mercoledì 31 marzo 2010

FREDDIE BECCIONI: 2 - SIENA-GENOA A MARCIA INDIETRO


Son partito da Zena giovedì mattina, dopo aver smaltito la mezza delusione per la mancata vittoria del Grifone contro il funambolico Palermo. Complici due bottiglie di Grey Goose e la presenza di Odorizzi, Arcoleo e Silipo vicino a me in tribuna (quando attacco le figurine degli ex sulla poltroncina di fianco alla mia, il Genoa non perde mai), ho sofferto e gioito come sempre quando gioca il Grifone, ma alla fine la Champions League mi è sembrata leggermente più lontana, come il Suv che ho parcheggiato in una cacchio di salita di cui non ricordo il nome. D’altronde io vivo a Milano, città senza salite e con sette/otto parcheggi per un solo stadio. Così al fischio del rigore, seguito dopo tre secondi da altri tre fischi simili, ho lasciato le figurine sulla poltroncina, occupata peraltro da un politico donna in tempesta ormonale preelettorale, e mi sono avviato verso la macchina, componendo una ballata dedicata ai parcheggi angusti in riva al Bisagno, che ho intitolato con un colpo di genio “Ballata dei parcheggi angusti in riva al Bisagno”.
Intorno all’una di notte ho ritrovato il mio X-Five nero e me ne sono andato a dormire a casa degli zii a Sant’Ilario. Quel lemure di zia Esterina mi ha lasciato cima e stoccafisso accomodato fuori dal frigo, mentre quella cima di zio Tiberio, doriano da mezza generazione e calabrese da sedici, stava accomodato come uno stoccafisso sul divano, russando come Bocchetti in marcatura su Pastore.
Complice lo stoccafisso (no, non zio Tiberio), ho sognato il progetto di un nuovo stadio tutto rossoblu dietro casa degli zii, a cui posso accedere direttamente dal giardino del condominio, senza tirare fuori l’auto dal box. Poi ho avuto un incubo, un Genoa che non riesce a segnare nemmeno al Siena, la difesa più perforata della serie A.
“Bisogna invertire la tendenza” mi sono detto, svegliandomi e correggendo il caffè con un gotto di Grey Goose, mentre componevo una samba dal titolo “Cambiare marcia, invertire la tendenza”. Così ho deciso di partire immediatamente per Siena, viaggiando a marcia indietro.
L’amico Gigi Comacina, regista di sicuro avvenire, mi segue per girare un docu-fiction sull’avvenimento. Due telecamere, una steady-cam, dodici bottiglie di Grey Goose.
Problematico è stato uscire da Zena e prendere la mano per le curve e i rondò, ma già a Nervi, quattro ore più tardi, la situazione era sotto controllo. E’ bastato scrivere sul cofano “Stiamo girando una fiction, c’è una telecamera puntata su di voi” che tutti quelli davanti (o meglio, dietro) che seguivano, hanno iniziato a dare spettacolo. Già a Camogli parecchie macchine erano posizionate come noi e procedevano in retro, mi hanno offerto anche una frittura di pesce. E poi aspiranti veline, comparse a scomparsa, adolescenti che riprendevano col telefonino il proprio investimento da parte di Tir che procedevano in senso contrario. A Rapallo, alle prime luci della sera, la polizia mi ha fermato, ma il codice della strada non prevede sanzioni per chi viaggia in retromarcia nella sua corsia, a meno che non intralci il traffico a chi sopraggiunge. Così mi hanno multato per corteo non autorizzato, diffidandomi dal procedere. Peccato, a Santa Margherita mi era giunta la notizia della sponsorizzazione della Grey Goose all’evento.
L’eco dell’originale propaganda per invertire la tendenza che vuole il Grifone deludente in trasferta, è comunque giunta all’orecchio dei tifosi, che domenica saranno addirittura tremila, perché ci credono ancora, come me. Ho dormito a Zoagli, scarabocchiando il testo di una beguine che si intitola “Voglio passare a uno stadio superiore” e parla della metafora della crescita intellettuale di una persona in relazione al parcheggio del proprio fuoristrada in un comodo garage interrato, prima di andare a vedere la partita. Zoagli è un luogo incantevole ma rozzo, non c’è un locale che abbia la Grey Goose. Però ci sono due sorelle ungheresi conosciute un po’ da tutti per gli ottimi massaggi. Ne avevo proprio bisogno, per via della posizione di guida in retromarcia, davvero scomoda.
Anche Gigi Comacina conosceva le ungheresi, tanto che al mattino presto parte con loro sullo yacht di un amico, per girare un altro tipo di docu-fiction.
Mi alzo alle 11 stropicciato, bevo un espresso corretto cachaça e mi rimetto in cammino, dritto per dritto. Sosta a Brugnato-Borghetto per l’irrinunciabile panino Camogli. Scherzando chiedo al cassiere come mai a Camogli non vendano il panino “Brugnato-Borghetto”, ma lui non mi riconosce e forse per questo non ride alla battuta. A La Spezia faccio incetta di Grey Goose in un’enoteca del Prione e leggo sul giornale che giocheranno Suazo e Kharja. Nel pomeriggio sono a Forte dei Marmi. Ci vuole una serata alla Bussola, per riflettere sul modulo di domenica e su come dare più profondità alla squadra. Ne discuto con Ruzena, una ceka impermeabile al Negroni che mi accompagna nella vita versiliana e che è amica intima di Jarolim. “Lukas domenica sarà titolare” mi rivela. Cacchio, devo avvertire subito il Gasp…lui è convinto che giochi Codrea.
Fare l’alba al Forte è semplice come servire un assist a Sculli, più difficile è portare l’azione a termine. Ruzena se n’è accorta e mi ha abbandonato delusa nella camera all’ottavo piano del Victoria di Focette. Sul comodino, al risveglio alle due del pomeriggio, trovo un biglietto: “tiferò Siena, Ghezzal è meglio di Suazo, anche a letto”. Mi faccio portare quattro caffè in camera, li aggiungo alla mezza boccia di Grey Goose avanzata e shakero il tutto. Prendo la chitarra e mi appoggio al balcone, vorrei scrivere un rock and roll su Forte dei Marmi, ma mi fa schifo. Allora faccio roteare la Gibson come fossi Pete Townshend e la lancio di sotto. Piomba con precisione su un motociclista sull’aurelia, che sbanda e si va a impastare contro un’edicola dei giornali. La musica può far male, se non hai le idee chiare. Un po’ come il 3-4-3.
Nel pomeriggio lascio la Versilia e, attraverso stradine incantevoli, mi dirigo verso il Chianti.
La chianina di Petello a Poggibonsi è sempre una delizia, anche se è la prima volta che la assaggio. Il Chianti è pieno di inglesi e americani, magari incontrassi almeno Sting, gli proporrei un duetto per “A brand new stadium”. Troverei subito un produttore e ci metterei a traino un intero disco di successi del passato rivisitati, più una versione metal di “Ma se ghe pensu” in duetto con Juric.
Finalmente una serata tranquilla. Il brunello sostituisce la Grey Goose come il Papa farà con Tomovic, più tenuta e meno stroncature. La domenica è tutto pronto per la grande sfida. Raggiungo lo stadio due ore prima dell’incontro e i parcheggi sono vuoti, belli, collinari e con una vista splendida sulla città del palio. Chiamo Ruzena sul cellulare, ma mi risponde Jarolim. Attenuo la delusione col pensiero che forse in campo avrà le gambe molli.
Mi avvio verso lo stadio e vedo un’orda di tifosi sopraggiungere. Hanno bandiere, sciarpe, maglie rossoblu. Penso alla contrada della Pantera ma…no! Sono i supporter del Genoa Cfc!!!
Sono quasi più belli in trasferta che in quell’angusto (seppur storico) stadio in riva al Bisagno.
Ma allora perché la squadra non lo capisce e non gioca di conseguenza?
Dai, facciamo un tifo indiavolato, spingiamo Suazo, Sculli, Juric e Bocchetti alla vittoria!
Per una volta decido di non andare in tribuna…si sa mai che rovesciamo la cabala…sarò nella Nord in trasferta con il popolo rossoblu!
Poco dopo il fischio d’inizio, un bellimbusto sciarpato, con un po’ di gente intorno che ridacchiava, mi dice “Ti ho riconosciuto! Sei Beccioni!”. Il Siena batte una punizione, mi chino per firmare un autografo e sento sopra di me come mi fosse arrivata in testa una gibson dall’ottavo piano. Poi avverto una sensazione di colpi proibiti stile Felipe Melo e più nulla.
Ora sono all’ospedale di Santa Maria alla Scala di Siena. Di fianco a me c’è Ruzena che mi legge la cronaca della partita e i commenti del Gasp. Sembra che abbiamo giocato molto bene e solo Curci ci ha negato una grande vittoria. La Champions è sempre più un sogno, l’Europa League è alla portata. Sabato con il Livorno ci vogliono i tre punti, a me ce ne sono voluti trenta. Andrò allo stadio in taxi, in tribuna, con le figurine di Galante, Esposito e Di Gennaro. E che Sant’Ilario mi protegga dai malintenzionati.

