mercoledì 25 giugno 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 4 - Il grande buraco

Chi guarda Natal, sappia che Natal si vede solo dal mare.
Ma chi è nato a Mae Luiza la può guardare anche dal basso del Grande Buraco.
Nessuno ci è finito dentro, al Grande Buraco, ma è come se ci vivessero tutti da sempre.
Costretti a guardare la vita dal basso in alto, a respirare e deglutire gli umori della strada, le deiezioni del progresso, i succhi gastrici dell’umanità.
Nella favela di Mae Luiza, abbarbicata sul promontorio di fango della città, sai quanto gliene fregava di Italia-Uruguay.
Ora al massimo ti sfottono perché hanno capito che Balotelli è un bluff, ti fanno il segno con la mano “tornate a casa” e se la ridono.
Sicuro che non saprebbero riconoscere De Sciglio o Darmian, e rapinerebbero Candreva con lo stesso sussiego che usano per l’ultima delle strappone che indossano bracciali e collane sulla passeggiata di Ponta Negra.
Italia fuori, Svizzera del Sudamerica dentro.
Brasile che rischierà parecchio con il Cile.
Il piccolo Fetfa che forse troverà spazio con il Costarica.
Ma io con loro non parlo dei mondiali.
Sono qui per un altro motivo e per adesso non ho voglia di immischiarmi.
M’imbatto in guappi di sedici anni ebbri di colla e maconha che, appoggiati a muri dall’intonaco vivo e in bassorilievo come pelle tatuata, ti squadrano con occhi freddi di metal detector: orologio, catenina, sagoma del cellulare nel taschino della camicia, rigonfiamento del portafoglio nel culo, eventuale borsello. I più giovani inseguono inermi granchi di fango lanciandogli pietre aguzze con rabbia già adulta, prendendoli per sfinimento e schiacciandoli inesorabilmente.
Una morte innocente e inutile, come inutili sarebbero state le loro vite da innocenti.
Ragazzine dal sorriso di garofano e cannella con lo sbavo di rossetto e l’infanzia affossata nelle occhiaie, ti fanno il segno del pompino con il pugno semichiuso e la lingua a roteare nella guancia.
Spacciatori di crack armeggiano con coltelli a serramanico, anche solo per pulirsi le unghie o sbucciare una maracuja e madri arredano al meglio la loro rassegnazione sull’uscio delle baracche, sfinite dalla fatica di dover sopportare tutto questo male di vivere ai margini di Natal, dove arrivano i charter dei turisti che riempiono le spiagge, le tasche degli spacciatori, le cavità delle ragazzine e le notti brave dei guappi.  
C’è chi preferisce la retorica dei finti buoni sentimenti e continua a indicare l’occidente, quando qui in giro fanno tutto da soli da un bel po’. Missionari laici che si concentrano sugli orfani, missionari laidi che li preferiscono a dieci anni. Tanti appoggiano gente che lucra sugli aiuti e non farà mai niente per cambiare davvero Mae Luiza, se non inviare cartoline illustrate a base di volti emaciati, sguardi persi, cenci strappati, denti marci, immondizia, sangue ed altre miserie.
Io nel Grande Buraco, la voragine che si è aperta non distante dallo stadio, che inghiottirà i mondiali e prima o poi tutto il Brasile, ci vado da solo, senza onlus o delegazioni e non ho con me la digitale.
Osservo la civiltà dal basso e omaggio chiunque di una smorfia schifata e occhiate come dire “non ho niente da offrirti, facciamoci ognuno i cazzi propri”.
Pensate pure che sono qui per i mondiali, che sono il turista che va sulla spiaggia, che ama il calcio e cerca la figa, possibilmente gratis.
Che va a ballare nei locali dei negri, che ascolta musica dal vivo in quelli dei bianchi, che mangia la pizza e i camarao. Questo si fa in Brasile, e non ho intenzione di deludere nessuno.
Ma sono anche genoano, e so bene che questa è la città “Natal” di uno dei nostri idoli, Francelino Matuzalem.  Ecco il vero motivo della mia presenza.
“Se non fosse stato per il calcio, ora sarei in prigione”.
Questa frase di Matuza, letta sul giornale qualche anni fa, mi ha fatto pensare che fosse uno dei guappi che ho incrociato e che sarebbe diventato uno dei tanti malviventi di Natal.
Magari l’avrei conosciuto qui, nel Grande Buraco, all’ombra del faro della città, che è il motivo per cui sessant’anni fa i reietti di queste lande si arroccarono qui, rischiando ogni giorno di scivolare nel ventre della terra per una frana o di finire in una voragine come questa.  Ogni sette secondi arrivava la potente luce del faro ed era l’unica illuminazione della vita intermittente di Mae Luiza.
Chissà se Francelino ha conosciuto quella luce. Magari, grazie al calcio, lo incontro più tardi e ci sbronziamo di Ypioca Reserva, insieme a quella buona gola di sua mamma.
Per prima cosa, finita la farsa della Corazzata Prandelkin, che ora langue in un oceano di critiche appoggiata sul lato sinistro dell’opinione, vado a Pizza Pazza, il ritrovo della colonia italiana di Natal.
Il gestore Walter aveva preparato pizze tricolori alte come Fetfatzidis per festeggiare, e ora le offre comunque ai connazionali. Pesto mozzarella e pomodorini.
Gli insulti con cadenza portoghese sono condimenti necessari, olio al peperoncino per ravvivare lo scialbo pasto che fa quasi rimpiangere il Ristò di Barberino di Mugello.
Buffon succhiato dalla D’Amico, Barzagli grasso, Bonucci montato, Chiellini sadomaso, Pirlo che gioca da fermo, De Rossi da infermo, Cassano bollito, Verratti acerbo, Immobile come l’Italia e via dicendo.
Al “Balotelli-negro-di-merda” mi sembra definitivamente di essere al Ristò, di Sant’Angelo Lodigiano però. Mi dirigo alla cassa con lo scatto perentorio di Candreva.
“Walter, tu sai dove abita la mamma di Matuzalem?”
“Il Rum?”
“No, il calciatore”
“Ah, quello della Lazio…dovrebbe stare al Pelourinho”
Saluto la varia umanità di puttanieri, coppiette, tifosi, barberini, lodigiani e altri generi di stronzo, e come un ambizioso annusapatte, mi dirigo verso il centro.
Il Pelourinho è uno spettacolo di illusionismo, una fiction storica tra i grattacieli e la merda.
Il corso che scende da una delle colline di Natal ricorda in qualcosa Zena, via Garibaldi, ma ha chiese lusitane e architettura rinascimentale spagnola a far da contorno.
Pullula del Brasile buono, quello della gente che tira a campare a fatica come noi, strozzata da capitalismo e globalizzazione, ma sorride e si tocca il culo a vicenda, mangia e beve quel che capita senza stare a sindacare. Poveri dentro, ma meno inutilmente scassacazzo di noi italiani.
Chiedo a un vigilante, ma mi guarda in tralice come dire “deficiente, siamo in 800 mila a Natal e dovrei conoscere l’indirizzo di ognuno?”, entro in un negozio che vende divise da calcio e ne ha anche una serie degli azzurri.
Il commesso Emerson è indeciso se chiudere bottega o attendere che lo struscio del corso si sia consumato.
La delusione è evidente sul volto abbronzato, i riccioli corvini e il naso camuso.
“E adesso, chi me le compra?”
“Un collezionista di brutte figure? Se hai quella di Perin te la prendo io, tra qualche anno sarà come il Gronchirosa”
“Cassudiji?”
Chiude bottega e andiamo a bere una Ypioca da Vanier, in uno dei vicoli belli in cui si perde la cognizione del tempo.
