mercoledì 9 luglio 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 6 - Sette pensieri brasiariani

Al primo gol ho pensato: “Meglio subito, così ci diamo una svegliata. Le docce fredde salutari sono quelle delle sette del mattino, quando ti risvegli dal sogno che ti ha reso invulnerabile, onnipotente e in odore di immortalità. Quelle di mezzanotte, dei minuti di recupero, servono solo per lenire i dolori, raffreddare inutili bollori o mitigare lo stato di ubriachezza. Ci siamo organizzati male, là dietro.
Un esercito strampalato in trincea senza il Caporal Maggiore.
Quel ricciolino strapagato di Enzo Avallone mi sta dimostrando che non è un leader.
Non urla, non da fiducia. Mai una volta che dica a Ficarra e a Fernando Sucre  di fare una benedetta diagonale, invece di giocare ala contro questi robot del cazzo.
Lo sceicco del PSG ha un gran fiuto per gli affari del calcio.
Chissà se gli garberebbe lo spaghetto allo scoglio di Forte dei Marmi in compagnia di Urby, Adry e Loty.
E che dire dell’altro capellone, l’Alighieri, che sembra capitato qui per caso, di ritorno dal settimo girone. Ok, ragazzi, anche senza il Trans e Chinesinho possiamo rimettere in piedi la gara. Ci sono ottanta minuti, un arbitro e due guardalinee. Purtroppo c’è anche Fred, lì davanti, e Hulk non riesce a diventare verde”.

Al secondo gol ho pensato: “Allora non abbiamo capito una beata fava! Questi corrono e si scambiano il pallone come facevamo noi con le figurine di Antonio Sciannimanico e Comunardo Niccolai.
Non sbagliano un passaggio, chiamano schemi come fossero l’uno il pastore tedesco dell’altro. “Herkommen, fuss, gib mir!”.
Gene Hackman in panca ha una faccia di muta cera come chi guarda da ultimo, l’ultima partita della sua carriera. Quello senza Trans e Cinesinho si cagava in mano da giorni.
Risatine contenute e riso in bianco, l’unico che aveva accesso alla sua stanza era il cardiologo.
A noi invece ci ha mandato una psicologa racchia che voleva convincerci del fatto che dovevamo far leva sul senso di colpa dell’Olocausto, ci guardava sempre tra l’adduttore e i genitali e alla fine ci ha pure chiesto l’autografo per i nipotini. Tatticamente abbiamo preparato questa partita come un cieco prepara una Saint Honoré.
In compenso fisicamente stiamo messi come Oliver Hardy in bicicletta inseguito dai gendarmi.
Il preparatore atletico per caricarci continuava a ripetere come una macchinetta che Hummels è alto 1.92 e pesa 90 chili. Gli alieni con la maglia del Flamengo corrono, triangolano, ci scartano.
Viene quasi da fare il tifo per loro. Un trentacinquenne autistico fa quel che vuole nella nostra area di rigore ed esulta quasi con una smorfia di disappunto. E’ il suo modo di godere, me lo disse a Roma una modella polacca. Ha battuto un record.
“Dai ragazzi, possiamo ancora recuperare”. Urla Gene.
Certo, possiamo ancora recuperare la nostra roba negli spogliatoi e andare in esilio in Suriname, prima che sia troppo tardi”.
Hulk è ancora alle prese con la trasformazione, ma al massimo gli esce un carta da zucchero.
Gene si risiede, ricomponendo il doppio mento.
Era meglio avere Gnocchi, in panchina, stasera.