martedì 30 marzo 2010

ELEZIONI 3


Secondo giorno di scrutini, per l'elezione del capovillaggio di Kijwetanga, provincia di Malindi. 102 voltanti e 1 astenuto. Scrutinate 26 schede su 102. Grazie al piccolo Madafu, scolaro della prima elementare di Msabah, nipote di Mama Mramba e ghiotto di samosa, possiamo rivelare i risultati parziali: Mzee Ngombe (capovillaggio uscente) 11 voti (di cui uno su carta unta di samosa). Mama Mramba 10 voti, di cui 2 su carta unta di samosa e uno su confezione di fiammiferi "Farasi". Abdullah Abdulrahman detto "ricotta" 4 voti. Baba Olongo 1 voto (su carta intestata avv. Olongo & Olongo & Associated). Sono in corso ora gli accertamenti sulle schede ricavate da quaderno di scuola a righe "Kasuku". Uno dei tre membri del comitato elettorale, rientrato da Matsangoni, ha intato informato del piano d'azione per liberare la capretta Jessica dal villaggio di Matsangoni, dove domani dovrebbe suo malgrado attendere ad un funerale, come dono votivo e alimento di conforto ai parenti.

lunedì 29 marzo 2010

ELEZIONI 2

Si stanno svolgendo gli scrutini per l'elezione del capovillaggio di Kijwetanga. Le operazioni prenderanno più tempo del previsto perchè alcune delle schede sono state ricavate da foglietti ritagliati dal quotidiano "Taifa Leo", negli spazi bianchi. Ma è risultato che gli spazi bianchi erano stati utilizzati precedentemente per avvolgervi le samosa appena fritte da mama Mrefu. Il presidente di seggio, Katana Ndege, ritiene che le schede unte, parzialmente illeggibili, indichino la stessa mama Mramba come capovillaggio, il che costituirebbe un fatto storico (prima donna capovillaggio in Kenya), mentre il vicepresidente di seggio Charo Ngombe, fratello del capovillaggio uscente, Mzee Ngombe, ritiene che le schede che odorano di carne debbano essere annullate. La disquisizione procede, ma tre dei membri del comitato elettorale stanno partecipando alle ricerche della capretta Jessica, che sembra essere stata avvistata a Matsangoni, pronta per essere cucinata per un funerale.