Alla quinta cachaça l’ho convinto.
Dobbiamo trovare Francelino.
Emerson fa due o tre telefonate. Un’ora è mezzo di “alonji ujenji sao sao joao corcovado desafinado blablablao cassudiji”.
Nel frattempo mi passano davanti otto o dodici tette, quattro o otto chiappone, forse una le aveva addirittura doppie.
Ringrazio alzando la mano come in auto al semaforo, oggi niente figa, niente calcio, niente rock and roll.
“E’ hora de ir” dice il commesso camuso.
Risaliamo una stradina cupa contornata da piante che odora di frutta e spezie, divoriamo venti scalini, circumnavighiamo una fontana, una chiesa e un mercatino di artigianato, per rinfilarci nei vicoli.
Respiro odore di commistione, di incroci di tempi e di modi, di prede e cacciatori, indigeni e conquistatori, razze e corazze, cazzi e controcazzi.
Ad un tratto Emerson si blocca.
Ai bordi del quartiere coloniale c’è un imprevisto.
Un ragazzino alto come una pizza tricolore di Walter, ci affronta armato di un manico di scopa tempestato di lamette da barba.
Mi pare di capire che Emerson gli dica che anche lui è un poveraccio, che ha parenti a Mae Luiza e che da ragazzo usava le Wilkinson perché costano meno e si arrugginiscono più tardi.
Il bimbo non ne vuole sapere, è assetato come un centrocampista costaricano e agguerrito come Alvaro Pereira quando gli dicono che potrebbe tornare all’Inter.
Non cede e inizia a roteare il manico della scopa.
Emerson mi fa segno di tirare fuori 100 reais.
Glieli lancia ai piedi e lui raccoglie con una scarpa, arretra di qualche passo facendo segno di restare sul posto, come avesse spruzzato un’invisibile schiuma da arbitro incontinente.
Poi si gira, sorride e fa segno a Emerson come a volergli stringere la mano.
Il commesso ci pensa un attimo. Si volta verso me che rimango a distanza, e mi strizza l’occhio.
Si avvicina sussurrando qualcosa ma il Fetfa del Grande Buraco gli vibra lo scopone lamato in faccia. Schizzi di sangue sulla pietra del vicolo, Emerson tenta un placcaggio urlando, vedo un dito saltare via e tagli assurdi come diagonali di Chiellini.
Prima che il commesso camuso tenti un’ultima disperata reazione, roba da minuti di recupero con Cassano centravanti, decido che è il momento di scappare. Ora o mai più, abbandonare la scena più velocemente possibile.
Mi sento come un granchio di fango che zigzaga inseguito dai fratelli minori dei guappi
. Sento le pietre aguzze sibilare al mio fianco e piedi enormi che mi cercano dall’alto.
Cuore in gola, stradine del Pelourinho che si fanno sempre più strette e si inerpicano in salita fino a diventare viottoli, passaggi, fessure in mezzo ai tuguri della favela. E poi a scendere ancora verso la città tra carretti, bambini con palloni, gradini colorati, capre, panni stesi, catini, vecchi addormentati, pezzi di lamiera, brandelli d’intonaco, fili scoperti della corrente, venditori di noccioline, biciclette, escrementi d’asino, donne grasse bardate di parei colorati, piante rampicanti. Se è vero che mi sento il protagonista di un videogame in soggettiva, spero di avere almeno tre vite e di guadagnarmi quel cazzo di extratime. C’è un mondo nascosto da fotografare ed evitare in rapida sequenza, se solo fossi un turista.
Ma un turista qui in cima a Natal non sarebbe salito mai.

E non avrebbe mai potuto vedere dall’alto il Grande Buraco.
Devo tornare verso il Pelourinho, prima di guardarmi indietro. Ansimo come Barzagli dopo venti minuti del secondo tempo, o come Thiago Motta dopo cinque dal suo ingresso in campo.
Fermo la mia corsa e le
gimcane, esausto, sotto un portico che si affaccia in un cortile dalle mille grate.  Mi affaccio nel vicolo, a destra e sinistra non c’è nessun manico di scopa.
Dall’interno proviene un buon odore di chiodi di garofano e pollo stufato.  Fuori, due ragazzine vestite bene giocano a pallavolo e un gatto le osserva grattandosi via le pulci fino a scarnificarsi.
Mi siedo
a terra, nel chiaroscuro del portico e prendo il respiro.
Chiudo gli occhi.
Vedo Prandelli che mi viene incontro. Mi mette una mano sulla testa, fa finta di non schifarsi per il sudore dei capelli, e mi prende il collo con l’avambraccio.
“E’ andata così, non piangere” mi dice con un mezzo sorriso averna.
“Non piango, sono miliardario e prenoto domani per due settimane in Polinesia” vorrei rispondergli, ma l’etica mi consiglia: “Non ce lo meritavamo, abbiamo dato tutto”.
So che è una gran menzogna. In realtà ho dato solo 100 reais, e in tasca me ne rimangono 2000.
Più la carta di credito dei GIR.
Qualcosa mi tocca la spalla.
Non sento denti, non è Suarez.
E’ una mano pesante.
Mi viene in mente Carlos Ricardo Badalamenti.
Ho un sussulto verticale, apro gli occhi e mi alzo in piedi.
E’ una donna alta poco più di una pizza cucinata da Fetfatzidis, robusta e rassicurante- 
“Medu nao meu filho”, non temere mi dice.
Mi fa segno di entrare in casa.
Il patio annuncia un grande salone luminoso, pieno di drappi e arazzi.
In fondo si intravvede una cucina ampia con il blocco cottura in mezzo e una grande cappa di alluminio. Mi fa cenno di sedere su un divano morbido, contornato da cuscini cangianti.
Alzo lo sguardo verso un crocifisso d’oro appeso alla parete.
Di fianco una gigantografia di un ragazzo che assomiglia al povero Emerson.
Guardo meglio, il naso non è così camuso.
E’ Francelino Matuzalem!
La signora sorride e fa portare una bottiglia di Demerara 30 anhos.
Stappa, versa e degusta, con eleganza impropria.
Sono già innamorato.
“Esto e melhor de que beve a Natal, no è cachaça”
“Lo so, lo so…grazie. Alla tua, mamma!”.
“Fanculo Italia!”
“Fanculo Italia, forza Genoa!”
“Forse fanculo anche Genoa!”
“Dai mamma…”
“Da me un beijo”
“Ma mamma, hai quasi sessant’anni…”
“Apenas un beijo…”
Okay.
“Allora, Forza Genoa!”
“Forza Genoa sempre, mamma!”

giovedì 19 giugno 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 3 - Il pernambucco, la Costaricca e le tristezze zaloniche

La quota del Costarica primo in classifica nel girone D all’inizio del torneo era inferiore solo a quella dell’Iran nel girone dell’Argentina. Mentre passeggio per la lunghezza della spiaggia di Boa Viagem, alla ricerca di un Pernambuco, inteso come ambito traguardo qualificazione in mezzo a due chiappe brasiliane, penso che era da giocare, anche solo per esorcizzare la partita con l’Italia.
Assaggio l’epidermico piacere dei piedi nudi sulla rena e gioco con le pupille a far coincidere le finestre a vetri dei grattacieli con il bagnasciuga che si perde in altre rive ed altri palazzoni.
L’accelerazione e la frequenza dei movimenti saccadici potrebbero farmi sembrare un epilettico fotosensibile, un consumatore di crack e ketamina o un imitatore di Beppe Grillo quando viene intervistato. Se incrocio tifosi azzurri devo ricordarmi di smettere, per evitare spiacevoli conseguenze.
