martedì 31 dicembre 2013

LE CANZONI DEL CUORE DEL 2013

Anche quando esercitavo quotidianamente la professione di giornalista e soprattutto di critico musicale, ho sempre detestato compilare classifiche, graduatorie di merito o comunque segnalare il "miglior disco dell'anno" o "la più bella canzone d'amore" e altre puttanate simili. 
Resto convinto che nello stesso istante in cui vi dovessi sgranare un rosario di titoli, con la spocchia del grande intenditore, potrei essere colpito da una nuova melodia, un brano sconosciuto che di colpo mi entra nel cuore e non mi molla per i prossimi dieci anni. Alla stessa stregua, non sono mai stato un fanatico delle etichette: "questo è un gruppo pop-rock progressive", Bob Dylan è "folk-rock"...e quando fa blues? E nel "Live at Budokan" quasi tutto reggae? Per non parlare dei coglionazzi di adesso che tirano fuori delle robe che le nostre pippe di un tempo al confronto erano rispettosissime indicazioni. 
Ma io "tweet pop" "electrowave" e soprattutto "shoegaze" se ne possono andare affanculo insieme ai loro creatori. Possiamo discutere di tecnica, di suoni, di melodie, dei "treni" ritmici, di una gran voce o di armonie, di soluzioni e altri voli musicali. 
Quando però si tratta di giudicare cosa ti ha più colpito, quel che ti sei portato in macchina, in casa, sul giradischi (vero Puccia?) o nella chiavetta (sigh!), allora entra in ballo l'unico grande recipiente che possa contenere la musica che conta, e che sputazzi via in maniera indolore e gentile quella che non merita più di un giro di giostra.
Niente classifiche, quelle le lasciamo per le tabelle salvezza del Genoa in quei fogli a quadretti scarabocchiati a penna rossa e blu come faceva Fabrizio De Andrè. Tuttavia mi è sempre piaciuto il giochino delle nomination e dei premi differenziati. Per il 2013 il cuore ha accettato ad esempio album ben costruiti e dignitosissimi quali "Push the sky away" di Nick Cave (e a Jubilee Street darei una nomination per il miglior brano) e "Lightning Bolt" dei Pearl Jam (anche la ballatona "Sirens" ha attraversato un ventricolo), mentre ha ignorato serenamente roba pluridecorata tipo Daft Punk, Vampire Weekend (che meriterà un riascolto) e tutte le popperie dell'anno.
Il cuore da sempre fa il tifo per il blues, per il soul e per il rock non esageratamente invadente. Ha apprezzato molto "Old Sock" di Eric Clapton, che i soloncelli della critica italiana hanno ignorato e invece è ricoperto di classe come fosse una fonduta tartufata sulle patate lesse (nomination per il duetto con l’indimenticabile J.J.Cale che quest’anno ci ha lasciato, “Angel”). Ha goduto anche con Robben Ford (nomination per “Slick Capers blues” e per “Mostly likely…” come miglior cover) e tanto tanto con Eric Burdon, che merita sicuramente un premio. Pollice verso per Sting e la sua operetta noiosa, con una menzione per “The night the pugilist learn how to dance” che merita una nomination.
Buono anche il secondo Robert Randolph, ma era meglio il primo. Tra i songwriter, in mancanza del solito diamante biennale di Van Morrison, da segnalare “Dream River” di Bill Callahan. Per la black music, nomination brano a “It’s code” di Janelle Monae, che dimostra di poter essere la  nuova Chakha Khan, ma di non volerlo essere.
Nella categoria “piaceri passeggeri” infiliamo l’ennesima collaborazione di Ben Harper col vecchio armonicista Charlie Musselwhite, la coppia di countrymen Dayley & Vincent prodotti da Randolph, un simpatico Ron Sexsmith, una Madeleine Peyroux da salotto (con qualche cover azzeccata), Edie Brickell con il chitarrista non comico Steve Martin (pallosità in agguato), lo swing paraculo di Robbie Williams, la voce sinuosa di Laura Mvula (due canzoni e poi l’oblio) e la piacevole confezione di cover della volpe Boz Scaggs (uno dei pochi che si possa produrre in una rilettura degli Steely Dan).
Nei dischi da rigetto, categoria delusioni surrenali: Michael Franti (è morto nel 2009) e Black Joe Lewis, che sembrava il nuovo James Brown e rischia di diventare un vecchio casinista.
In Italia, difficile rubare il trono a Elio e Le Storie Tese, ci prova Bobo Rondelli, che però è meglio dal vivo, e Battiato con Anthony, che però sarebbero stati meglio in studio. Infine, non pensiate che non abbia trovato il tempo di ascoltare dischi d’esordio e roba nuova: mi sono sciroppato roba tipo Arbouretum, The Knife, Lorde, Anna Calvi…tutti nel fegato senza passare dal cuore, mi spiace.
E veniamo al Re incontrastato di quest’anno, colui che ha pompato sangue, che ha suscitato emozioni, energia, saliva e chiamato birra, vino rosso e gioia. Si chiama Warren Haynes, suona la chitarra e canta e ha confezionato il miglior album del cuore e il miglior live del cuore. Con i Gov’t Mule ha fatto uscire “Shout”, compendio del rock in cui nel disc 1 se la canta e se la suona, e nel disc 2 lascia il microfono a gente come Dave Matthews, Stevie Winwood, Elvis Costello, Ben Harper, Toots dei Maytals e altri pezzi da 91. Con la “Warren Haynes Band” rilegge un po’ di southern rock e blues con la classe dei grandi (cover di “Pretzel Logic” degli Steely…). Tutto in un solo anno, vi pare poco?

