lunedì 13 ottobre 2008

NONNO KAZUNGU E LA CRISI ECONOMICA

Nonno Kazungu guardava il suo campo di pomodori.
I rossi riflessi dei frutti al sole regalavano alle sue cataratte lunghe scie d'aeroporto in Savana.
Da lì ogni sera decollavano i succulenti piatti di ugali a cui per niente al mondo avrebbe rinunciato. Ma che spaghetti, quali risotti del mzungu! Polenta, sugo di pomodoro e mchicha, o carne al sabato. Non era un autodifesa da poveri, non c'è mai stato bisogno di convincersi, tra giriama, che è meglio il cibo di sostentamento dell'arte culinaria del mondo evoluto. La “sima” è buona, punto e basta.
La sera prima al Safari Bar aveva ascoltato bene le parole della coppia di kikuyu che commenta le notizie del telegiornale alla KBC. Parlavano della crisi dei mercati finanziari e di Obama, un keniota che salverà l'umanità!
“Cosa c'è da salvare? Nemmeno il papa ce la farebbe...figuriamoci un africano” aveva commentato l'elettricista Makotsi.
“Forse dovrebbe tornare Gesù, a questo punto...” ridacchiava il barista Kibonge, stappando una Tusker fredda.
“Ma perchè – chiese il piccolo Kitsao, unico ragazzino a cui era concesso di stare sveglio fino alle sette per vedere le news – cosa c'è di tanto grave nel mondo? Non era peggio quando c'era la guerra in Iraq o quando c'erano gli scontri a Nakuru e Eldoret?”
Lawrence Kamongo scosse la testa. Quell'uomo era considerato l'uomo moderno, il pioniere della nuova era a Kakoneni perchè aveva capito prima degli altri quale sarebbe stato il mestiere del terzo millennio in Africa: rappresentante di telefonini cellulari.
“La situazione può diventare gravissima, piccolo Kitsao – disse Kamongo, lavorandosi il pizzetto – l'economia è in crisi, nessuno compera più niente perché ha paura che i soldi possano finire presto, così si produce meno e c'è meno lavoro per tutti”.
“Niente più telefonini?” lanciò Kibebe lo scemo al suo indirizzo, tanto che gli fece andare il blackcurrant di traverso.
“Niente più fuoristrada da polverone!” fece eco Charo.
“Niente più aiuti degli wazungu” aggiunse Kibonge, stappando una tusker temperatura ambiente.
Nonno Kazungu sorrise. C'erano i pro e i contro, gli pareva di capire, ma non riusciva a immaginare cosa sarebbe cambiato per la comunità rurale di Kakoneni nell'immediato.
I pomodori e la mchicha, il grano, l'acqua nei pozzi. Quel che aveva sempre regolato la vita da quelle parti non sarebbe cambiato. Il problema si sarebbe creato a Malindi, forse. Meno wazungu in vacanza, meno residenti a cui fare da giardinieri, da autisti, da maggiordomi per poi portare soldi a casa per mandare i figli a scuola o curare le mogli.
“Ma se in Italia è ancora peggio, chi ci vorrà tornare? Non succederà invece che arriveranno molti più wazungu?” pensò ad alta voce.
“Che ce ne facciamo dei bianchi poveri?” salto sù Makotsi.
In effetti i bianchi poveri erano considerati solo una seccatura, magari erano anche gente simpatica, di compagnia, ma nessuno credeva che preferissero la sima con fagioli a una bella pizza, il problema era che non avevano soldi per la pizza e venivano a scroccarti un piatto di polenta, fingendo che quello era amore per l'Africa.
Non si tratta di razzismo: lo Svaporato l'aveva già spiegato una volta alla truppa. La filosofia è semplicemente all'antitesi di quella del mondo occidentale.
“Se noi italiani nel nostro Paese incrociamo un nero, di primo acchito siamo convinti che sia povero. Se scopriamo che è benestante, ci viene da pensare che deve essere una persona colta e intelligente. Così fate voi africani: se v'imbattete in un bianco, credete subito si tratti di un ricco. Se invece vi rendete conto che è povero quasi come voi, lo considerate un imbecille. Come fa un mzungu, che viene da una terra dove tutti sono milionari, a non avere un soldo?”
Makotsi ricordava le parole dell'amico mzungu, e faceva sì con la testa.
“Non sono tutti così, però...” spiegò Kazungu, che ne aveva visti tanti, come il romano che voleva fare il tassista e aveva preso un sacco di botte dai “colleghi” africani, o il rapper che avrebbe voluto la pelle nera e viveva negli slum, ma dopo un po' i kenioti lo chiamavano mzungu e i bianchi “giriama”.
“Quasi tutti...” precisò Kamongo.
“E vengono a rubare i lavori più umili a noi” aggiunse preoccupato Charo.
“Invece di fare gli alberghi faranno i safari bar...” lamentò Kibonge, versandosi una tusker appena stappata.
Già, allora questo ci si doveva aspettare, con la crisi economica. Vedersi arrivare una marea di mzungu poveri con cui dividere i propri campi, la mchicha e la sima.
“Speriamo che la grande crisi dei mercati azionari non abbia ripercussioni sull'economia reale” blaterò il piccolo kitsao, con fastidioso accento kikuyu da telegiornale.
“Invece io ci spero!”
Per un attimo calò un silenzio di savana all'alba nel locale. Le teste si voltarono alla moviola e apparve all'uscio la sagoma inconfondibile di Kibebe lo scemo.
Kamongo fece un gestaccio con la mano, il nonno se la rideva e Kibonge stappo una tusker liberatoria.
“E perché?” sghignazzò Kamongo.
“Perchè la mchicha e i pomodori glieli venderemo noi, mica i cinesi come i tuoi telefonini!”
“Kibebe ha ragione” disse il nonno “questa è la nostra economia reale e fino a prova contraria ne siamo noi i padroni. Ci hanno tenuto a mchicha e pomodori per una vita, ora finalmente si accorgeranno quanto sono buoni...magari un po' più cari di una volta, ma moooolto buoni!”
La risata fu generale, roba che anche le jene dello Tsavo ne avrebbero parlato il giorno dopo.
Venite bianchi, venite alle porte della savana, nel paradiso dell'economia reale.

2 commenti:

Maurizio Pratelli ha detto...

Grandissimo, fratello!

Anonimo ha detto...

Il nonno ha sempre perle di saggezza da leggersi e rileggersi. Ciao, Paola.