venerdì 21 agosto 2009

AFRICA (come la vedono i cantautori italiani)

Io sono l'africa
perché anche l'Africa me l'hai insegnata tu
Alle falde del Kilimanjaro
tra i gelsomini dell’Africa buia
Viaggerai verso l'Africa
Africa stanca di mille promesse
Chiudi gli occhi e vai in Africa

Io sarò l'africa
e' forte l'Africa non fosse per il caldo
Spunta un vento d'Africa
Mustafà viene di Africa e qui soffia il vento d’Africa
L'ho raccontato al vento che ti porto in Africa
Africa terra di troppe risorse
Chiudi la porta e vai in Africa

Ti chiami Africa
fino alle sponde dell'Africa
nel continente nero
non siamo mica in Africa
Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca
Forse in Africa che importa
Africa gli altri ti sparano addosso
Gira i tacchi e vai in Africa

Cerco un po’ d’Africa in giardino tra l’oleandro e il baobab
Qualche volta sono gli alberi d'Africa a chiamare
Sempre nel cuore dell'Africa
ed era come un mal d'Africa
Così mi uccidi l’Africa
Africa la grande gabbia di libertà
Butta la chiave e vai in Africa

Per te ci vuole l’Africa di tam tam e zulù
dal nord al sud, dal Kenya al Kentucky
Vip in un limbo a Malindi
Rotary Club of Malindi
non era Africa, chissa’ la vecchia via del varieta’...
Africa si muore uniti in un fosso
Ma com'è bello il mare d'Africa stasera…Celestino


Scoprite voi gli autori di questi versi!!!

giovedì 20 agosto 2009

A MALINDI MANCA

Un motel a cinque stelle
Un maneggio con le stalle
Un negozio di abbigliamento in pelle (contrabbando, per le signore leopardate…s’intende)
Una fabbrica di caramelle (da vendere ai turisti che poi le regalano ai bambini così gli cariano tutti i pochi denti sani che hanno, tanto poi arrivano i dentisti volontari italiani che li curano)
Una fabbrica di dentiere
Un ristorante malese
Un ristorante tailandese
Un ristorante maltese (corto)
Un ristorante esquimese (no so… i prodotti surgelati non vanno tanto a malindi…)
Un ristorante aperto una volta al mese
Un ristorante che stia nelle spese
Una pescheria di lusso
Una rosticceria anche del casso
Un negozio di specialità gastronomiche friulane
Un negozio di computer
Un computer per ogni negozio
Una gioielleria come a Via Condotti
Un condotto che porti alla gioielleria (per svaligiarla)
Un mercatino equo-solidale
Ma anche un mercatino iniquo-bastardo
Un sarto antico
Un autolavaggio elettronico
Un autolavaggio di coscienza
Un carrozziere di Cosenza
Una gelateria yogurteria biologica
Un esperto di analisi logica
Una torrefazione
Un produttore di torrone
Una lavanderia a gettoni
Una lavasoldi automatica
Un ippodromo
Un elefodromo
Un giraffodromo
Un bocciodromo
Un salsodromo
Un rincoglionitodromo
Un minigolf
Un maxipareo
Un maxischermo
Un drive-in con le cameriere sui pattini
Un buon reparto di rianimazione per cameriere volate dai pattini
Un’enoteca
Un’emeroteca
Una cineteca
Un’unità cinofila
Un bioparco
Un biopresto (però abbiamo l’Omo…)
Una stazione della metropolitana
La metropolitana anche senza stazioni
Un chiosco dei giornali
Il blockbuster
Benetton
Stefanel
Conbipel
Sua sorel
Una sveglia in orario
Un orario


(La lista potrebbe continuare all’infinito, ma la verità è che malindi mancano ancora tante, troppe cose indispensabili a rendere tutto questo superfluo...)

mercoledì 19 agosto 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: STEELY DAN "EVERYTHING MUST GO"