domenica 28 marzo 2010

ELEZIONI 1

Elezioni del nuovo capovillaggio di Kijwetanga: astensione 1% circa su 103 votanti. Il guardiano delle capre che si è perso da tre giorni nella Sokoke Forest per recuperare la capretta Jessica, scappata per paura degli imminenti festeggiamenti pasquali.

giovedì 25 marzo 2010

Dalla Prefazione de "I RACCONTI DI NONNO KAZUNGU" Parte Seconda

Prendere o lasciare, questa è l’Africa, signori!
Il regno degli animali, d’ogni tipo.
Qui accadono cose che hanno parallelismi solo nel mondo delle barzellette (ci sono un inglese, un indiano, un keniota e un italiano…) o nei racconti per fare addormentare i bimbi (quelli che anche i più piccini prendono sonno non tanto convinti delle balle che spara papà): ogni cacciatore italiano presente in loco ha ucciso almeno venti leoni e cinque rinoceronti, sessanta bufali e un paio di ranger, rischiando la vita più di chi viaggia in matatu.
Gli istruttori di diving vantano decine di record mondiali di apnea mai omologati (per paura dell’antidoping?), alcuni di loro hanno tentato la traversata dell’Oceano Atlantico in groppa a una manta di sette metri, altri hanno fatto l’amore tra le perle della Micronesia con una gnoccolona a scelta tra Elisabetta Canalis, Monica Bellucci e Sofonisba Pelagalli detta “Biba” (un’amica loro a cui piace “farlo strano”).
La “Biba” ovviamente salta fuori solo quando con le prime due non attacca: “Ma come, non conosci la Biba…hai presente la Bellucci? Spiccicata!”
Poi arriva quello bravo davvero che ti offre da bere, ti propone lo snorkling a Watamu e in confidenza ti rivela: “Ho preso il patentino da turista a Hurgada, d’inverno mi sono perfezionato in piscina a Settimo Torinese, ho fatto un corso di salvataggio nel lago d’Orta con la Croce Verde e da tre anni sono qui”.
Il turista (dopo aver finito la birretta), nove volte su dieci risponde: “Grazie, ma ho già prenotato le immersioni con l’ex fidanzato della Canalis…”

Sfilano, su un grande palco di corallo e galana, chef executive che hanno messo radici a Malindi perché ancora non hanno capito il segreto della bontà delle samosa di Jabreen, tour-leader che hanno portato a spasso i più importanti politici e uomini d’affari del mondo e oggi hanno a che fare con gli incentive dei gommisti di Bitonto e dei ferramenta di Belluno, ex fotomodelle col cervello iperattivo che si trastullano per sei mesi all’anno a Watamu perché dicono sia l’unico rimedio contro lo stress, ma in realtà hanno scoperto come ricavare il botulino liftante dal red snapper.
Avete mai sentito parlare un qualsiasi pseudo-artista italiano a Malindi?
Autocelebrativo, autostimato, autosbrodolante, automunito (questo è un pregio, almeno non dovete riaccompagnarlo a casa dopo avergli offerto la cena).
Trattasi sempre di uno dei pochi geni (incompresi) del pianeta, capitato a Malindi soltanto perché l’Africa lo ha stregato.
L’Africa lo ha stregato e lui vive a Malindi?
Come mai non nel Serengeti tanzaniano o nella meravigliosa Namibia, in mezzo ai colori irripetibili del lago Turkana, tra l’ammaliante musica del Mali o nella magia dello Zambesi?
Voleva una città crogiuolo di razze, migrazioni, melting pot, stimoli, tracce umane?
Voleva fermento culturale?
Perché allora non a Youndè, a Lusaka, Cape Town, Luanda, Maputo, Dar Es Salaam, al limite Nairobi?
Forse voleva solo Fermento?
Sarebbe come incontrare oggi in Italia uno dei più grandi poeti viventi americani e scoprire che risiede a Cinisello Balsamo perché si è innamorato della nostra bella Penisola.
Può capitare, per carità, ma lo vedremmo meglio a Lerici, Stintino, Sorrento, Vieste, Capalbio, o in città come Venezia, Firenze, Bologna…a meno che quel che ama dell’Italia non sia l’ottimismo dei discount e quello delle nigeriane in tangenziale…
Insomma, gli artisti che abbiamo in casa sotto il tetto di makuti ce li invidia mezzo mondo e bontà loro restano qui a farci compagnia e a trasmetterci un po’ della loro cultura.
Pensate che fortuna, guarda caso la loro arte è anche in vendita!

Tanto per fugare ogni dubbio e fare un esempio, sappiate che l’autore di questo libro è un giornalista fallito; non è mai riuscito ad approdare in pianta stabile a un quotidiano nazionale, a un settimanale europeo o a un mensile mondiale. Ha provato a fare il cantante ma non era abbastanza intonato, l’attore ma non era carismatico, il cuoco ma si mangiava tutto.
La sola alternativa rimasta era trasferirsi a Malindi, dove ancora oggi può campare spacciandosi per intellettuale e spacciando libretti demenziali.
E’ l’unico posto in cui fa la sua porca figura e si mantiene.
In realtà lui detesta l’Africa, sognava di vivere in periferia di Verona: è classista, sessista, ballista, barista, narcisista, boccadorista, piazzista, forzista, avventista, fu-turista ma non lo è più.
Non apprezza la natura, odia il mare e la frutta tropicale. La sola cosa che adora dell’equatore è la zanzara anofele.
Bando alle ciance!
Per fortuna la clownerie da queste parti ultimamente è in forte calo, bisogna comunque ringraziare le mascherine di cui sopra: proprio perché a Malindi esistono personaggi così, e rimangiarsi le parole qui non provoca indigestioni, al loro fianco si muovono con lo stesso passo cadenzato fior di artisti originali e meritevoli di considerazione (i migliori sono quelli che non sanno di esserlo) e menti libere, splendide, geniali.
Qui si ha il tempo per scavare un po’ più in profondità, cercare l’anima delle persone, stanare i narcisi e scoprire i puri, valutare e trarre le proprie conclusioni.
Insomma, se a Malindi non ci fossero gli uni, non ci sarebbero nemmeno gli altri e tutte le teste pensanti, le bocche parlanti e le vite presenti concorrono, nel bene e nel male, a creare immagini, istantanee, frammenti di storie che diventano film.