A poche ore dal match che ci lancerà verso gli ottavi, chissà perché, la mia esigenza più vivida e terrena è quella di possedere un Pernambuco del culo.
Sarà che ne ho ammirati così tanti, in giro per quella che chiamano la Venezia del Brasile solo perché ha  una cinquantina di ponti e fiumi e canali che l’attraversano (mi ricorda il tormentone pugliese “se Parigi avesse lu mere, sarebbe una piccola Beri”).
D’altronde, che volete, sono un turista anch’io!
Avete mai sentito parlare della Casa da Cultura di Recife, un ghetto straordinario ricavato dall’enorme carcere portoghese, dove ogni cella è un mondo d’arte, di sogni, scritti e visioni?
Ve l’hanno mai fatta vedere negli speciali su Brasil 2014?
Figurati, media e internet globalizzati ti accecano con samba, culi e calcio. E gli alternativi, i moralisti, gli indignados di ‘sto cazzo ti propinano invece le solite immagini di bambini poveri che sniffano solvente per smalto semipermanente e ragazzine di dodici anni che non la darebbero mai a un coetaneo o al maestro di scuola, ma solo a uno straniero che potrebbe essere il loro nonno.
E’ uno schifo.
Alla Casa da Cultura ho conosciuto l’anima di Nelson Rodriguez, che non è un terzino costaricano ma un grande scrittore di Recife, che aveva la stessa mia passione per le natiche femminee e per il Pernambuco.
Sentite cosa dice, che bellezza:  “
Sono un bambino che spia l'amore dal buco della serratura. Non sono mai stato diverso da quello. Sono nato bambino, e morirò tale. E il buco della serratura è proprio il mio punto di vista. Scrivo come sono, e sono sempre stato un angelo pornografico”.
Lirico inestimabile, segaiolo sublime. Il Franco Scoglio della letteratura pernambucana.
Assorto nel ricordo di Nelson e della sua vita avventurosa, tutta passata tra Recife e Botafogo, non mi accorgo di una sinuosa mulatta apparentemente senza culo, perché sdraiata di schiena su un miniasciugamano, con un minibikini sulla maxispiaggia.
Ci inciampo sopra come in un video di Huey Lewis and The News e lei fa finta di credere alla mia vera buonafede.
E’ un gioco di sguardi finto dolci di finto broncio e vere scuse e finti non fa niente e finti sorrisini e vero imbarazzo e finte offerte di riparazione e vere occasioni da prendere al volo e finte accettazioni e vero disinteresse e finto piacere. Fino a quando si alza e mostra il Pernambuco leggermente insabbiato.
Da lì in poi sarà tutto meravigliosamente finto, come le conferenze stampa di Prandelkin.
Si parte con due cerveja al guaranà e poi entriamo nel bairro di Espinheiro, passiamo il quartiere olandese, attraversiamo il fiume Beberibe da cui vedi in lontananza le favelas, e approdiamo a Graças.
“Mi chiamo Leyda. Sono ballerina di Frevo”
“Sono Freddie, massaggiatore d’interni”
“Italiano…sei qui per il mondiale?”
“Ho due biglietti per la partita, vieni con me?”
“Prima scopiamo?”
“Per quello hai tu i biglietti?”
Ride, l’ho conquistata.
Terminiamo la corsa in un basso alla napoletana nei vicoli tra la civiltà e il fango del fiume, dove proliferano granchi d’acqua dolce, relitti di barche e rettili umani che si mimetizzano con la melma e la miseria.
Mi offre un intruglio di color orzata ed entra in doccia.
Trangugio fregandomene di presentimenti oftalmici, brucia bene la gola.
Forse troppo, per le dieci del mattino.
Nemmeno Matuzalem con sua mamma.
Arriva profumata, liscia e umida.
Il suo tocco è morbido e sorprendente al pari di un cross di Cavani, le labbra pesanti si appoggiano e mi spiazzano come il colpo di testa di Suarez, sbatto sulla testata in ferro della brandina da ospedale come Rooney sulla traversa.
In seguito è tutto un groviglio, una sarabanda, un tiki-taka indiavolato modello Cile. Mi dibatto e mi dimeno pensando a Iniesta e Sterling, sarò l’ultimo a crollare…c’è battaglia, sudore, sofferenza, speranza, e sana competizione. Passano i minuti e mi dirigo meritatamente verso l’eliminazione.
Sono fuori, come Spagna e Inghilterra.
Incasso il raddoppio e mestamente cado.
Mi sono perso anche l’esultanza di Leyda la cilena, l’uruguayana. Di sicuro avrà accennato due passi di Frevo, gioendo alla vista del nemico svenuto.
Quella gran troia di una Pernambucana mi ha infilato qualcosa di stordente nella cachaça.
Mescalina, roipnol o solvente per smalto semipermanente.
Mi ha fregato zaino, telefonino, contanti (e per fortuna ho lasciato la carta di credito dei GIR in hotel) e soprattutto i biglietti per Italia-Costarica.
Mancano quaranta minuti all’inizio del match.
Mi trovo a Camaragibe in uno dei bairri più puzzolenti e malmessi di Recife, senza una lira e senza essere sicuro di saperne uscire.
Mi sale una sensazione conosciuta, l’adrenalina da inculata.
Percorro Avenida Correia e trovo un quartiere, un “bairro” come dicono qui, leggermente più accogliente. Almeno, la puttana appoggiata al cartello stradale divelto all’angolo non fa nulla per non sembrare una puttana vera. Ha le unghie della Griffith, le tette di Veronica Lario e il sorriso dell’ex marito. Nel vicolo dietro le sue poppe, c’è un locale aperto, con un’insegna che mi allenta i battiti. “Don Pepito”. Penso a Rossi, il grande escluso della Corazzata Prandelkin, chissà con quale umore starà apprestandosi a vedere questa gara.
Don Pepito ha i muri scrostati e le cameriere basse e quadrate.
L’ambiente è sobrio come il Megu quando esce da casa di Mister No.
Quadri ispirati al risorgimento italiano, alla rivoluzione francese e forse anche all’impero austroungarico, contornati da maracas, reti da pesca, gagliardetti del Nautico e fotografie del carnevale con una serie di Moire Orfei pernambucane con pappagalli e ananas in testa al posto del turbante.
C’è il televisore!
“Enviar o jogo na Italia?” chiedo.
“Alguns!”
Spero voglia dire sì e mi siedo.
Dietro di me un uomo sulla sessantina, brizzolato con un incisivo tagliato a metà e una cicatrice vicino all’orecchio come una specie di incazzatura, mi mette una mano sulla spalla.
“La fannu, la fannu ‘a partita. Ce lo chiesi iu. Sei Talianu?”     
La presa del suo arto superiore dovrebbe già dire tutto, ma sono ancora sotto l’effetto dello smalto mescalero e quasi gli accarezzerei le dita.
Sono più che altro sorpreso dalla cadenza rumeno-calabrese di questo signore distinto ed elegante, se non fosse per il colletto della camicia strappato e per il ciuffo brizzolato di capelli, decisamente arruffati.
“Sim! Sao os genoa presisamenji. Sono italiano di Genova”.
Mi fa godere così tanto che in portoghese io possa dire di essere di “Genoa” con la stessa inflessione con cui canto “a fiji de bagassa, avansi de casin” che me lo sono imparato a memoria.
“Jallora parli la mia lingua. Anchi miu patri era taliano”
Ah, ecco, Recife non è gemellata con Bucarest.
Sul 56 pollici Matsui appare l’Arena Pernambucana, che vista dall’alto sembra la tazza del cesso del bagno degli ospiti di Renzo Piano.
