sabato 14 marzo 2009

NONNO KAZUNGU E LE RIFORME

Kakoneni era la solita oasi di pace.
Era una mattina “che più africana di così c’è solo nel Masai Mara”, come era solito dire Kadenge Davide. L’orchestra di suoni della natura si intrecciava con le partiture jazz del genere umano, così il frullo dei passerotti e il cinguettio dei tordi coronati s’intrecciava a meraviglia con gli acuti gridolini degli alunni della “Kakoneni Primary School” nella radura intorno all’edificio, il belante sax soprano delle caprette alla corda sembrava accordarsi perfettamente con il contrabbasso della sega a mano che mordeva il vecchio banano.
Nonno Kazungu, come un abile direttore della filarmonica più antica del mondo, agitava lentamente la pipa come fosse una bacchetta e ogni tanto se la riaccendeva.
La pipa era un lascito della sua lunga militanza con gli inglesi, prima di diventare maggiordomo di fiducia di tanti italiani di Malindi, un vezzo che lo differenziava da ogni altro vecchio saggio di quei luoghi e anche per questo Kazungu, pur non essendo uno stregone, veniva tenuto in grande considerazione e rispettato da tutti.
Il nipote Kadenge, detto Davide l’Italiano per via delle cinque mogli bianche e di altrettanti figli messi al mondo con loro, era tornato al villaggio per controllare i progressi dei lavori di costruzione della sua casa per la vecchiaia.
“Alla soglia dei quarant’anni è ora che ci pensi seriamente” lo aveva rimproverato il nonno.
“Ma io ci ho sempre pensato, questo terreno lo comprai con l’aiuto della seconda moglie…”
Tutto vero.
La prima era una ragazzina, conosciuta sulla spiaggia di un villaggio turistico e rimasta incinta per caso. Il matrimonio, in un grigio e freddo febbraio veneto, era stato imposto dai genitori di lei ma il giovane Kadenge aveva resistito pochi mesi nell’azienda del suocero, non senza sperimentare l’attrazione sulle segretarie e alcune amiche della suocera. Afflitto e trafitto al cuore dalla nostalgia, era tornato a Malindi inventandosi una malattia del nonno.
“In Italia dicono che così ti ho allungato la vita” cercò di giustificare la balla.
“Guarda che conosco anch’io le cavolate degli italiani, quello succede quando mi sogni morto…”
Epico fu il discorso del giovane beach-boy alla ragazzina che dopo qualche mese aveva fatto ritorno in Kenya per cercare di convincerlo:
“Vedi, Sabrina, questa è la mia terra. Niente mi fa più felice di una passeggiata sulla battigia quando la marea sta per risalire. Guardare le onde infrangersi sulla barriera corallina e ascoltarne la voce, seguire con gli occhi i disegni sempre diversi delle nuvole basse che sfiorano l’orizzonte. La mia vita è qui, abbi cura di mio figlio. Ti voglio bene”.
Kadenge non era un bastardo.
Gli assomigliava, ma non lo era.
Quando parlava era sincero e proprio per questo le conquistava tutte.
Alle femmine piace illudersi di avere trovato l’uomo ideale ma, alla resa dei conti con se stesse, sanno che si tratta di una chimera.
Proprio come i giochi delle nuvole quando si cammina sulla spiaggia.
Per un po’ le abbracci con lo sguardo e diventano ciò che vuoi tu, ti regalano sogni e prendono le forme della tua fantasia, ma alla fine ti accorgi che, per quanto candide e sinuose, rarefatte o gonfie di poesia, sono soltanto nuvole passeggere e nulla più.
Kadenge era una di quelle nuvole basse, in carne e muscoli, ma egli stesso sapeva plasmare le sue illusioni. Così bene che non lo si poteva mai biasimare, era come fosse parte della natura selvaggia dell’Africa.
E dalla Natura si accetta qualsiasi cosa.
La seconda, Mirella, invece sembrava già il grande amore e insieme avevano deciso di acquistare il terreno che nonno Kazungu aveva mostrato loro un giorno: non distante dalla strada, vicino alla chiesa ed esteso fino quasi ai confini del villaggio di famiglia. All’interno, due baobab secolari, decine di manghi, banani e un campo da seminare a grano grande mezzo acro.
Arrivò perfino un “architetto” indiano amico di lei, per gettare le fondamenta della casa, portò mattoni bianchi e pietre di corallo, sabbia finissima da cemento e barre di ferro per i muri portanti. Sarebbe stata la villetta più bella di Kakoneni, ma umile e senza fronzoli, nel rispetto della sua gente. Fu il padre, giunto dall’Italia come la furia di un uragano, a portarsela via quando già aspettava il frutto del loro amore. Gestivano un chiosco di frullati, l’uomo arrivò lì una mattina, mentre Mirella dormiva e cercò di corrompere Kadenge.
“Quanto vuoi per mia figlia?”
“In verità… dalle mie parti siamo noi che comperiamo le donne, ma non so se può portarsi sei capre e quattro vacche in aereo”
“Uè, alegher… ciapa minga per el cù… ti ho capito a te, fai il furbetti… vanno bene cinque?”
“Cinque vacche?”
“Cinque zucche, zulù!
Cinque testoni, cinque milioni…quanti scellini sono cinque milioni di lire?”
Kadenge fece il conto mentalmente, usando come unità di misura i plot di Kakoneni e le tariffe delle sue amiche Lulù e Janet.
“Tanti…”
“Allora io ti do cinque milioni se ti dimentichi di Mirella, che torna con me in Italia”
“Lei non vuole tornare in Italia, siamo innamorati e ci sposeremo”
“E se ti trovasse a letto con un’altra…”
“Come?!?”
“Ma sì, dai…un bel paio di corna prima delle nozze zulù”
Kadenge lo squadrò come la mangusta che guarda un serpente presuntuoso.
“Tieniti i tuoi soldi, papà”
“Dieci?”
“No”
“Quindici?”
“Nemmeno per cento”
L’aveva sparata grossa, se si fossero materializzati cento milioni di lire lì davanti si sarebbe sbriciolato come un biscotto al cocco (perché, cinquanta no?).
Ma non si materializzarono e gli parve d’essere prigioniero di un incubo con i sottotitoli in brianzolo.
“Alegher, negher…tanto vinco io…”
Vinse lui.
Chissà, forse Mirella aveva accettato i cento milioni.
Forse ne avrebbe ricevuti di più.
In realtà la ragazza aveva pensato all’avvenire di suo figlio e aveva ottenuto dal genitore di potersi dedicare a tempo pieno al ruolo di mamma, senza entrare nei quadri dirigenziali dell’impresa di famiglia.
Una decisione sofferta, dolorosa, ma resa meno amara dall’atto d’amore per la vita che covava in grembo e per il giovane gioiello d’ebano con cui l’aveva concepito.