lunedì 22 marzo 2010

FREDDIE BECCIONI: 1 - RUSSO, UNA RUSSA E I TRE BACIONI DI FIRENZE


Strano. Quando vedo il Genoa in trasferta alla tv su un divano “Tylosand” dell’Ikea blu a righe bianche, avvolto dal freddo e dalla nebbia dei navigli milanesi e immalinconito dalla “saudade” di Zena e della maccaia, il Grifone non perde mai.
Ma c’è sempre una prima volta, come diceva mia nonna Ubaldina. Mio nonno Gianrico invece sosteneva che non tutte le ciambelle vengono col buco, figuriamoci le ciambrutte, ehehehe.
Al fischio d’inizio del signor Russo, che non sembra essere parente del centravanti di un Grifone che mi faceva soffrire da ragazzo più delle fidanzatine, appoggio la chitarra sul pavimento, dopo avere scritto un nuovo inno del Genoa 1893 Cricket and Football Club e aver arrangiato una versione reggae di “Lo porti un bacione a Firenze”, e mi concentro.
Nemmeno il tempo di finirmi la prima bottiglia di “Grey Goose”, una vodka francese nuova e molto trendy che mi ha consigliato Cesare Cremonini, e Gilardino si spiaccica a terra, si contorce ma inventa un passaggio che manda in confusione la nostra attentissima difesa, pronta a disputare una gara leonina come quella di San Siro, che ero andato a vedere in tribuna al Meazza sfidando la cabala e un principio di cervicale, l’emicrania vasomotoria a grappoli e l’agorafobia.
Così Gobbi s’incunea e inventa un passaggio per Santana, che (quando si dice la sfortuna) non avrebbe nemmeno dovuto giocare, se Marchionni non si fosse infortunato, così come lo stesso Gobbi non avrebbe mai potuto inventarsi niente, se Vargas fosse stato recuperabile. Noi invece da quella parte non abbiamo il capitano coraggioso Marco Rossi…
Il brasiliano, che non sembra essere parente del chitarrista di Abraxas, si esibisce in un numero mai osato prima e l’incolpevole Amelia deve solo raccogliere il pallone nel sacco.
La tattica preparata minuziosamente in settimana da Gasperini se ne va a farsi benedire da Don Gallo, io apro la seconda boccia di “Grey Goose” (mi fa impazzire questa vodka francese) compongo all’istante una bossanova sull’emicrania da salotto e mi preparo alla reazione del Genoa. Quando mi risveglio, è il quarantesimo del primo tempo e la Fiorentina attacca, ignoro cosa sia avvenuto prima, ma posso immaginare invece le parole di Gasperini durante l’intervallo. Io mangio una confezione di amaretti di Sassello e finisco la “Grey Goose”, che inizio a sentire, compongo un nuovo inno per il Grifone con il ritornello che fa “Una rete, una rete, rossoblu fateci una rete/è la gradinata che lo pretende/dai rossoblu fateci una rete”.
Mi carico. Il match è decisivo per le nostre legittime ambizioni di champions. Possiamo ancora ribaltare il risultato. Apro un’altra “Grey Goose”. In campo c’è Milanetto, che non sembra essere parente del Milanetto che ha giocato contro il Cagliari la settimana scorsa, Zapater invece è proprio lui. Palladino sfiora il gol con un bel tiro e poco dopo Bocchetti alza di poco di testa. Ma la Viola lotta su ogni pallone e sente la posta in palio vicina, noi ci sbilanciamo un po’ di più, grazie alla spinta del subentrato Juric e dell’esplosivo Suazo, la nostra pantera nera. Mi sbilancio anch’io, che rovino sul divano, rovesciando anche un po’ di quella fottutissima vodka francese. Riprendo posizione proprio mentre la perdono Bocchetti e Criscito e Amelia deve intervenire alla disperata sul folletto Jovetic, un vero fenomeno. Rigore dubbio concesso da ‘sto Russo del cazzo e realizzato da Gilardino, che è pur sempre il centravanti della nazionale. Compongo una ballata sulla nazionale a cena con Mandela e cerco di rilassarmi. Citofona Svetlana, le dico, prima di salire, di andare giù al bar da Fabietto e farsi prestare una bottiglia di Absolut che questa merda di “Grey Goose” non mi va più giù, per colpa di Russo. Ora il Genoa fa pressing, ha capito che la gara le è sfuggita di mano. Ma il contropiede di Prandelli, anche se non esprime un gioco totale come il Gasperson, è micidiale. Babacar con un gioco di prestigio fa fuori il povero Bocchetti, che al novantesimo avrà anche diritto di distrarsi un attimo, no? E poi con un colpo di biliardo mette in fondo al sacco il 3-0. Pensate che sfiga nella sfiga, Babacar era nostro, poi Corvino una mattina arrivò prima di Preziosi con il contratto in mano, quel senegalese che aveva paura di finire a fare il “vu cumprà” come nella mia canzone “Vendo Tuto”, firma la prima cosa che gli capita, oltretutto Corvino, senza mentire, gli dice “va’ che io sono genoano” e il fenomeno si ritrova a Firenze invece che a Pegli. Compongo una canzone su Babacar, la clandestinità, l’immigrazione e la casualità contrattualistica, poi al fischio finale di Russo, entra in casa una russa. Come sempre, quando perde il Genoa, sa lei come tirarmi su. Sono certo che anche Gasperini saprà come tirare su la squadra in vista della partita fondamentale col Palermo. Magari non nella stessa maniera di Svetlana, ma sono fiducioso. Poi, guardando la classifica, siamo sempre avanti ai Viola e a pari punti col Napoli. Chi ha mai parlato di Champions? Ecco, sarà il titolo dell’ultima canzone che compongo, se riesco a fare gli accordi con la gibson semiacustica con Svetlana sopra.