Non c’è regola che assicuri che facendo le cose con ponderatezza, lentamente, pensandoci e ripensandoci, limando e correggendo in corsa, controllando i minimi particolari, il prodotto finale sia migliore. E facile accorgersene quando si cucina uno spaghetto aglio, olio e peperoncino in venti secondi e ce lo si ricorda per tutta una vita, ma anche una torta estemporanea fatta, libro alla mano, per dimenticare un grande amore e venuta meglio di quelle della nonna.
Devono avere pensato a questo e mangiato la torta anche Donald Fagen e Walter Becker, al secolo Steely Dan. Il più raffinato, jazzato, complicato, innovativo gruppo pop-rock americano di sempre, si ripresenta a tre soli anni di distanza dal precedente album “Two against nature” e a trentuno dalla loro nascita artistica, con il pregevole “Everything must go”. Il fatto sorprendente è che prima di “Two against nature” erano passati vent’anni di silenzio, intervallati da due spettacolari dischi di Fagen (il culto “The Nightfly” e il più recente “Kamakiriad”) e uno tosto di Becker (“11 tracks of whack”, con interventi dello stesso amico tastierista). Il parto difficile del precedente album aveva fatto pensare a un sublime canto del cigno, a una reunion tra vecchi compagni o al massimo un episodio che si sarebbe potuto ripetere non prima di altri dieci anni. Invece subito dopo la tournée 2001 la coppia si è messa al lavoro e ha scritto altre canzoni, recuperando questa volta lo spirito di album scorrevoli come “Can’t buy a thrill”, i suoni che negli anni Settanta facevano gridare al miracolo (ascoltate oggi Aja e chiedevi se può essere un disco di venticinque anni fa) e che oggi vanno ancora per la maggiore, a giudicare dal successo dei vari Ben Harper e Lenny Kravitz. Senza stare a pensarci troppo sopra, hanno confezionato nove brani che sono soprattutto melodie, strofe e ritornelli, blues e funky, prima ancora che prodotti dai suoni ineccepibili e partiture esemplari. Nove pezzi facili alla loro maniera, perché la divertente “Blues beach”, che per loro è una canzonetta scritta alle Hawai, sarebbe già un punto d’arrivo per decine di buone band americane che scimmiottano i Toto o gli Eagles. Le atmosfere patinate di Aja tornano in maniera più leggera in “Slang of ages”, in cui c’è un’agilità di fondo che permette ai cori stile “Gaucho” e al sax che ricorda i tempi di “Doctor Wu” di appoggiarsi senza appesantire. C’è profumo di jazz e di continuità in Pixeleen che conferma l’esistenza di un marchio di fabbrica Steely Dan, dato non solo dai saliscendi della voce di Donald Fagen, assimilabile per equilibrismo soltanto a quella di Joe Jackson. E Pixeleen in qualcosa ricorda un brano del lungagnone inglese, altro geniaccio in grado di passare dal jazz al punk, al rocksteady alla musica classica contemporanea. Fagen e Becker invece rimangono nel loro seminato, un campo delle meraviglie in cui niente viene lasciato al caso ma dove ogni cosa ha imparato a farsi da sé, a partire dal team di musicisti scelti, sempre gli stessi conm ottime individualità, ma nessun fenomeno come in passato (da Lenny Carlton a Peter Erskine). Lunch with Gina è anche volutamente sporchina e Hugh McCracken si ricorda che sta suonando con quelli di “The Royal scam”. Si chiude con il brano che titola il tutto e che ne è un po’ la legenda, spruzzata jazz. Insomma, gli ex ragazzi che amavano Borroughs e John Coltrane sono vivi più che mai e sanno fare anche le cose “di fretta”, perché la classe non è acqua, ma nemmeno per forza brandy invecchiato nelle botti di rovere. Se, dicono loro, “tutto quanto deve passare”, questo disco resta e si aggiunge ai capolavori di una carriera che non accenna a fermarsi ne ad avere cadute di stile. Ecco un altro album da assaporare, assimilare e non dimenticare.