MIGLIOR DISCO DEL 2013: SHOUT – GOV’T MULE
MIGLIOR CANZONE DEL 2013: BRING ON THE MUSIC – GOV’T MULE
MIGLIOR DISCO LIVE: WARREN HAYNES BAND – LIVE AT MOODY’S
MIGLIOR COVER: MEDICINE MAN – ERIC BURDON
MIGLIOR DISCO ITALIANO: ALBUM BIANGO – ELIO E LE STORIE TESE


mercoledì 11 dicembre 2013

MI FACCIO LUCE CON LA PARAFFINA!

IL NUOVO LIBRO DI FREDDIE DEL CURATOLO STA PER ARRIVARE!!!
La prima (e ultima?) antologia di poeti malindini...tutta da ridere.
IN ESCLUSIVA ECCO LA PREFAZIONE...

PAPAIE E CACHI

Questa raccolta è frutto di uno studio.
Lo studio è frutto di una ricerca e la ricerca è frutto di un frutto.
Il frutto in questione potrebbe essere una papaia.
Compiendo un volo metaforico, infatti, possiamo comparare la poesia sulla costa keniota a questo frutto tropicale apparentemente insapore, ma ricco di storia e di proprietà benefiche.
Frutto poco invadente e invasivo che pulisce dentro come mondasse dallo sporco del nostro tempo, sana e provvidenziale lavanda interna di cui però è meglio non abusare.
I versi che ho raccolto, come fossero maturati per conto loro e poi caduti dal fronzuto albero dell’inconsapevole conoscenza, compongono liriche semplici e genuine che scaturiscono da situazioni di vita quotidiana e raccontano di comunità, incontri, abitudini,  rapporti con la natura (qualcuno anche contronatura) e con gli animali.
Portano in sé la dolcezza  del ripetersi infinito e lento di giornate vissute alla stregua di regali del Destino, mai eccessivamente graditi ma comunque degni di ringraziamento.
Proprio come quando si porta a qualcuno della frutta in dono: nella migliore delle ipotesi ci si aspettano fragole, ciliegie, percoche, frutti di bosco. All’equatore si gradisce il mango, il frutto della passione, magari anche un bell’ananas.
Se poi arriva una papaia… per carità, rifiutarla mai, specie se si ha fame, ma certo un filo di delusione traspare.
Per un keniota, in ogni caso, la sensazione di sbandamento dura un attimo, poi si cerca un coltello per aprirla, del lime da spremergli sopra, e si fa festa.
Questa può essere la forza della poesia a Malindi e dintorni: inattesa, carica di pathos e speranze, apparentemente anodina, scialba ma alla fine gradita.
Ovviamente qui non si parla della poesia tradizionale Mijikenda, che ha nei canti tribali e nei racconti circolari le sue origini e che s’ammanta di animismo e di magia quando viene mescolata a leggende epiche e storie dei secoli scorsi; quando il popolo Mijikenda si mosse dalle colline di Shingwaya, dove oggi si snoda il tribolato confine con la Somalia, per cercare la terra promessa nel profondo entroterra tra Mombasa e Malindi.
Di quei poemi “alti” il portavoce è il grande Kazungu Wa Hawerisa, autore di cui verrà presto pubblicato un volume (serio) a parte.
Qui di seguito, invece, diamo voce alla poesia attuale, nascosta, sconosciuta, inesistente, affiancando al percorso quotidiano della popolazione locale, la visione di chi sulla costa è venuto a vivere, mescolandosi con i kenioti. 
Nella vita di tutti i giorni, alla semplicità della gente locale, si contrappongono abitudini, storture, comportamenti tipici e strani dei nostri connazionali.
L’Italia patria di Leopardi, Foscolo, D’Annunzio, Montale, Ungaretti, Quasimodo, approccia una civiltà assolutamente digiuna poeticamente, pronta per questo a divorare con curiosità e infantile entusiasmo anche frutti a loro ignoti.
Ecco che la papaia potrebbe incontrare fragole succose, deliziose ciliegie, morbide albicocche, pesche profumate…ma a Malindi gli tocca imbattersi in un caco.
Sulla costa keniota la poesia non può essere invettiva, non è strumento di lotta o rivendicazione, al massimo, quando non è paziente e contemplativa, può diventare, con la presenza dei “mzungu”, un veicolo ronzante, indisponente, dissonante.
Una “poesia tuk-tuk” che con pochi scellini ti porta da una parte all’altra di Malindi, dai chioschi di lamiera di Maweni alle lusinghe di cemento di Lamu Road.
Un tuk-tuk apolide, su cui salgono contemporaneamente beach boy rasta per signora, pensionati in punta, pescatori e peccatrici, venditori di avocado e finanziatori di avvocati,   piccoli imprenditori veneti e avvenenti studentesse di Nairobi.
Cosa ne può  scaturire?
Quale linguaggio porteranno in dote?
Questo è un po’ il senso dell’antologia che vi apprestate a sfogliare: contrapporre le vicende di noi italiani, declamate con ironia e sguardo disincantato dall’estensore di questa prefazione, ai “quadretti” di sconosciuti, effimeri e singolari cantori di quest’angolo d’Africa.

Papaie e cachi.