domenica 21 marzo 2010

Dalla prefazione de "I RACCONTI DI NONNO KAZUNGU" Parte Prima

Molte delle storie che, da trent’anni a questa parte, si sentono raccontare a Malindi, sono lontane dal vero almeno quanto Malindi è vicina all’Europa.
Certi luoghi sono come le persone: nascono con un determinato DNA e mantengono nel tempo inalterate le proprie caratteristiche primarie, calamitando anime e situazioni che fanno parte del loro stesso mondo.
La Malindi bianca, nella fattispecie quella italiana, dopo pochi decenni dal suo sviluppo, è già ammantata di leggende minori (ma non per questo poco interessanti), di piccole mitologie, di un’aneddotica tutta particolare.
Lo scrittore e umorista Stefano Benni afferma che siamo soliti passare metà della vita a deridere quello in cui gli altri credono e l’altra metà a credere in ciò che gli altri deridono.
A Malindi non c’è questa dicotomia, perchè il tempo è suddiviso in migliaia di minuscoli frammenti: inutili, meravigliosi, insignificanti, speciali fotogrammi di pellicole che si srotolano e spesso si intrecciano, per mescolarsi infine alla storia e alla crescita stessa di questo luogo d’incanto.
Istantanee che, ritagliate e messe in sequenza, possono dare vita al lungometraggio più strano e affascinante mai visto, ma potrebbero anche creare un “mostro” dalle molteplici teste (e che teste!), tante quante sono le storie dei muzungu che ci vivono e ci hanno vissuto.
Ogni testa una vita, ogni vita una storia.
Storie di immagini diventate favole, semplici azioni trasformate in gesta eroiche, comunissimi episodi in leggende grazie a straordinari lavori di taglio e cucito, gonfiaggio e ingrassaggio, trucchi e lifting.
Grazie soprattutto alla scenografia in cui sono ambientate.
Siamo consapevoli protagonisti di un irreality show, ci muoviamo in una Bollywood senza cineprese, in un set senza games, attendiamo un match-ball da sogno nel torneo “open” in cui un maestro di tennis in pochi anni può diventare un imprenditore miliardario, un imprenditore miliardario può diventare estetista e un pensionato ultraottantenne può farsi la fidanzatina del suo compagno di tressette.

Sarà l’Africa.
L’Africa, terra d’intrighi e di vicende inverosimili, di esploratori persi nella jungla e ritrovati in un Lodge (“pensavamo fosse morto e invece è Resort”), di guerrieri pacifici e minoranze efferate, a forgiar gli avventurieri, incoraggiare i volonterosi e ispirare i contaballe.
Sarà il Continente Nero di Karen Blixen, Wilbur Smith, Diego Abatantuono e Anna Falchi (..!) e del Doctor-Livingstone-I-Presume, a coltivare nuovi romanzieri da bar e vecchi viaggiatori alla Fogar (altro che Chatwin…).
Sarà la costa keniota dei Vecchioni e delle Melandri, di Flavio e di Naomi, di Boldi e di Arnoldi, a confondere la poesia con la mondanità, il relax con il business.
E a creare il business del relax.
Qui può capitare che le ONG (Organizzazioni Non Governative) diventino OGM (Organizzazioni Genetica-mente Modificate), che il No Profit si trasformi in Up Profit, i viaggi Low Cost in disagi “Quantomicost?” e la Via Delle Spezie nel Viagra Degli Ospizi.
A Malindi la medaglia non ha rovescio, o meglio ce l’aveva l’ultima volta che l’abbiamo vista, prima che qualcuno se la portasse via.
Vero e falso si sovrappongono e quasi coincidono: se A è uguale a B e B è diverso da C, prima che A si accorga di essere diverso da C, arriva D che gli spiega l’ABC e propone la sua verità.
Non solo Aristotele, ma nemmeno Pirandello ci avrebbe capito una mazza; figuriamoci gli Osvaldi e i Lamberti capitati quaggiù…
Ed è questo il bello di un luogo in cui ognuno può inventarsi la panzana che preferisce essendo sicuro che verrà smentito a priori.
Che senso avrebbe raccontare il vero?
Chissà mai, anzi, che la menzogna creata ad arte sia l’unico antidoto per salvaguardare i propri interessi e la propria dignità.
Non a caso a Malindi potete incontrare i migliori architetti d’Italia, tutti allievi di Renzo Piano e nipotini di Alvar Aalto, fior di ingegneri aerospaziali che per voi si accontentano di costruire ville da sogno (che infatti, da lontano, somigliano a mini hangar di aeroporti…) investitori e broker mega-laureati alla Bocconi e masterizzati negli Stati Uniti (che quella keniota sia la loro copia pirata?).
Ma allo stesso tempo, spuntano dal silenzio del sottobush professionisti che viaggiano a fari spenti, specialisti che non amano farsi troppa pubblicità, gente che fa del bene e crede sia un male farlo sapere in giro.
Umili, modesti, forse saggi.
Non gli si darebbe uno scellino, a guardarli.
Anche perché loro, in controtendenza, non ne chiedono.
Non fanno rumore, non danno fastidio, non sporcano e si integrano così bene nella natura africana che potrebbero mimetizzarsi con un baobab o un varano.