Mi scappa da lamentarmi.
“Dovevo essere lì dentro…”
“Angh’iu…stu figghiebbottana nu finanzieri brasilianu mi s’inciampò sulli scarpi e avvirtì u ferru. U’ purtai a prenni ‘na buccata ‘i caldo e ma rruvinari a camicia. I nun zi po’ entrari in ‘tu stadiu a vederi l’Italia con la camicia arruvinata, dicu bbeni?”
“Dice bbeni sì!” confermo, anche se non ho capito quasi una minchia.
Ordina anche per me una Petra 90, qualcosa di simile a un’acquavite fatta sui monti friulani di Mauro Corona e filtrata con un suo maglione. 
“Alluri ce la vediamo qui nzemi chista Italia, dicu bbeni?”
“Dice bbeni anche questa volta. Mi presento, Augusto Beccioni” (con gli anni ho imparato a non dare mai il mio vero nome agli sconosciuti incontrati in terra straniera).
“Mi puoi chiamari Carlos, o anche Ricardo”
C’è sempre qualcuno più avanti di te, penso. Questo mi da addirittura due nomi falsi.
“Ma ci sei mai stato in Italia?” chiedo, tanto per ingannare l’attesa e spezzare il fiato di Petra 90.
“Ci sugnu natu, in Italia. E penza chi stavu per tunnacci, nella mia Sicilia. Che furono trentacinqui anni. Tutta colpa di chiddu picciottu di mio figghiu Tanuzzo. Ci ho accomodato una vita così spacchiusa a San Paulo che alla fine si annoiava e scenniva in Avenida Paulista a dari fastidiu i froci cui bastuni i cateni”.
“Eh certo, bastoni e catene un po’ danno fastidio…”
“Chi dicesti?”
“No, niente…guarda, Carlos, l’Italia!”
C’è un servizio, su Rete Globo, abbinato agli azzurri. Si vede Venezia, la piccola Recife, Firenze, il Colosseo, Papa Francesco (che cazzo ci combina, è argentino…) e il Vesuvio. Poi, di colpo, appare un volto noto. Brutto, grigio, ributtante, antipatico.
“Cu cazzu è?” chiede Carlos Ricardo più o meno con la stessa espressione schifata e anodina del personaggio in tv.
“Si chiama Checco Zalone è…è…(faccio fatica a dirlo, come Renzi quando deve dire “ho sbagliato”) un comico.
“I con quella facci’ di cazzu vuole fari arridere?”
“Non lo dire a me, Ricardo”
Parte la sua canzone sui mondiali. Una roba da avanspettacolo del basso lodigiano, negli anni Settanta. Il succo della storia è: molti brasiliani sono neri e i neri ce l’hanno più lungo, il giocatore brasiliano nero protagonista della canzone ce l’ha più lungo dei bianchi ma è stitico. Quindi il bianco gli mostra una banana, e il nero stitico gli dice che lui la banana non la mangia perché astringe. Poi entra in campo il frocio, che anche lui viene associato al simbolo della banana e quella che dovrebbe essere una divertentissima disserzione contro il razzismo e l’omofobia, si conclude con il calciatore nero che sta per segnare, dopo aver scartato anche il portiere ma invece si caga addosso. Cazzo, merda, negri e ricchioni. Gli elementi per parlare di calcio e per far ridere ci sono proprio tutti. Ovviamente rete Globo ricorda che Zalone è il comico più popolare d’Italia e che i suoi film hanno guadagnato milioni di euro.
Me la davano a me una canzone divertente da scrivere per i mondiali…mi parte l’embolo e mi alzo in piedi, inveendo verso il teleschermo.
“Ma vaffanculo, guarda se devono abbinare all’Italia una roba del genere. Che schifo. Io lo ammazzerei a Zalone, ma non con un colpo, lo torturerei per giorni interi, ‘sto mostro triste, che se la tira pure”
Penso che lo legherei alla poltrona di un cinema d’essai e lo costringerei a vedere la cinematografia completa dei fratelli Marx, mentre in un orecchio Gianfranco D’Angelo gli sussurra i suoi monologhi più celebri, Enzo Braschi vestito da paninaro lo ingozza di sostanze fecali prodotte da Tini Cansino e Gegia gli fa uno spogliarello e poi copula con Capozzucca. Questo prima dell’ingresso in campo del negro stitico…
“Lo vuoi veramenti videri mottu a chistu?”
“Sì, Carlos, mi sentirei davvero bene se sparisse per sempre”
“Ma che ti ha fatto?”
“Che mi ha fatto? Che ci ha fatto! Ha rovinato l’immagine della comicità italiana nel mondo. Ti rendi conto? La patria di Totò, di Macario, di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Roberto Benigni!”
Carlos Ricardo mi guarda quasi spaventato. Ho paura di avergli fatto gli occhi spiritati da Beppe Grillo intervistato.
Estrae qualcosa da una fondina attaccata a un passante dei pantaloni.
Me lo punta.
Serro i denti ma, in un empito di coraggio, tengo gli occhi aperti, anche se sembrano gli occhi di Keysuke Honda. Con tutte le avventure che ho avuto nella vita, qualsiasi cosa mi aspettavo tranne che morire in Brasile per una lite con un italiano su Checco Zalone.
Non è una pistola.
E’ un telefono cellulare motorola startack grosso come un ipad, di quelli che usava Moggi in Svizzera per lo scudetto numero 28 della Juve.
“Pronto, Turi? Iiii bedduzzu, tuttubbeni? Amugghierapippufraterosarioipicciottiuziupaolututtibbeni? ElafamigghiadiCinisiziuRoccodonIgnaziudonnaCarmelaicementaronoaifetusi? Beni, beni! Senti me dovissi fare nu favori…c’è un amico qui che vuole che uccidiamo un certo…”
Reduce dal sollievo e da una seconda ingollata di Petra90, non ho proprio tempo di pensare che si tratti di uno scherzo.
“Ma no, dai non importa Carlos…”
“Commu cazzu si chiama chillu”
“Ch…Checco Zalone”
“Un certo Chicco Zaloni, e nu comicu ca ci piacciono i negri….come? Lo conosci? E megghiu che lo conosci, così è più facili avvicinarlu, dicu bbeni?”
Faccio segni da parcheggiatore d’aerei, per dirgli di lasciare stare.
“Chi ddici? E’ spacchiuso? Ma sei sicuru? Vabbè, informati se è protetto da amici nostri. Si Fozza Italia Turi! Sii poi c’ammu a sentiri pe chedda cosa del Venezuela. Vabbeni”
Carlos Ricardo rimette il motorola nella fondina e mi omaggia di uno sguardo di potente soddisfazione come dire – hai visto con chi hai a che fare-?
Vorrei dirgli che se fossi sicuro che in un bairro di Recife mi è apparso il genio della lampada sotto forma di pensionato siculo-rumeno, avrei ben altri nomi nella lista, prima di Zalone. Ci sarebbe giusto un commerciante di gioc…
“Guarda, Ricardo! Ecco i nostri ragazzi nel tunnel prima di entrare in campo!” 
“Io dico BRAVI! Chisti picciotti portano l’immagine del nostru paesi nel mondo, mica cuddu figghiabbottana di Chicco Zaloni. Dicu bbeni?”
Annuisco sorridendo.
Mi ha smussato un po’ i coglioni, con ‘sto “dicu bbeni”, sarà mica convinto di essere uscito da un pallosissimo noir di Camilleri?
“C’è Buffon…merda”
“Nun mi piace, preferivo cuddu che aggiucari nel Palemmo”
“Sirigu, hai visto che partita contro l’Inghilterra?”
