financo a un refolo d’aria per essere ascoltati. Una scelta snobistica? Forse, ma il successo (inaspettato) del penultimo album “La mia generazione ha perso” dimostrava che il cantautore che si è fermato a guardare le macerie umane di una sconfitta (la caduta dei Grandi Ideali) lo ha fatto senza la presunzione di chi da trent’anni ne cantava e recitava le crepe, i primi smottamenti ma con un ritrovato gusto per la poesia e la satira sociale. Da queste basi è nato “Io non mi sento italiano”, un disco forse minore rispetto al precedente ma denso di quella malinconia che Gaber si porta dietro dai tempi di “Dialogo tra un impegnato e un non so”, ma degno di stare in una discoteca intelligente. Contiene canzoni di pura critica ironica alle stupide o atroci abitudini della società (“C’è un’aria” che se la prende con i giornalisti) e afflati di speranza (“Se ci fosse un uomo”, con quel coro addirittura oratoriale) ma soprattutto la rabbia per l’egoismo e la superficialità umana, che supera quella per l’avvicinarsi della morte. L’album uscito postumo non è un “testamento”, come qualcuno si è affrettato a scrivere, ma la dimostrazione che il signor G. non ha mai smesso di guardare avanti, anche quando avanti a se avrebbe trovato l’Inevitabile. Ha semplicemente saltato l’ostacolo guardando sotto. E arrivare alla Consapevolezza cantando “Il tutto è falso”, non dev’essere il massimo dell’allegria (“questo è un mondo ti logora di dentro, ma non vedo come fare ad esser contro”), ma nella sua voce, nel minimalismo degli arrangiamenti sembra che sia un’esigenza dello spirito e non un nuovo bollettino Siae. Ma non ci si deve far influenzare dalla scomparsa del più grande attore di canzoni che l’Italia abbia mai avuto, a chi lo ha sempre tacciato di qualunquismo si può ricordare come sia comunque l’unico a fustigare il sistema usando un linguaggio mai banale e frasi che arrivano al cuore passando dal cervello, senza che strizzino l’occhio a qualsivoglia bandiera. Se questo è qualunquismo, come si diceva di lui vent’anni fa, ben venga. Okay, chi acquista un disco vuole anche musica, emozioni da cui farsi cullare. “Io non mi sento italiano” recupera due splendidi brani del passato, l’inno alla vita “Illogica allegria” e “Il dilemma”, attuale come lo è sempre l’amore. Si potrebbe dire che “Il corrotto” è un blues facilotto (ma divertente) e che la title-track risenta dell’amicizia con Celentano e Jannacci più che di quella con Hans Magnus Einzesberger e Beppe Grillo. Le cose più belle dell’album sono l’introspezione: “I mostri che abbiamo dentro” e il mesto consiglio “Non insegnate ai bambini”. Ecco in campo le emozioni tutte della vita: rabbia, allegria, amarezza, fastidio, sogno. E poi se non ci fosse stato Gaber, chi avrebbe cantato un tempo insipido come questo con passaggi come “la televisione... la si dovrebbe trattare in tutte le famiglie con lo stesso rispetto che è giusto avere per una lavastoviglie”. E se ci ostiniamo a cercare il qualunquismo in “Io non mi sento italiano”, troviamo più facilmente in fondo al nero, messaggi di speranza e di vita. Basti pensare a quel “per fortuna sono italiano” che dopo essere andato a braccetto col “purtroppo” per tutta la canzone, alla fine viene ripetuto due volte. O al finale del disco, che poi sono le ultime parole che ci è dato sentire da un grande maestro: “Con la certezza che in un futuro non lontano al centro della vita ci sia di nuovo l’uomo”.

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