Dalla terza moglie in poi, la casa non aveva registrato progressi. Erano state erette otto colonne ma due si erano rivelate storte ed erano state tirate giù. Poi la divertente parentesi di Lawrence Kamongo, il rappresentante di telefonini, che si era improvvisato costruttore (“anche gli italiani a Malindi hanno iniziato così: uno in Italia era parrucchiere e ha aperto un ristorante, un altro faceva il buttafuori ed è direttore d’albergo, un altro ha iniziato come maestro di tennis ed è il più importante costruttore di villette a schiera…”). Kamongo aveva preso in mano la conduzione dei lavori (“mi pagherai alla consegna…”) e nonno Kazungu era riuscito a fermarlo in tempo, prima che il sogno di Kadenge Davide si trasformasse in una cosa a metà tra un mausoleo nubiano e un hangar dell’aviazione eritrea.
Ora, con i proventi della campagna femminile di gennaio (in tempi di guerra e con l’età e la pancetta che avanzavano bisognava accontentarsi: nel carnet di carne anche due tedesche e un’ultrasessantenne tiratissima) aveva ripreso i lavori e veniva lui stesso a controllare due giorni alla settimana, con un giovane costruttore bergamasco, amico dello Svaporato. Uno spirito semplice, per cui il Kenya era soltanto un luogo selvaggio a novemila chilometri da Dalmine. Ci sarebbero voluti secoli a cementificarlo tutto!
“Ma voi la pagate l’Ici?” chiese il bergamasco a nonno Kazungu.
Per uno delle valli orobiche, magari ricevere uno sguardo di compassione da un “giriama” dell’Alto Galana può essere considerato anche motivo di vanto. In ogni caso, il sorriso abbelliva entrambi.
“Dopo vent’anni sono riuscito a pagare il titolo di proprietà del mio terreno, ma noi non siamo mai proprietari di nulla, tocca alla Natura pagare l’Ici…quel che abbiamo noi, e che avete anche voi, è una concessione per 99 anni, rinnovabile”
“Niente tasse sulla casa? Niente Ici?”
“Prova a fare causa a Madre Natura…”
Il bergamasco spiegava che con il ritorno al potere di Berlusconi, lo Stato Italiano avrebbe abolito alcune tasse sulla prima casa.
“Perché, quante case volete?”
“Ah, c’è chi ne ha anche venti!”
“Come gli arabi che costruiscono i condomini?”
“Esatto! E poi le affittano…”
“Ma qui non ci devono pagare le tasse…in Italia perché non le vendono e si tengono i soldi…”
“Perché sono un investimento…magari un giorno valgono di più…”
“Agli italiani piace giocare, al casinò e nella vita…al mondo occidentale piace perdere i soldi per poi rifarli e riperderli…altrimenti non si divertono”
Mentre Kadenge dava disposizioni al capomastro e urlava garbate bestemmie all’indirizzo dei kibarua che avevano approfittato di un suo attimo di distrazione per iniziare a murargli la finestra del bagno, si materializzò Kamongo, con l’aria di uno scienziato che aveva lavorato a lungo su un procedimento chimico che qualcuno, grazie a un colpo di fortuna, aveva trasformato in una formula vincente da premio Nobel.
“Viene bene…vedo che avete tenuto la mia concezione di spazio…”
“La parte esterna della veranda, dici? – disse Kazungu, poggiandogli una mano sulla spalla – sì, si potrà sempre andare sotto il baobab attraverso il prato…”
“Spiritoso…”
“Kamongo, lei paga le tasse?” interruppe il bergamasco, che evidentemente aveva un’ancestrale paranoia italica.
“Poca roba…ma adesso con le riforme cambia tutto…”
“In meglio?”
“Questo lo dirà la storia – sbuffò il rappresentante, sistemandosi la giacca – per me più è grande la coalizione, più fa male il suo bastone…”
“Fa anche rima!” disse Kibebe lo scemo, che nessuno aveva ancora notato, semi-seppellito sotto una montagna di sabbia da cemento.

(fine prima parte)

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