“Bravo, bravo. E adesso spacchiamo u culu al Costarricca…che ci avranno di ricco questi indiani du cazzu, mi toccherà andare a farci un giro, lassù”
Suonano gli inni, Carlos Ricardo ha gli occhi lucidi. Mi mette una mano sulla spalla e fa segno di brindare.
Dentro il Don Pepito ci saranno quaranta gradi e quattro clienti, le due pale girano lente come quelle di Del Bosque, le cameriere sono diventate triangoli isosceli.
Fischio d’inizio.
“Avranno caldo anche loro, camminano”
“Lu negru, non mi può sbagliare un pallonettu facili accussè”
Balotelli non è in partita, c’è qualcosa che non va.
“Avrà mangiato le banane, come dice a Zaloni…ahahaha!”
Ma vaffanculo, Carlos Ricardo.
L’Italia lentamente scompare dal campo, dopo un altro tiro in porta di Balotelli e un diagonale insulso di Thiago Motta.
Carlos Ricardo si tocca nervosamente la fondina.
Noto che ne ha un’altra, a destra.
“Ma quisti ci vogliono fari fare una figura di merda in Brasile, nel mondo…altro che Totò e Macario…”
“Sarà una tattica…li facciamo stancare”
“A bastoni e catene…come mio figgi Tanu, li prendo ‘sti miliardari du cazzu!”
Quando Chiellini cicca il pallone e poi si lancia contro Campbell, come un crostone al formaggio che si tuffa nella zuppa, Carlos Ricardo ordina un’altra bottiglia di Petra ed alza la voce.
“Poccuddue! Ma chi cazzu stannu facinnu sti arrusazzi! Chisti sunnu a Recife li ammazzu io con le mie mani!”
Al gol del Costarica, su dormita totale e uscita goffa di Buffon, devo trattenerlo dal lanciare uno dei due triangoli isosceli a punta contro il televisore.
Alla fine del primo tempo cerco di smorzare i toni, anche se il mio grado alcolico, misto al caldo e all’intruglio della ballerina di frevo, rende difficili le funzioni neuro-motorie e l’utilizzo delle consonanti.
“Ma cosa ha fatto Tanuzzo con i bastoni e le catene?”
“Riducette a una larva nu picciottu negro ricchione. Come cuddu rincogliunitu di Balotelli quannu aveva quindici anni. E siccome Tanuzzu era minorenne, mi sono dovuto presentare al commissariato di San Paulo e lì accuminciarunu i casini”
“Che casini, Carlos?”
Le ricerche, le balle, servizi segreti, e chi è Carlos Massetti, chi è Ricardo Cavalcante Vitale…io a cchiamari Chicago, Baltimora ma nnenti. Palemmo che non zi muoveva, i picciotti calabbresi a Bogotà, cazzu due mesi di galera mi facettero fari, hai capito, ammè!”
Sta delirando, l’effetto Petra è implacabile.
Cerco di recuperare la cordialità.
“Io lo so chi è Carlos Massetti?”
“Ah sì?”
Carlos Ricardo mette automaticamente la mano alla fondina di destra.
“Sentiamo, cu è?”
“Non so se sia ancora vivo, era un direttore d’orchestra argentino, lo Xavier Cugat di Quilmes. Arrangiava i pezzi del cantante Pepito Perez”.
“Bravo! Tu mi piaci sai? Come hai detto che ti chiami?”
“Augusto”
“No, tu da oggi ti chiami Pepito. Io sono Carlos, il tuo direttore d’orchestra, e tu sei Pepito, il cantante”
Decido di accondiscenderlo.
“Sì, ma canto solo quello che mi chiedi di cantare tu, dicu bbeni?”
“Sicuro! E nun pigghiarmi pe u culu!”
Inizia il secondo tempo e l’Italia è desolante. La seconda Petra è stata scagliata, Carlos attacca la terza come un vero direttore d’orchestra e quando Marchisio e De Rossi iniziano a viaggiare più lenti di Mamede, Cassano si esibisce in uno stop alla Zetulayev e Insigne e Cerci si incistano in area come discepoli di Olivera, al posto della bacchetta estrae una calibro 22.
“JARRUSIIIIIIIII…vannu a uccideri cani!”
Parte il concerto per pallottole, urla e calci ai tavoli. I due triangoli isosceli si gettano sotto il bancone, gli altri quattro clienti sotto i tavoli, dalla cucina a vista sporgono gli occhietti rassegnati dei due cuochi.
Il televisore esplode insieme all’espressione zalonica del butterato di Barivecchia che abbandona il campo. Saltano una ad una le bottiglie del locale, le foto di Moira Orfei e anche la formazione del Nautico campione brasilero 1967. Entra in bagno, sento ancora uno sparo e qualche imprecazione in siciliano. Non si è ucciso. Chissà com’è quando l’Italia vince.
Ne approfitto per riprendere la via del fango, dei granchi, delle puttane e dei ponti con due certezze:
L’Italia ci fotte sempre, Il Pernambuco non mi frega più.

NOTA: Leonardo Badalamenti, figlio del boss Tano Badalamenti, mandante della strage di Cinisi e dell’assassinio di Peppino Impastato, è stato fermato dalla polizia brasiliana a San Paolo, nel 2009, dopo l’arresto di un minorenne, Gaetano Massetti, che con alcuni amici ha ridotto in fin di vita a sprangate un ragazzo colpevole solo di essere nero e omosessuale. Dopo ricerche degli investigatori, il padre Carlos Massetti, con regolare passaporto brasiliano, è risultato essere in realtà Badalamenti, il quale trafficherebbe in bond falsi con il Venezuela, dove come cittadino di quel Paese, si chiamerebbe Ricardo Cavalcante Vitale. Il Ministero di Giustizia italiano ha chiesto l’estradizione, ma il Tribunale del Riesame di Palermo, dopo due mesi, ha ritenuto che non ci fossero gli estremi per procedere. La polizia di Sao Paulo si è vista costretta a rilasciare Badalamenti, che risulta ufficialmente latitante da 35 anni.

sabato 14 giugno 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 2 - Il Salvatore d'Italia, la maconha e gli huni kui

José Bolivar Proano partì per l’Amazzonia con la moglie cagionevole di salute e una valigia di buone intenzioni. Io non esco da un romanzo di Sepulveda, ma al massimo da un editoriale del Secolo XIX in cui gli altri protagonisti sono Luca Bizzarri e Alessandro Zarbano. Potete capire quanto me ne freghi di fare poesia. Salgo sul volo interno della Tam da Bahia per Manaus con il ricordo fresco del pan di zucchero di Janina, conosciuta un paio di giorni fa sulla spiaggia di Bahia e con cui ne ho fatti due meno dell’Olanda ma nel medesimo stile. In tuffo come Van Persie, spingendo come De Vrij, scartando di lato come Robben.
Per non sembrare recidivo come Iker Casillas ed equivoco come Platini quando parla del Qatar, aggiungo che Janina ha l’età di Welbeck e sculetta come Sturridge, ma ha l’intelligenza di Choupo-Moting e a letto simula come Fred.
Sbarco a Manaus alle 7 del mattino e c’è già un’afa da bere cerveja, sudare tapioca e parlare il dialetto di Ventimiglia. Assaggio il caldo umido che mi veste con l’aria finto accondiscendente con cui Miuccia Prada agghinderebbe Blatter. Come mi hanno insegnato i grandi viaggiatori della letteratura italiana, Enzo Biagi, Pino Cacucci e Fabio Volo, non prendo il primo taxi fuori dall’aeroporto, ma il secondo.
E’ una Fiat che probabilmente producono senza permesso in Amazzonia, un misto tra una Croma e un battello fluviale equadoregno.
