martedì 23 agosto 2011
VIAGGIO NEL CUORE DEI MIJIKENDA
Sono qui di nuovo a raccontarvi di un popolo, di una cultura, della lotta pacata e dignitosa, ma disperata di un'etnia per conservare le proprie tradizioni e proteggere i saggi anziani.
Qualcuno, spinto dall’emotività scatenata dalla gravissima situazione del Corno D’Africa, mi ha detto in questi giorni che la cultura non si mangia, non disseta e non salva la vita. La prima obiezione che mi è uscita dalla bocca è: “se la generosità, l’umanità, l’intraprendenza del resto del mondo non riescono a salvare i propri simili che muoiono di fame e di sete, se la storia ci insegna che siamo sempre stati buoni ad imbandire tavole ben oltre il nostro appetito mentre altre persone crepavano o si scannavano per le briciole, permettetemi di provare, nel mio piccolissimo, ad andare alle radici della questione. L’ignoranza, da sempre, fa solo danni”.
Dite che l’ho presa troppo alla lontana? La verità è che io mi occupo di cultura, è il mio campo e mi viene spontaneo affidarmi a quest’arma. Ma è anche vero che, come in amore non c’è sottrazione ma solo addizione, così una filosofia, tradotta in pratica, non esclude l’altra.
A questo penso, mentre ci avviamo verso Bungale, profondo entroterra di Malindi. Un camion pieno di carboidrati e proteine, ci segue cigolante divorando polvere e orizzonte. La strada per Baricho, che si lascia il Galana River a sinistra, è sconnessa quanto basta. La sabbia bianca di vento e corallo dopo alcuni chilometri cede spazio alla rossa argilla che, in cromatico accordo con la natura, prende colorazioni sempre più violacee man mano che il terreno intorno s’inaridisce.
L’Africa è terra in cui le contraddizioni sono la regola. Baricho è il villaggio da cui proviene gran parte dell’acqua che scorre nelle tubature di Malindi. Grosse turbine, quando la società dell’acqua paga la bolletta dell’elettricità, filtrano il fiume Galana e lo sparano a valle.
Ci si aspetterebbe di entrare in una lussureggiante oasi, un “aquatic park” con microclima tropicale; invece qui regnano sassi e sterpaglie, formicai d’argilla e tronchi bruciati. Nella stagione più florida, dopo le grandi piogge, a Bungale è già arsura. Il giorno della Celebrazione però è un giorno di festa. Lo abbiamo fatto coincidere con una consegna di cibi raccolti attraverso malindikenya.net. Farina di mais e fagioli. Il centro culturale Mekatilili Wa Menza è la riproduzione di un antico villaggio giriama. Anzi, è quel villaggio. La comunità in cui viveva la “pasionaria” che osò sfidare l’Impero Britannico. Qui la gente sa. Mekatili fu arrestata una prima volta a Malindi. La liberarono i suoi fedeli compagni, guidati dal fido Wanje wa Madori. La seconda volta i governatori di Sua Maestà la deportarono in una sorta di campo di lavoro a cielo aperto, sulla strada per il lago Vittoria. Scappò pure dal lager e, a piedi, tornò a Bungale, per riorganizzare la resistenza. Qui morì, venerata dalla sua etnia, nel 1925. All’interno del villaggio, se escludi qualche telefonino e due paia di scarpe da ginnastica, siamo nel 1925.
L’avvocato Mwarandu è in piedi in mezzo a un cerchio formato da un centinaio di esponenti di spicco dei Mijikenda. C’è il figlio di Simba Wanje, il “leone di Kaya Fungo”, ultimo sovrano dell’etnia, quando ancora si usava eleggere un re tribale. E’ bardato con una sciarpa rossa in diagonale sul petto e indossa il copricapo di piume d’uccello ereditato dal padre. Ci sono i capotribù dei “mandamenti” di Ribe, Rabai e Jibana. Ad ognuno di loro viene lasciato spazio per presentarsi e ribadire la volontà di pace, di unità e di lotta per la causa comune della sopravvivenza culturale. C’è il giovane capo Duruma, arrivato dalla lontana Mazeras tra mille peripezie stradali. Infine, seduto sul “kihi”, lo sgabello tradizionale di legno, poco più grande di un barattolo, l’enorme Mzee Kahindi Jogolo. Il gallo, viene chiamato. Centocinquanta chili di voce roca, salute precaria e sguardo torvo. Ha preso le redini di Kaya Fungo, luogo sacro dell’etnia non lontano da Kaloleni, dove la regina Mepoho fece i suoi vaticini. Nel suo sprezzo per le novità, c’è la frustrazione di non essere diventato monarca triviale. Mwarandu mi presenta ai convitati. Spiega che ho un nome giriama, che non sono lì per caso o per turismo. Tra poco apriremo il sito internet makayakenya.com e girerò un video sulle celebrazioni annuali. Jogolo scuote la testa, ricorda quando una delle sue venti figlie prese un tedesco come marito e con riluttanza da il suo benestare. Sono il primo uomo bianco ad entrare nel mausoleo di Mekatilili durante la preghiera.
Senza scarpe e senza vestiti occidentali. Un khanga avvolto alla vita e la sciarpa al collo, come ogni uomo mijikenda. Leni, senza macchina fotografica e con l’hando prestato dall’amica Jumwa.
L’archivista John ci spiega che non si possono fare riprese o scatti al sepolcro dell’eroina giriama. Ai suoi tempi non c’erano questi marchingegni e fino a qualche anno fa da queste parti era abitudine credere che la fotografia rubasse l’anima delle persone e di conseguenza la possibilità di agire da antenati, dopo la morte. “Siamo convinti che se qualcuno immortalasse la tomba di Mekatilili, qualcosa di terribile potrebbe accadere ai giriama”. Rispettiamo, senza troppo violentarci. E’ già difficile raccontare l’atmosfera intorno al sepolcro. Gli anziani pregano, invocano Mekatilili. Mzee Katana Kalulu, uno dei più anziani “kaya elders” ha la voce rotta dall’emozione e il respiro, prendendo corpo nelle corde vocali, fatica ad uscire dai denti storti. Ognuno regala un pensiero alla sua Santa. “Sono tempi difficili, i giovani non ci seguono, la profezia di Mepoho si è avverata in pieno” spiegano a turno i capotribù, lanciando un augurio, una speranza, una richiesta di pace. Mama Kapucheche, un donnone che sembra l’Aretha Franklin mijikenda, guida il gruppo delle donne che escono dal sepolcro cantando, insieme a Tremalnaik, il giriama col turbante della tribù di Bamba, entroterra di Kilifi.
Le celebrazioni proseguono e la giornata andrà avanti come da copione con l’arrivo delle autorità provinciali e la distribuzione del cibo alla comunità del villaggio di cui abbiamo già raccontato. Più che parlarne e descrivere era importante esserci. E credetemi, più si riesce a vivere, meno viene da scriverne.
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