Che strano vederli sfilare accanto a chi invece riesce a vendersi alla grande, a chi diventa tuo amico in una settimana e tuo nemico solo in sede legale, a chi ha capito Malindi e te la spiega, a chi se l’è fatta spiegare e non ha capito, a chi ti propone l’affare del secolo, a chi ti rifila la fregatura dell’anno, a chi ha investito e non si è fermato, a chi è stato investito e non si sono fermati, a chi vorrebbe costruire una discoteca al Parco Marino, a chi è convinto che a Malindi manca un locale alternativo, a chi a Malindi non dà alternative ai locali, a chi fa solo progetti che scadono ogni novantanove anni, a chi fa novantanove progetti in un anno, a chi è il migliore nel suo campo, a chi non è male nemmeno nel campo degli altri…a chi… aaaa…aaa chi sorriderò se non a te.
(fine prima parte)

mercoledì 17 marzo 2010

IL PESCATORE DI MIGINGO


Io non lo so se sono ugandese o keniota. Mi hanno trovato, che non avevo ancora due mesi, dei pescatori tanzaniani su una bagnarola al largo di Kisumu. Dice che la mamma era una che probabilmente faceva la spola tra Kisumu, che è in Kenya, e Jinja, il principale porto dell’Uganda. “Sicuramente non è tanzaniano - hanno pensato e detto del neonato che ero – perché da queste parti le malaya sono tutte ugandesi o keniote”.
In fondo i figli di puttana non hanno cittadinanza, figuriamoci io che non ho neanche una madre.
A dire il vero mi spiace più per lei, avrei potuto essere l’unico maschio a chiamarla con il suo vero nome e a non umiliarla in cambio di denaro. Così sono cresciuto con loro, i pescatori del lago Vittoria. Pescatori di frodo, perché se è vero che le acque territoriali del Kenya sono poco più di un decimo di quelle ugandesi e tanzaniane, è altrettanto certo che il pesce più buono abbonda proprio dentro i confini kenioti. A difendere i pescatori ci devono pensare i pescatori stessi, perché i poliziotti della marina che vengono mandati al confine tra le acque territoriali, non fanno altro che prendere buone mance. I tanzaniani sono contenti, perché i soldati di Kisumu li trattano meglio degli ugandesi, ma la vera battaglia è con gli ugandesi stessi, per aggiudicarsi il punto più pescoso. Fin da piccolo, sognavo di avere una barchetta tutta per me. Come quella dove ero nato, un guscio di legno per farmi gli affari miei. Tanto io mica sono keniota, ugandese o tanzaniano. Io sono figlio di puttana, pesco dove mi pare. E pesco il persico migliore e il furu mangiabile, perché di furu ce ne sono almeno quattromila specie diverse. Io queste cose le so, coi furu ci parlo, perché sono nato in mezzo al lago, come loro. E il lago, mi ha detto il vecchio pescatore tanzaniano Migingo che mi ha fatto da padre, non è come il mare, dove tutto si disperde.
Le storie dei pesci rimbalzano e tornano indietro, ancor più ricche di particolari e di verità. I furu mi hanno detto che sono tra i pesci più antichi del mondo, alcune specie hanno 12 mila anni; il persico del Nilo, invece, è stato introdotto a forza cinquant’anni fa nel lago, creando una rivoluzione.
Lui si adatta e si riproduce facilmente, non ha abitudini particolari e non ha una storia alle spalle da rispettare. Mangia qualsiasi tipo di vegetali ma così facendo ne ruba alcuni tipi a pesci che non ne trovano più e piano piano si estinguono, o cambiano zona, andando sempre più verso l’insondato centro del lago.
Lavorando sodo e ingraziandomi il capo dei venditori di persico di Jinja, ancora giovane mi feci la barchetta. Chi desiderava il pesce migliore, doveva venire a cercarmi.
Una mattina, mentre seguivo la corrente fredda preferita dal persico rosa, mi imbattei in un’isoletta sperduta, a occhio e croce proprio al confine tra le acque keniote e quelle ugandesi.
Se si potesse disegnare un triangolo, tracciando una rotta da Kisumu e facendola incontrare con un’altra che arriva da Jinja, ecco l’isola a cui volli dare il nome di chi mi salvò la vita. Sono sei ore buone di barchetta dalle coste del Kenya e almeno il doppio da quelle dell’Uganda. I poliziotti con le loro lance ci mettono all’incirca la metà. Ma qui non erano mai arrivati, prima di allora.
L’isola aveva una strana forma di pane lievitato, o della schiena di quegli animali da traino che ho visto a Kisumu. Sarà stata lunga duecento metri e larga cinquanta. Uno scoglio con un po’ d’erba sopra, nulla più. Comodo abbastanza per farci una baracca di lamiera e metterci le mie cose.
Col tempo mi ero fatto due capre (no, non come credete voi, per quello vado a Kisumu cercando di non pensare alla mamma, e comunque con mie coetanee, tanto per non sbagliare…) e un orticello, dove però crescevano soltanto spinaci. Meglio che niente.
L’isola di Migingo era una miniera d’oro. Ogni mattina caricavo la barchetta di pesce, ce ne stavano almeno cento chili. Avevo potenziato anche il motore, così in quattro ore ero a Kisumu, rivendevo, comperavo qualcosa per l’isola e me ne tornavo prima che calasse il sole. Non immaginate che spettacolo sia la volta celeste illuminata di stelle in mezzo a un lago di cui non vedi i limiti. E’ tutto blu, intorno e in alto. E ti addormenti felice di essere venuto al mondo proprio lì e a quella maniera.