Al terzo gol non ho già più voglia di pensare. E’ così evidente che siamo sulla spiaggia di Copacabana a palleggiare con le maracujas, che c’è poco da argomentare. Mancano culi e bikini, ma si sente lo sciabordio delle onde oceaniche, il brusio dei bagnanti, le urla disordinate dei bambini, le risate scomposte delle donne grasse. Il vento a sfogliare le riviste di pettegolezzi che paiono battiti d’ali.
Le nostre ali in campo che paiono personaggi dei fumetti.
E’ sempre più evidente a tutti che Bernard non abbia niente a che fare con Hulk, e che questo giro non avrebbe fatto bella figura nemmeno insieme a Zorro.
Fred dondola tra le armature prussiane stupito e svagato come uno studente di terza media in un museo medievale. Ha lo sguardo di Gianni Cavina e l’aplomb di Marco Predolin.
Hulk ha virato verso il color vinaccia.

Al quarto gol ho guardato questa gente. Non sono tutti ricchi, ma quasi. C’è un pensionato con i baffi e le sopracciglia di zucchero filato, gli occhi come canditi e la pelle di croccante. Sembra uscito dalla bancarella di un luna park. Stringe in mano una coppa rimet forse vinta al tirassegno. Piange come se gli avessero scippato l’ultimo desiderio. Ma senza violenza, che non ti puoi nemmeno incazzare.
Uno straniero, giovane aitante e biondo viene da te, ti omaggia di un sorriso di commiserazione, accarezza il croccante e ti leva la coppa rimet dalle mani con dolcezza.
“Dies ist mein, mein Herr”.
Le donne versano lacrime che per una volta non sanno di abusi, soprusi e gaslighting.
Piangono la disperazione di un tradimento solo lontanamente immaginato.
Ce l’avevano in gola dal Cile, questo magone atipico e  casalingo.
Un magone senza bacchettone e giogoni di prestigio.
Le lacrime impiastricciano le bandiere verdeoro dipinte sulle gote, gocciolano sulle magliette attillate firmate Neymar, fiottano sugli occhiali come nei facials di Rocco Siffredi alle finte segretarie.
Cerco di concentrarmi altrove, c’è qualche tedesco che esulta, canta e prenota un taxi, dieci minuti prima della fine, che lo porti diretto in albergo.
Penso allora ai sindacalisti di Rio che festeggeranno come per la firma di un contratto nazionale, ai disoccupati e alla brava gente che non ha mai imparato a vivere d’espedienti.
Sono loro ad essere tedeschi dentro questa sera. Brasiariani.
Perché ci credo poco che il balordo delle favelas sia contento. Anzi, gli sale una rabbia che nemmeno quando giocava a quindici anni in terza serie nel campo dell’oratorio di Sao Geraldo ed accoltellò l’arbitro per un calcio d’angolo non concesso. Intanto Gustavo e Fernandinho preferirebbero tamponare un Mercedes Scania con la loro Lamborghini, piuttosto che Kroos e Khedira a centrocampo. Oscar gioca da solo, attendendo la nomination come miglior attore non protagonista e Hulk ha finalmente assunto la colorazione marrone, e inizia ad odorare di concime organico.      
Al quinto gol mi sono alzato e ho applaudito.
In ogni battito dei palmi delle mani c’era un flashback, un fotogramma nitido di storia.
Mi sono assorto col pensiero della Weltanschauung, rivisto Goethe e salutato Kant e Adorno, mostrato il pugno a Marx e aperto la mano verso Hegel, ho regalato un broncio obliquo allo Sturm Und Drang, ammirato la geometrica incisività di Durer, i ritratti equestri di Franz Kruger, la morbida gommosità del maggiolone Wolkswagen, la copertura dell’osso sacro di Gisele Blundchen, che è pure brasiliana. Ho ascoltato il proto jazz di Johan Sebastian, il rock and roll di Beehetoven e la techno di Wagner, sfumando con le immagini di Fritz Lang e Wim Wenders con sottofondo industrial-pop degli Eisturzende Neubauten.
Ce l’ho messa tutta, stringendo le palpebre, ma quella scritta “Arbeicht Macht Frei” non se ne andava, nemmeno se mi concentravo su quel coglione di Beppekrillen o sul dubbio gusto della Bauhaus. 
No, non riuscirò mai a farmi piacere i tedeschi, anche se li sto applaudendo.
Non potrò mai perdonarli. Sono troppo prevedibili, anche nella loro superiorità.
Guardali lì adesso, guarda il grugno idiota, sprezzante e finto umile di Moeller, guarda come insistono con il pressing. Vorrei gridargli “Sitzen, Fuss!” ma non mi crederebbero. Come scrisse Gunther Grass, i tedeschi non sono mai troppo audaci per essere dispiaciuti.

