Mozambique, a luta continua, a luta continua, continua…
L’Africa ha una voce di donna.
E’ una voce forte come un’acacia secolare, profonda come le sue radici umili e intrecciate con coltelli e bastoni più volte sepolti e ripresi, intrise di sangue versato sulla terra.
Voce come uno strumento, che trasforma ogni partitura in una storia, la storia di un popolo.
Voce che evoca immagini, che racconta di viaggi, che protegge la memoria.
Voce che non sa e non vuole dimenticare, che parla ai vecchi con la dolcezza dei bambini e canta ai giovani con la solennità di un capofamiglia.
Una voce saggia, che sa farsi agile come brezza marina per rinfrescare popoli divorati dall’arsura, che diventa suadente per portare amore in terre consumate da ataviche rivalità, che chiede la pace con il tuono e istiga alla rivoluzione con la danza. Una voce che sa parlare al mondo intero e che per questo è stata bandita per tanti anni da casa propria, una voce sola capace di divenire coro, trascinante e pagano gospel che reclama un dio che si è sempre tenuto alla larga dal suo continente. Una voce che s’intona urlando contro i fascismi e comunismi, i dittatori e i capi tribù.
Perché l’Africa da sempre chiede una sola cosa: libertà. Dagli altri e da sé stessa e lo fa con la sua voce. E’ la voce delle donne che pregano con il linguaggio delle lacrime, della paura, che gridano il loro dolore per i figli scomparsi, imboscati, arruolati, uccisi. Per i mariti accusati, imprigionati, offesi a morte da leggi razziali o dai loro stessi fratelli.
In Angola, a luta continua, a luta continua, continua…
L’Africa ha una voce di donna. E’ una voce che sa farsi gioia e bellezza al primo raggio di sole, che intaglia melodie nell’ebano della foresta e fa a gara di solfeggio con le piogge monsoniche, la voce che ti accompagna per Soweto e ti dice di non avere paura, la voce che ti mette a letto quando c’è il coprifuoco, che ti lava la schiena dove non c’è acqua e ti da una ciotola di riso anche se ce n’è una sola per tutti. E’ la voce di colei che era tua madre prima che tua madre nascesse, la voce della Natura prima che l’uomo la ammutolisse, la voce dell’anima quando l’anima poteva parlare la sua lingua senza essere fraintesa, giudicata, accusata e poi discretamente messa da parte.
In Zimbabwe a luta continua, a luta continua, continua…
L’Africa avrà sempre una voce di donna. Perché qualcuno ha imparato a riconoscerne il suono, perché ogni Paese d’Africa ha cantato con lei nella propria lingua. Perchè puoi far risuonare quella voce in ogni villaggio di fango e foglie secche, in ogni collina verde e rigogliosa, per le vallate infinite e i deserti assolati, le foreste inospitali e le savane aride e immense, in riva all’oceano in tempesta e sugli altipiani silenziosi, nelle isole incantate e nelle città trafficate e violente.
Vorrei regalarla all’aria, amplificarla in quel cielo africano che ti trapassa, farla viaggiare sulle ali degli uccelli di stagione, sul corpo degli animali in transumanza. Vorrei donarla al monsone, agli alisei, al cascazi e al kusi.
Allora vedreste gli affamati del Burkina, gli agricoltori namibiani, i pastori ruandesi e i nomadi etiopi, gli uomini scimmia del Congo e i ranger tanzaniani, i pescatori malgasci e i guerrieri del Sudan.
Vedreste scaltri uomini d’affari di Lagos e Nairobi, politici corrotti di Johannesburg e Kinshasa, tassisti hutu e guardie masai.
Li vedreste tutti fermarsi per un istante. Voltarsi, tendere le orecchie e brancolare come in cerca di qualcuno, guardare in alto, poi intorno.
Potrà durare un attimo, ma sarà lo stesso attimo per tutti.
Non si può restare indifferenti alla voce della propria madre.
In Congo, in Somalia, in South Africa, in Sudan, in Mauritania, in Gambia, in Uganda… a luta continua, a luta continua, continua…
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