Tuttavia ero preoccupato per il futuro, che prima o poi qualcuno potesse scoprire il mio nascondiglio, la mia miniera di pesce, il mio piccolo paradiso privato. Così a Kisumu dicevo che abitavo a Jinja e viceversa, ogni tanto incontravo pescherecci ai quali fornivo ottime indicazioni su altre correnti buone per il persico, tanto che mi tenevano in grande considerazione e non facevano molte domande, così come i poliziotti sulle loro veloci lance, ai quali regalavo soffiate sulle rotte degli ugandesi a cui spillare qualche quattrino in più. I problemi potevano arrivare dai nuovi avventurieri lacustri, che non erano pescatori e non avevano le loro regole e la loro filosofia.
Erano pirati o povera gente, che aveva scelto di lasciare la terraferma perché non le dava abbastanza per vivere o perché non abbastanza furbi o cattivi per resistere ai soprusi dei loro simili.
Per me, invece, che ero solo e pacifico, erano abbastanza furbi e cattivi. Quando arrivarono, una notte, per portarmi via le capre, che a quel tempo erano sette, e il motore della barca, neanche me ne accorsi. Ci misi cinque notti a incontrare, con la forza delle mie braccia e dei remi, i miei amici tanzaniani che mi portarono a Bukoba a comperare un motore di seconda mano da pagare a rate. Garantirono per me. A quel punto, però, loro sapevano dell’isola, perché mi ci avevano trascinato a lasciar la barca e ora mi riportavano indietro. Mi raccomandai di tenere il segreto, pena il silenzio futuro sulle correnti del persico. Qualche giorno dopo arrivò invece un peschereccio. Era gente di Kisumu, che conoscevo. Furono gentili, come lo è sempre stato chiunque con me, ma dissero anche che Migingo non era certo mia e che non avrei potuto comperarla, quindi sarebbe stato utile dividerla con qualcuno, tanto più che di pesce ce n’era così tanto che avrebbe dato guadagno a loro senza impoverire me.
Gli dissi dei pericoli dei pirati tanzaniani e risposero che ci saremmo organizzati con turni di guardia. In effetti le cose andavano bene, le loro due baracche di lamiera erano sul lato opposto a quello della mia, in leggero declivio, per avere un po’ d’ombra. Le mie palme, intanto, erano già cresciute. Da loro era ancora tutto brullo e c’erano anche più rocce. Non ero più il padrone di Migingo, ma c’ero pur sempre arrivato per primo. In pochi mesi le baracche erano cinque, più la mia. I parenti dei pescatori avevano capito o qualcuno non era riuscito a tenersi il segreto. Io ormai andavo a vendere soltanto a Jinjia, perché di persico rosa a Kisumu erano piene le bancarelle. Un pomeriggio mi accorsi che un natante mi seguiva. Spensi il motore per far sì che mi raggiungesse, essendo già troppo vicino a Migingo. Ma la barca fece dietrofront e sparì all’orizzonte.
Quando arrivai sull’isola, trovai una vera impresa di costruzioni in lamiera. Le baracche nel giro di poche lune erano già settanta, in quello spazio esiguo. Due ragazzi di Homa Bay, due luo così alti che avevano una baracca su misura che sembrava un piccolo grattacielo, in confronto alle altre, aprirono il primo bar. Tornavano dalla vendita del pesce con alcolici d’ogni genere, avevano un piccolo generatore che faceva funzionare le luci, lo stereo e un minuscolo frigorifero, ma soprattutto portavano la Chang’a appena fatta, una micidiale grappa di tuberi che stendeva all’istante, rendendo più sopportabile la vita in quello sputo di mondo che era per loro l’isola.
Io forse sono un sentimentale, forse solo un pesce che, come i suoi simili, può andare in branco, schiacciato nel gorgo d’una corrente insieme ad altri mille, o solitario a cercar pertugi e anfratti sul fondo di pietre e melma, ma stavo ancora bene nella mia baracca, con due caprette, le mie palme e i miei spinaci. Qualche giorno dopo, sbarcarono a Migingo due battone. Una non si capiva bene se era un maschio finito sotto un camion e riattaccato con i primi pezzi trovati in ospedale, tra cui un paio di tette, o un mostro lacustre dell’arcipelago di SSese. L’altra sembrava il remo di una grossa barca ed era totalmente priva di cervello, probabilmente annegato tempo addietro nella Chang’a. Comunque pagavano la loro baracca cinque volte più del normale ai due luo del Migingo Pub (l’unica consolazione di questa storia e che l’isola abbia mantenuto il nome che le diedi) ed era quella l’unica forma di sfruttamento. Per andare da loro, ogni sera, c’era la fila. Le due avevano assunto uno storpio, si diceva cugino di una di loro, che controllava i pagamenti e soprattutto fermava le danze quando le ragazze venivano meno, anche se il mostro lacustre, che era molto attaccato ai soldi e non voleva fare quella vita ancora a lungo, aveva dato ordine di farsi rinvenire, almeno un paio di volte, con dei sali apposta. Il remo invece non reggeva molto, e anche per questo costava un po’ di più.
Gli ugandesi arrivarono una mattina che non ero uscito. Ormai avevo ridotto la mia attività a due soli tragitti, le altre volte mi limitavo a prendere le mance per segnalare ai miei vicini di baracca i punti migliori dove pescare, dato che loro avevano sempre fatto i contadini. In compenso, finalmente, spuntavano i primi pomodori.
Erano in una dozzina e parlarono con i luo del bar, che ormai erano i boss dell’isola, anche se si consultavano con altri capoccia del commercio ittico e con me solo per le questioni metereologiche o di correnti e rotte. Pretesero una piccola fetta di Migingo in cambio del loro silenzio con le autorità. Sembrava che ci fosse una disputa, attorno a quell’isola e che non si sapesse bene se era keniota o ugandese. Non conoscendola, nessuno dei due governi si era mai posto la questione.