Al sesto e al settimo gol, e alla bandiera in regalo ai bimbi tristi di Belo Horizonte, mi sono messo a ridere. Ho riso di gusto, senza timore di essere considerato pazzo, non come l’Oscar verdeoro, ma come l’Oskar del “Tamburo di latta”. Ho pensato alla figura di merda intergalattica, alle urla gutturali dei telecronisti, ai corsi e ricorsi storici, a chi invece di suicidarsi già stava cercando l’indirizzo della sorella di Fred a Minas Gerais, a Gene con il plaid scozzese sulle ginocchia che guarda la finale in televisione, a Enzo Avallone accolto a Parigi come a Genova abbiamo accolto Burdisso, a Fernando Sucre che per calmarsi mangerà una gallina cruda e farà le facce brutte per due ore davanti allo specchio, a Ficarra che strabuzzerà gli occhi all’offerta dei Vanzina per il nuovo cinepanettone.
A Hulk che inevitabilmente seccherà, annusato dai cani.
Come nella vita, c’è sempre un finale che ti aspetti ma che mai ti sarebbe venuto in mente quando tutto cominciò. Alla fine è come uscire da uno stadio, comunque sia andata, che le lacrime siano di commozione o di dolore, l’importante è prenderla con ironia, perché in ogni caso hai assistito a qualcosa di unico, e di irripetibile.