Estevao mi porta nella zona dello stadio, ma dice che stanno rifacendo la segnaletica e dobbiamo girare al largo. C’è tanta di quella polizia in giro che Vallanzasca rinuncerebbe a portare le mutande.
Ci fermiamo davanti al salsodromo, immenso assurdo corridoio con tribune laterali, roba che può contenere 200 mila esagitati, 300 mila persone o 150 mila testimoni di Geova.
Dal quotidiano O Tempo semiaperto sul sedile davanti, leggo la notizia che mi cambia la giornata e potrebbe cambiare la vita almeno a  un paio di persone.
Gigi Buffon non giocherà contro l’Inghilterra. Nella lingua che mastico grazie alle poesie di Vinicius De Moraes e alle canzoni tradotte di Raffaella Carrà (Alegria de viver su tutte, la so a memoria!), mi pare d’intuire che Sirigu non è al massimo, ma giocherà. Almeno, lui e Prandelkin ne sono convinti, ma a questo punto sento di avere una missione da compiere.
Sì, il vecchio Josè Bolivar andrà a matar el Tigrillo!
Mi esprimo al tassista con il cipiglio e lo stile di un Toquinho che declama “A far l’amore comincia tu”.
“Estevao, portami in qualche barrio dove posso noleggiare un figlio di puttana per un lavoretto facile…devo infortunare un portiere”
Da Avenida Rey entriamo a Petropolis. Gli elicotteri militari infestano il cielo come cervi volanti, a terra sembra di stare dentro un forno a convezione. Ci fermiamo in una traversa di Rua Crisantamo Jobim.
Ai lati baracche in fanghiglia cementizia pitturata di azzurro e verde, cofani spalancati di automobili in panne dai tempi in cui non avevano ancora inventato il motore a scoppio, facce indie che mi scrutano. Estevao fa segno di non preoccuparmi, sembra Del Bosque sul 2-1 per l’Olanda.
Entriamo in un pertugio tra un chiosco di frutta e verdura e un barbiere. Un avocado maturo mi si spalma sulla camicia, una ragazzina acerba, che avrà al massimo 12 anni mi alza la minigonna davanti con le mani tremanti e il sorriso di rossetto sbavato.
Da una casupola bassa col tetto in lamiera esce Hulk, o almeno la sua controfigura fuori dalla Russia.
Rassicurante, simpatico come una cartella esattoriale notificata il 31 dicembre del quarto anno dall’iscrizione a ruolo, mi fa segno di sedere. Non c’è una sedia manco a immaginarla disegnata a spray sui muri della favela.
La bambina col Parkinson da colla mi porge una cassetta sgangherata della frutta.
“Mia nipote, la vuoi, Bunda?”
“Noo, grazie…ne ho già una, la figlia di mia sorella!”
“Qual è il lavoro, Bunda?”
“Semplice. Dobbiamo introdurci al Quality Inn prima delle 10, entrare in camera del portiere Sirigu e accidentalmente incrinargli nuovamente la costola”
“Non so di che parli, Bunda. Ma per cinquemila reais si può fare”
“Affare fatto, ma chi minchia è Bunda?”
“Ahahaha”
“Duemila subito e tremila dopo, Bunda”
Sarà un intercalare.
“Duemila subito ma li do a Estevao e li tiene lui…altrimenti mi scappi, Bunda!”
Hulk mi vibra una maxiceffa che sortisce effetti indesiderati: dal timpano destro riascolto per intero l’inno del Cile cantato fuori sincrono da Sanchez, Isla e Vidal.
Bunda vuol dire asino, e può essere riferito solo a un europeo.
“Chiedo scusa, non lo sapevo…”
Estevao esce da una stanzetta con un sacchettino nero in mano.
Ci porta a sud di Petropolis, in un negozio di uniformi. Devo ammettere che il sosia di Hulk con la livrea sta che è una bellezza. Sembra Frankenstein junior quando cantava Puttin’ on the Ritz.
Io decido di vestire più classico, da maschera del teatro di Fitzcarraldo. Preparo anche lo sguardo carismatico e tenebroso di Klaus Kinski.
Ci dirigiamo al Quality Inn.
Estevao consegna a Hulk un ciuffo di qualcosa.
“Eh no, dai, non facciamo scherzi che roviniamo tutto”
“Amigo, è legal! Ista è maconha…è un’erba che se fai un tè cura la malaria, che da queste parti ti stende come Van Gaal a Del Bosque. Solo che noi la fumiamo, è mas divertido! Manaus nao è crackolandia!”
Divertido un casino, mentre arriviamo in zona Quality Inn, Manaus si è già trasformata in Bellagio, Estevao sembra Vasco Da Gama e ho delle visioni strane: tucani e pappagalli svolazzano tra panni stesi e fili del telefono, donne con bambini in grembo ballano in mezzo alla strada, poliziotti del traffico chiedono mance abbordabili per lasciarti passare.  Tutto è a colori di instagram e c’è anche Alberto Molinari che fotografa vetrine, pali della luce, autobus e mignotte e li spara in tempo reale su facebook.
Hulk ha un cugino che lavora lì dentro e due o tre buoni motivi per ricattarlo.
Il cugino ha confermato che Sirigu sta ancora dormendo e che Balotelli non ha passato la notte in albergo. C’è un imponente servizio di sicurezza rinforzato da Albertini al centro e Gabriele Pin sulla destra. Come spesso accade, manca la fantasia. E quello, se permettete, è il campo del Jorquera di San Fruttuoso, di Freddie Beccioni.
Scorgo il secondo di Prandelkin che fa segno di rientrare.
E’ il momento, mi avvicino addobbato di cotanto travestimento.
“Buongiorno, sono dell’Istituto Brasiliano di Cultura Italiana. Domani al teatro Amazonas di Piazza Sao Sebastiao, c’è una matinée di musica lirica in onore della nazionale, in ricordo di quando il tenore Caruso suonò a Manaus. Qualcuno di voi potrà partecipare?”
“Ehm…non so, dovrei chiedere” balbetta il potentissimo e rispettato Vicepresidente della FIGC, facendo vibrare le sue labbra da dromedario.
Ci avviamo nella hall. Vedendomi con loro, la security non muove un capello. 
Hulk intanto è già al quinto piano, con il pass del cugino al petto e un vassoio di bronzo in mano.
Le poltrone in pelle rossa sono già occupate dai mattinieri: De Sciglio con un tablet, Barzagli con un ipad, Immobile con la PSP, Insigne con le miccette e Abate con la barbie.
Approfitto della distrazione del consierge, alle prese con mille domande di Abete sul conto del bar notturno, e inforco le scale. Incrocio una donna delle pulizie con la faccia da Fuleço e le consiglio di farsi un frigobar di cazzi suoi.
Il piano, non il quinto, è così semplice che lo capirebbe anche Cassano:  attendiamo fuori dalla camera di Salvatore Sirigu, uno da un lato della porta e uno dall’altro. Appena la porta si aprirà, faremo finta che passando si lì, per la sorpresa dell’evento e per evitarlo, ci si scontri. Hulk cadrà addosso al Sirigone e con il pesantissimo vassoio, accidentalmente, gli fracasserà la terza costola destra, quella che lo ha fatto soffrire fino a tre giorni fa.
La strada per Perin sarà spianata! Mattia sarà l’eroe di Italia-Inghilterra e la sua quotazione salirà permettendo al Genoa di rimettere a posto le finanze in vista dei pagamenti di fine giugno.
Sì, sono io! Klaus Beccioni, eroe dei due mondi, Salvatore Rossoblu di San Mattia Consacrato grazie a Salvatore Martire Scostolato e Sconsolato!   
