domenica 9 novembre 2008
RECENSIONE: MARCO CASTELLI "ARGOMENTI DI CONVERSAZIONE"
Questo è swing! Così si presenta Marco Castelli, da Fino Mornasco. Tre parole che, per fortuna, non sono “sole cuore amore” ma nemmeno versi astrusi e ardite metafore. Note che non cercano di arrivare dove non ci sia un sentiero già battuto, una strada sicura da percorrere in bicicletta senza mani sul manubrio, per ammirare meglio il panorama. Ed è proprio un belvedere, questo swing: giovane, appassionato, anche sudaticcio come certi fraintesi da birreria, dato che i tabarin non esistono più da tempo e al massimo li si può evocare. Il musicista e cantautore comasco esordisce con “Argomenti di conversazione”, dopo aver sorpreso anche i palati raffinati e meno inclini a giudicare bene gli epigoni al Festival della Musica di Mantova. Il rischio, quando si fa swing e si sporca la canzone d’autore con il jazz, è quello di evocare il grande vecchio avvocato d’Asti. Castelli ha il gran pregio di non vergognarsene, anzi, “Il naso di Paolo Conte” è l’ironica legenda dell’album: “un grosso naso viene a trovarmi/sopra il mio pianoforte/e poi s’infila in ogni nota” e anche una delle suite più personali. Il disco si apre come i suoi scoppiettanti concerti, con “Twistin’ man”, che più swing non si può (ma il Castelli riuscirebbe a trasformare in swing anche un carciofo, basta vedere cosa fa con “Tango di paese”). L’atmosfera è gaia e anni ‘30 senza ragnatele e manierismi. Ecco poi “Ancora vivo”, la canzone piaciuta a Mantova. Il primo Capossela fa capolino nella metrica da locomotiva sgangherata (coraggioso il gioco delle armonie vocali nel ritornello, quando ci si aspetterebbe che la risoluzione mirasse verso l’alto) ma è un lampo che tornerà soltanto nell’epilogo “Vernissage”. Il miglior Castelli tuttavia è quello nascosto: amaro e neorealista alla Tenco nella splendida “La tua giornata di lavoro”, sospeso tra sogno e realtà in “Miraggio #4” (laddove Conte regalava una doccia ai bagni diurni, lui offre una coperta termica alla sua amata). Certo, c’è tanto del naso-totem chiamato al pianoforte, nell’andatura da passista di “Lasciati amare”, nelle metafore sessual-ciclistiche di “Tandem” e “Il gregario della maglia rosa” e c’è anche il fratello Giorgio (della cui leggerezza amabile il finese sembra aver assorbito l’elisir) in “Assistente dello studio odontotecnico di Cantù”, ma c’è soprattutto una straordinaria e matura capacità di non prendersi mai troppo sul serio (“il poeta è poeta e non lo sa”) che distingue Castelli dagli epigoni presuntuosi che ammorbano l’etere. Maturità che, unità a qualche sbavatura perdonabile in un’opera prima (ma “Lasciam guardare queste cose ad un pubblico più adulto che sappia perdonare qualche errore di gioventù e ingenuità”), rende l’album davvero gradevole perché la sincerità, il garbo nel cantarla e il cuore alla julienne sui tasti del pianoforte con contorno di un’affiatata jazz-band, entrano dentro e, per un prodotto che non si può certo definire originalissimo, il risultato è doppiamente inaspettato e gradito. Così restano nel sangue per un po’, come un buon distillato di malto d’isola, canzoni serene, spregiudicate, allegre, ingenue, agrodolci, prese a nolo come a volte fa la vita con i sentimenti. Sarà per questo che nessuna delle tredici tracce odora di inutilità.
Alfredo del Curatolo
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