martedì 1 luglio 2014

I MONDIALI DI BECCIONI: 5 - Il grande maestro e la bellezza del volo

Cosa vuoi che ti racconti, Maestro?
Che non c’è più poesia nel mondo e allora vuoi che ne alberghi anche solo uno straccio nel fujibol?
Che oggi la gran gnocca dal corpo dorato non potrebbe più passarti davanti sulla spiaggia di Ipanema, perché davanti al tuo bar tabacchi che guarda caso si chiamava “Veloso” non c’è più il bagnasciuga, ma un muraglione di cemento alto come la presunzione di chi ce l’ha messo nel fuleco poco a poco?
E che se pure la bella Helò Pinheiro, lenta e sinuosa come il biondo Miguel, ti passasse davanti in un dolce dondolarsi verso il mare, non avrebbe lo sguardo pieno di grazia e perduto nella bellezza, ma fisso su un android di merda?
Maestro, tutta la bellezza del mondo che è solo nostra, è rimasta in un tempo passato via come quella ragazza che oggi cammina veloce senza dondolii, inseguendo chissà cosa.
Passato via come Veloso, come Diego, Thiago, Rodrigo e tutti quelli che ci hanno fatto sognare la bellezza ma non hanno avuto il tempo di sublimarla, Così ora è fossilizzata nei ricordi e se la troviamo, dobbiamo darle calore come si farebbe con un passerotto ferito, prenderla amorevolmente tra le mani e riportarla al volo.
Come dici?
Certo, sono d’accordo: la bellezza non è solo in ciò che noi consideriamo bello, non è voyeurismo fine a se stesso. A volte può essere inutile come il secondo dribbling di Fetfa, altre è inafferrabile come il pallone per De Ceglie o deve ancora sbocciare come il talento di Cofie.
Hai ragione, la bellezza è nella curiosità che ancora riusciamo a coltivare, nella fantasia che ci serve per digerire la realtà.
Ti dirò di più, oggi la bellezza è nella cultura che non è informazione, è nell’amore che non ha tempo né distanze, in quello che riusciamo a condividere con chi ci merita, Maestro. Niente di più.
E allora perché mi chiedi del mio Genoa e di questi mondiali?
Vogliamo fare i segaioli?
Questa te la regalo, Poeta, c’è un appassionato di Brasile che dice “segagrilli”.
Bella visione, vero? Peccato che non scrive più.
Per chi scriveva?
No, non per la Vanoni.
Per noi, per i livorosi.
Vabbè, te lo spiego un’altra volta.
Lo so, Maestro, la vita è l’arte dell’incontro e si può parlare anche di cose frivole o liberatorie, come la cessione a titolo definitivo di Eduardo alla Dinamo Zagabria.
La vita mica è tutta tristeza che mas ten fin, non è solo una galoppata inconcludente di Aleandro Rosi o la speranza che arrivi un nuovo pezzo di merda, magari con gli occhi a mandorla.
Ricordi quando ti chiamavano “Du Marones”?
Okay, lasciamo perdere. Che in questo siamo bravi.
D’altronde me l’hai insegnato tu che la vita è come certe donne, magari sono gran cagne, ma nella cornice di un letto, non c’è cosa più bella.
Piuttosto, hai visto?
Hanno lasciato a casa anche Francelino.
Aveva ragione la mamma.
In vino veritas.
Io sono ancora uno che gli dispiace, uno vecchia maniera.
Pensa che al gol del Papa greco mi sono alzato dal divano e ho fatto un siparietto come fossi intorno alla bandierina, anche se tifavo Costarica.
Anche in questi mondiali me la sono sentita addosso come l’umidità di Manaus la mia genoanità.
Era sulla traversa di Pinilla al 119° e in tutti i calci di rigore.
E ora siamo fuori, tutti noi rossoblu. Mi ero aggrappato addirittura a Behrami, a Van Den Borre infortunato. Cosa? Sì, lo so che c’è Palacio, ma lui sta con una delle favorite, non fa testo.
Parliamo del tuo Brasile?
Ma come avete meritato?
Ecco che salta fuori il cazzo di nazionalismo.
No, non è retorica.
Sì, è vero, anche a me è dispiaciuto per l’Italia.
Ma sotto sotto ero contento per Prandelli e per il blocco Juve.
Molto più che per Balotelli.
D’altronde l’Italia mica è il Genoa.
Lì nonostante Gaspartame e la dirigenza, non sorriderei mai a una retrocessione, o a un derby perso. Così come non applaudo certo alla plusvalenza di Sturaro e all’affare di aver sbolognato Gilardino che, l’ho sempre detto, è odioso come la statale Biella-Borgomanero alle 6 del mattino.
Ah, la vita genoana. Che è l’arte del ritorno. Quante volte è tornato Sculli? Speriamo sia finita qui. Che quest’anno mi sa che ci tocca Borriello.
E pensare che c’era uno che odiava le minestre riscaldate.