Siamo pronti. Con i mocassini formo qualche ruga sul tappeto a quadri del corridoio, la cui instabilità potrebbe diventare una scusa supplementare. Hulk mi strizza l’occhio e fa segno di preparare gli altri tremila, che lui sparirà dalla scala antincendio dove lo attende il cuginetto. Che si chiama Danilo Silva, almeno così è stampato sul pass.
Mentre trasferisco i contanti dalla tasca dei pantaloni a quella della giacca, ecco che si apre la porta.
Ci dirigiamo l’uno verso l’altro e via! Inciampo e mi ritrovo per terra insieme a Salv…no cazzoooo, insieme a Perin!
Due secondi per guardarci in faccia. Hulk è sopra di noi.
“Noooooooooooo non farloooooo! Ele nhao è Sirigu”
Mattia è atterrito ma mi guarda con un ché di curiosità, Hulk brandisce il vassoione.
Forse ha capito, mi frappongo tra lui e il capellone rossoblu. Mi arriva un colpo di bronzo tra lo sterno e la bocca dello stomaco. Saltano costole come su una brace.
Lingua tra i denti, occhi inespressivi, pomo d’adamo ingrossato. Ho l’espressione di Messi dopo mezzora di gioco.  Hulk mette la mano nel taschino della giacca, si rialza e sparisce.
Mattia si libera facilmente della mia morsa e fa per rialzarmi.
“Ma che cazzo è successo?”
“Ci…uhf…ci siamo scontrati con un cam…ggghhff…cameriere…ti ho protetto dalla sua caduta…”
“Ma…a te ti ho già visto…tu non sei quel tifoso cantante…Brenzoni…no, Beccini…”
“Beccioni, Freddie aghff…Beccioni…mi fa piacere che tu mi conosca, caro”
“E…scusa la domanda… che ci fai qui?”
“Uhf…eh…domattina c’è uno spettacolo di musica italiana al Teatro Amazzhhff…Amazonas organizzato in onore della nazionale…mi hanno inv…ehgff…invitato. Mi raccomando, non dire niente di questo incidentino, okay? E forza Genoa! Uuhffhff…peccato che Sirigu si sia ripreso, vero?”
“Peccato? No no va bene così…mi cagavo un po’ addosso a giocare io”
“Ah…ecco!”
“Ma anche tu non dirlo a nessuno questo, okay?”
“Tranqu…ohfff…nquillo, non sono mica un cazzo di giornalista”
“Dai, vado che sono in ritardo…oh ci vediamo eh?”
“Sicuro!”
Mattia sale sull’ascensore. In corridoio non c’è nessuno. Cerco di riprendere la posizione eretta.
Sento dei passi. Vorrei essere un membro della tribù amazzonica Huni Khui, che non hanno mai avuto rapporti con la civiltà. Quelli che sono stati fotografati solo dagli aerei, e mai comunque da Alberto Molinari. Sbuca uno del personale, con la faccia da Herrera del Messico, il calciatore più bello dei mondiali, se al posto di giocarlo esseri umani, partecipassero i cercopitechi.
Ha il pass di Hulk, è il cugino stronzo Joao!
“Por favor amigo, qual è o’ quarto de Sirigu?”
Mi indica quella da cui è uscito Perin.
“BUNDA!!”
Cerca di vibrarmi uno schiaffone e mi spintona verso la scala antincendio.
Eccomi, un artista di strada con due costole incrinate e la condizione atletica di Forlan, in giro per Manaus.
Mi vedo Uruguay- Costarica all’Eddie’s Pub, cercando di deglutire un bobo de camarao, zuppone di gamberi di fiume in salsa di rifiuti tossici al profumo di alberi disboscati da Bono, Jovanotti, Sting e qualche altro Che Guevara con i soldi. Disgustoso ma più digeribile della zuppa Campbell per Muslera.
Rinfrancato dal risultato a sorpresa e da una mezza boccia di Ypioca Reserva e con l’idea che allo stadio ci saranno parecchie zanzare, torno verso Petropolis in cerca di quella meravigliosa cura contro la malaria.
Maconha, ragazzi! Quando si dice le medicine naturali!
Che divertido allo stadio!
E’ tarda notte e sono ancora in giro a festeggiare. Non so se quel che ho visto era vero, ma tanta gente che saltella con bandiere tricolori, di cui nessuno parla una parola d’italiano, ma quasi tutti conoscono la grammatica ventimiusa, mi fa pensare che davvero abbiamo vinto. Anche se non posso credere che il migliore in campo sia stato davvero Darmian, che con Barzagli e Paletta abbiamo preso solo un gol e che Candreva abbia giocato 80 minuti e colpito un palo.
Speriamo che domattina non si presenti nessuno al Teatro Amazonas.
Sono in modalità Huni Khui e non ho proprio voglia di cantare.
Forza Genoa, Forza Italia, w la maconha!

martedì 10 giugno 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 1 - Tutti dentro il grande Fuleço di Brasil 2014

“Tra un campionato mondiale di calcio e l’altro passano quattro anni.
Tra un campionato mondiale di calcio e un campionato europeo di calcio passano due anni.
Tra un campionato nazionale di calcio e l’altro passano al massimo tre mesi, tra una partita e l’altra una settimana, tra una domenica di campionato e una sfida di coppa tre giorni appena.
L’importante, nella vita, è suddividere il presente in tanti piccoli passati prossimi che viaggiano qualche secondo prima di te, come una trasmissione via satellite.
Se li registri bene, non ci sarà bisogno di rivederli alla moviola”.
Questo scriveva, qualche mondiale fa, un mio caro amico che masticava di palle e di vita.
Si potrebbe aggiungere che tra un mondiale di calcio in Brasile e l’altro passano 64 anni e sarebbe già una buona conquista vederne due. Anche se il Brasile non è la culla del futebol, ne è sicuramente l’emblema e anche la faccia più bella. Stadi stracolmi di gente che salta come i cangurù di Bahia, danza al ritmo di pallosissimi samba e si colora la faccia meglio di Vendola, donne che si colorano le tette e la bietola senza Venderla, alla faccia del dominio televisivo e della pornografia da salotto.
E’ un dato di fatto che questo mondiale  brasileiro potrebbe essere un crocevia. Difficile lottizzare una nazione così vasta, varia e legata a tante radici diverse, tenute insieme in maniera misteriosa, come lo spogliatoio dell’Inter.  Negli ultimi due decenni ci hanno provato convincendoli che era un Governo di sinistra quello che glielo stava mettendo nel deretano, che era un capitalismo fatto in casa, quindi genuino, ecocompatibile, bio e privo di conservanti. Ora Dilma, la donna con il nome da servizio segreto e il cognome da ballerino armeno, con faccia e postura da albero della gomma, tranquillizza tutti e ricorda quando, durante i mondiali del 1970 a Città del Messico, nel Paese c’era la dittatura e lei era in carcere. Ora il suo esercito spara proiettili della stessa materia della sua faccia addosso ai dimostranti di San Paulo.
Crocevia o boomerang? Pare chiederselo anche Fuleco, l’armadillo mascotte di Brasil 2014, che tiene il pallone sul palmo della mano alla stregua di Amleto. Etere o non Etere?
Tra l’altro, lo sapevate che in dialetto carioca, Fuleco (anzi, Fuleço) significa “buco di culo”? Dite che i creativi della Federazione non lo sapevano?  In ogni caso, propongo, in memoria dell’armadillo Flavio Keirrison Grifondoro, detto il Guru, di istituire per questi mondiali il Fuleço d’oro (Candreva, ve lo dico subito, è fuori concorso e per fortuna Montolivo ci ha pensato da sé).