Quest’anno oltre alla soppressata calabrese decongelata, abbiamo avuto una bagna cauda da microonde in panchina, più il mattarello Cofie che è pronto a ripartire per altre premiate pasticcerie con cui progettare insieme future Saint Honoré.
Tornando a noi, Maestro, ammetterai che il tuo Brasile non solo non ha più poesia (ma quello era inevitabile), non ha più nemmeno il colore, il samba, la passione?
E’ una cazzo di Juventus dei mondiali. Il Grifone invece può anche essere svilito e intristito dal giocattolaio, ma quella è solo la sua proiezione terrena, il suo lato lavorativo.
Il Grifone della mia infanzia, e ormai della mia fantasia malata, per gli ottavi di finale era qui a San Paolo, nel Pernambuco, a Bahia e Recife.
Svolazzava sul campo della Nigeria con Emenike e Odemwingie e forse per colpa sua hanno annullato un gol per fuorigioco di mezzo millimetro. Era con l’Algeria, barbuto e fisicato sulla fascia di Mustafi, fino a quando ha retto.
Ora non gli è rimasto molto e ha paura, come ogni anno, di doversi rituffare nel calciomercato, per poi volare fino a Neustift per affezionarsi a chi prima del 31 agosto leverà il disturbo.
Segnalo già Tachsidis, che se piace a Zeman come minimo ha la testa di Breda e i piedi di Manicone, e Ragusa, che farà finta di fare il soldatino piemontese, ma fino a un certo punto.
No, non voglio tornare nella terra delle promesse, perché come dicevi tu “eu nao tenho nada a ver com isso”. Non abbiamo nulla a che spartire con questo mondo, eppure ci viviamo. Per la vita, non per il mondo. Dici che è per lo stesso motivo che continuiamo ad essere affezionati al Genoa anche se non abbiamo nulla a che spartire con questo calcio?
O forse perché ci basta il cuore degli scarsi greci, l’abnegazione degli algerini in ramadan, l’ingenuità degli ivoriani, la gioia stremata dei costaricani. Perché ci infiammiamo per lo scatto di Robben, un dribbling di Hazard, il volo di Van Persie contro la supponenza spagnola.
Allora sai che ti dico, Maestro? Basta con la nostalgia! Chega de saudade!
Resto qui (no, non qui con te su questa pietra fredda, non preoccuparti…) anche per i quarti di finale, anche se è rimasto solo il Costarica, e per giunta gioca contro l’unica squadra che vorrei campione del mondo.
Resto qui. Che ci torno a fare nell’Italia che ritorna alla sudditanza dei prestiti, degli escamotage fiscali per non sprofondare, che è un po’ come profumare la merda per poter dire che tra un anno annegheremo sì, ma nel Cointreau. Niente più Italia, giuro!
Da Sao Paulo andrò direttamente in Austria.
Come dici? E’ un escamotage anche questo?
E che ci posso fare, se sono legato a questi due colori che sono la poesia del passato, la fantasia dell’adolescenza, che sono insieme la speranza che non muore e l’istinto ancestrale di resistere, che identificano il sogno nitido di chi ci mescola il meglio della realtà, tanto da confonderla. Questo io chiamo volo del Grifone e so che ci faresti una canzone.
Eu sei que voi te amar.
Per questo amerò sempre il calcio lo amerò sempre, non tanto per il gioco e per il nostro mondo disperato, ma perché riesco ancora a veder volare il Grifone, anche se è un volo meno aggraziato, più frettoloso, di quelli che a volte è meglio non guardare giù. Anche se non sai più dove volare, perché si stanno vendendo anche il cielo.
Perché so che potrebbe accadere il peggio, ed è ormai il male minore che anche quest’anno dovrò dimenticare ogni volto che ho collegato alla maglia perché svanirà prima ancora di diventare un bel ricordo, che sto imparando a considerare i giocatori come numeri, come figurine, per non soffrire.
Che forse non andrò più al Tempio.
Io so che ti amerò sempre, Genoa.
E’ proprio come scrivevi tu, Maestro.

Io so che ti amerò
Per tutta la mia vita ti amerò
E in ogni lontananza ti amerò
E senza una speranza.
Io so che ti amerò
ed ogni mio pensiero è per dire a te
io so che ti amerò
Per tutta la mia vita
io so che piangerò
ad ogni nuova assenza piangerò
ma il tuo ritorno mi ripagherà
del male che l’assenza mi farà
io so che soffrirò
la pena senza fine che mi da
il desiderio di essere con te per tutta la mia vita.

NOTA: Il grande poeta, letterato e paroliere Vinicius de Moraes (1913-1980) è sepolto nel cimitero Sao Baptista di Sao Paulo. E’ autore di canzoni immortali quali “Garota de Ipanema”, “Chega de saudade”, “Eu sei que voi te amar” ed almeno altre 700.
Trovandosi nei paraggi, vale sempre la pena di fare una chiacchierata con lui.