Eppure questo Brasile così genovese, così genoano, così incredibilmente brasiliano. Così vicino e così lontano. Brasile che fu scoperto da un navigatore lusitano di nome Cabral, chissà se il nostro idolo, abbracciato troppo tardi e salutato troppo presto, è un lontano discendente. “From the cradle to the grave”, cantavano gli U2. Il Brasile non è la culla del calcio e Cabral non è la sua tomba. Ma quasi.
Sono dati di fatto,  come quello che la caipirinha fa cagare e che se da noi i “No-Tav” sono considerati terroristi, l’inventore della caipiroska alla fragola dovrebbe essere deportato a Manaus, appeso per i piedi e costretto a guardare a testa in giù “La terra degli uomini rossi” di Marco Bechis fino a che non abbia imparato tutte le battute a memoria. Ma parliamo di cose serie con la stessa leggerezza con cui Montolivo affronta le amichevoli premondiali:  cosa bere in Brasile che non sia d’importazione? Cachaça invecchiata 12 anni di Minas Gerais (la Ypioca Reserva si trova anche in Italia) e poco altro. Ora che il vino cabernet Forestier è stato acquistato dalla Richard, quella del Pernod, parabola minore che mi ricorda un giovane promettente quasi omonimo che il Grignolino di Grugliasco si bevve perché non sapeva fare il mediano e il prete di Conegliano non lo ha considerato, spedendolo a Watford, non resta che bere bella birrozza fresca. La migliore? Veneta! E’ la Schincariol, i cui fondatori arrivavano proprio dal paese di Guidolin. 
Bisogna alzare un po’ il grado alcolico, per sopportare il calcio di oggi e la logica dei grandi eventi. Tutti promettono di dividere le acque come Mosè, e invece lasciano le acque alte e si dividono i dividendi come il Mose.  Così ci tuffiamo in un mondiale lontano per dimenticare l’Expò milanese così vicino alla Calabria e la Carige così vicina alla dogana di Chiasso.
Il calcio tecnicamente soffre della stessa malattia di tutte le cose del mondo, c’è un appiattimento generale in forza di più concretezza, velocità d’esecuzione e meccanicità. Ovviamente sono fantasia e creatività ad accomodarsi in tribuna (o meglio, a restare fuori dallo stadio ed alimentare la protesta), più o meno è la stessa tristezza di vedere gli chef calabresi degli azzurri, che potrebbero giostrare tra sarde ca’ muddica atturrata o i perciatelli cu’ pisci stocco di Mammola, esibirsi quasi esclusivamente in vermicelli barilla (ma Abate li mangia?) con pomodoro e parmigiano, ovviamente senza soffritto.
Ma il Brasile no, lui non ci sta! Manifestazioni, scioperi, raccolte di firme per contare chi spera che la nazionale verdeoro non vinca i Mondiali. Tutto questo a pochi giorni dall’inaugurazione in uno stadio non ancora ultimato. Ma anche in Sudafrica consegnarono le chiavi degli spogliatoi due ore prima del waka-waka di Shakira. Per Brasil 2014 la sigla invece è cantata da un rapper mezzo cubano con il nome da cane e da una ballerina mezza portoricana con il cognome da meteora di Preziosi. “We are one, Ola Ola” e viva il Brasile!  Sai che gioia per quelli di Rio e di Belo Horizonte, a cui già se dici che la samba è un ballo latino-americano fanno scattare il serramanico…è la globalizzazione, baby! Ma anche l’ignoranza, che tende ad assimilare tutto. Brasile? Caipirinha, Cubalibre, Churrascaria, Merengue, Pampero! 
Il brasilianissimo Ricky Martin ha composto l’inno di riserva, dall’originalissimo titolo “Vida, ha, ha, ha”,  Shakira, da Copacabana, ha già risposto con il controinno: “Dare: La la la”. Peccato che Pippo Franco non sia martinicano, perché un remix di “Chì Chì Chì co co co, curucurucurucù qua qua” sarebbe cascato a fejioada.
Solo su due cose davvero brasiliane, che si possono anche accorpare e ridurre a una sola, il popolino mondiale si trova d’accordo: le chiappe e i travestiti. Allora lo vedi che è tutto come la finta sinistra di questi tempi?  Pensi sia donna, le apprezzi il culo, ma a un certo punto sfodera il Pingo de Pinga e te lo mette nel Fuleço. Etero o non Etero? 
Va a finire che non disdegneremo, come di sorbirci questi mondiali e tutte le caipiroske mediatiche.
Scusate le digressioni e i francesismi senza nemmeno Ribery; torniamo al calcio, che tra un po’ si parte: vi starete chiedendo (e se non ve lo siete ancora chiesti, un Fuleço in omaggio a tutti voi!) “Per quale nazione e nazionale farà il tifo il Beccio?” Qui, miei cari orfani di Cabral, entrano in campo le tante anime di Freddie Beccioni. La propensione alcolica direbbe Costarica, per il Ron Centenario 30 anos, ma poi penso alle reali possibilità e torno inevitabilmente alla Cachaça. La propulsione mignottica mi direbbe Russia, ma poi penso a Capello e Putin, mi si ammoscia e torno direttamente a Copacabana in cerca di un bel Fuleçon.
La predisposizione alla polverina mi dice Colombia, ma poi penso al nano, alle ballerine a Micciché e alla Santanché e mi fumo un narghilè. La progressione africana direbbe Ghana e Costa D’Avorio, ma rimane un’utopia e mi accontento di Balotelli. Infine la prostrazione genoana mi direbbe Croazia e Grecia, ma poi penso alla monetizzazione dell’infame, e dico…andate a prendervela tutti nel Fuleco! Vinca chi gioca meglio e speriamo non siano le solite.
In ogni caso, Russia e Colombia me le gioco. Il Belgio lo dicono tutti, quindi non ci credo. 
Intanto, udite udite! Abbiamo la formazione rossoblu pre-cinese dei mondiali (dove Pre sta per “si toglierà dai coglioni?” e cinese sta per “guarda che ci tocca sperare”), che è quel che mi ha commissionato anche con una certa arroganza l’ala di sinistra dei GIR, a cui più che le chiacchiere anarco-sorco-situazioniste di un ubriacone fanno godere i quizzoni e altre robe da sdraio e ombrellone.  
Eccola: PERIN, VRSALJKO, VAN DEN BORRE, VELOSO, VON BERGEN, BONUCCI (o RANOCCHIA), FETFA PIG, BEHRAMI, BOATENG, PALACIO, IMMOBILE. ALLENATORE: SABRI LAMOUCHI
Quizzone del Beccioni: almeno 4 di questi mi stanno tremendamente sui coglioni. Indovinate chi sono! La soluzione tra qualche giorno, dopo la sconfitta della Corazzata Prandelkin.  E adesso, in onore degli scioperanti del metrò di Sao Paulo e del nostro Benefattore pronto a ballare l’Ola Ola a Guangzhou, beviamoci una caipirissima con ron Bacardi Anejo, balliamo un cha-cha-cha, stringiamo il fuleço e…tutti pronti per il magico mundial!      

domenica 1 giugno 2014

RINO 33

Da 33 anni la musica italiana non ha la tua originalità, l'ironia, il gusto del surreale così strettamente legato alla realtà, l'anarchico, arrabbiato, passionale amore per il tuo Paese. E la vita non ha la tua curiosità, il tuo spirito, la tua voglia di essere avanti senza mettersi su un piedistallo, anzi, guardando spesso giù. Questo è il mio omaggio, grande Rino.
Freddie del Curatolo: La 1100