Uno degli ugandesi, in ogni caso, era un poliziotto. Quindi l’accordo fu raggiunto. L’isola ormai straboccava di gente, c’era spazio anche per un altro pub, che non faceva troppa concorrenza ai due boss luo, perché era per i musulmani e non vendeva alcolici, se non di nascosto. In compenso cucinava ottime crocchette di furu e anche qualche dolce strano da mangiare bevendo te alla cannella, secondo me sempre a base di pesce.
Quando tornarono i pirati tanzaniani, questa volta erano armati. Iniziarono a sparare dal largo e le pallottole rimbalzavano o si incastravano nella lamiera. Minacciarono di mettere a ferro e fuoco l’isola e iniziarono con due barche. A quel punto, per salvare il salvabile, gli furono consegnati motori e soldi. Una disgrazia per Migingo, ma anche un evento che per la prima volta fece sentire tutta la gente dell’isola, ugandesi compresi, una cosa sola. Avevano tutti gli stessi problemi e uguali aspettative. Quindi insieme sarebbero usciti dalla crisi, lavorando e prendendo le dovute precauzioni. Il prezzo del persico più pregiato, dal giorno dopo, era già aumentato ed erano state acquistate delle armi dai contrabbandieri ruandesi di Kisumu. La pescosità di Migingo era tale, anche se già diminuita da quando l’avevo scoperta, che nessuno si sarebbe mai sognato di abbandonarla, e che chiunque avrebbe difeso la propria barca e la baracca a qualsiasi costo.
Ma nulla si può fare quando è l’autorità a importi le regole. Si può cercare di far valere le proprie ragioni, ci si può ribellare, ma il timore di essere portati in prigione o anche avvicinati con garbo e poi assassinati brutalmente in alto mare, è troppo grande per osare.
Quando è arrivata la polizia ugandese e ha piantato una bandiera sull’isola, i due luo del bar sono subito scesi a patti con il diavolo, fissando la tassa e così hanno fatto poi i pescatori. Dice che è stato lo stesso poliziotto a cui era stata data una fetta di isola a chiamarli, per difendere i loro interessi dai pirati.
Insomma, Migingo era diventata ugandese ma per chi viene a controllare è tutto a posto.
“C’è solo qualche profugo che si arrangia vendendo il persico” è il resoconto alle autorità portuali.
La sera, al pub, ai kenioti però non andava giù che gli ugandesi avessero piantato la loro bandiera.
E con che diritto? Gli avevano forse mostrato un foglio, una mappa in cui si confermava che Migingo era Ugandese? Così decisero che in ogni caso, avrebbero preferito pagare il pizzo a un ufficiale keniota, piuttosto che a un “nero nero”, come chiamavano gli ugandesi, che spesso sono più scuri di loro. Qualche giorno dopo arrivò anche la polizia marittima keniota, con una lancia meno bella di quella ugandese, ma le divise più pulite. In una cerimonia ufficiale, rimossero la bandiera dello stato confinante e piantarono quella del Kenya. L’appuntamento era fissato per l’ultimo giorno del mese, quando gli ugandesi sarebbero passati a ritirare le tangenti.
E i “neri neri” arrivarono puntuali come solo quando c’è da riscuotere. Le loro facce sono uno dei ricordi più divertenti che serbo dell’isola. Quando videro la bandiera keniota, furono sul punto di caricare i mitra, poi quando videro anche l’ufficiale di Kisumu, che già conoscevano per alcuni scontri verbali in alto mare riguardo ad altre dispute, capirono.
“Siamo arrivati prima noi”
“In realtà sono arrivati prima i nostri, intesi come cittadini kenioti”
“L’isola è ugandese”
“Mostrateci una mappa ufficiale che lo dimostri”
“La stiamo facendo fare”
“Anche noi la stiamo facendo fare, se ne occuperanno i nostri governi”
“A meno che…”
“A meno che?”
“Non lasciamo tutto com’è e dividiamo”
“Noi siamo nella ragione, “nero nero”, quindi non si divide un bel niente”
“Nera nera sarà tua madre, dopo che mio fratello se l’è ripassata…”
“L’ha ripassata tuo fratello perché tu sei frocio…”
Seguono spintoni, cazzotti e per poco non si arriva alle armi. Sono i due ufficiali, ancora a terra, a urlare di finirla.
Ora la questione è in mano ai due governi e tutti conoscono Migingo.
Sono arrivati giornalisti ad intervistarci, televisioni a riprenderci. E’ quasi un anno che non si sa se questo sputo di mondo è ugandese o keniota. Per i monti è più facile, il primo che ci arriva pianta la sua bandiera e se non c’è n’è un’altra, significa che mai nessuno è arrivato fino a lì. Io quando sono arrivato a Migingo, per primo, non avrei saputo che bandiera piantare, perché ancora oggi non so se sono ugandese o keniota. O anche ruandese, zambiano, zairese o uno strano tipo di tanzaniano. La cosa curiosa è che, mentre gli stupidi umani se la litigano, il persico rosa ha deciso di andarsene, e ora intorno a Migingo c’è solo furu e persico insapore.
Così ho preso la mia barchetta, ho potenziato il mio motore, ho riserve di benzina e due caprette. Seguo la corrente del persico buono. Lui conosce l’uomo e conosce me. Sa sempre dove portarmi. Ma questa è un’altra storia che non so se racconterò mai a qualcuno che non sia un pesce.



(KAMPALA) – Prosegue, tra Kenya e Uganda, la disputa per la piccolissima isola di Migingo, in mezzo al lago Vittoria. Da oltre un anno i due stati rivendicano la proprietà dell’isola, uno scoglio su cui vivono oltre cinquecento persone, in prevalenza keniote e tutte dedite alla pesca.
Il giro d’affari derivante dalla pesca del persico, che abbonda in quella zona, ha spinto Kenya e Uganda a sfiorare lo scontro tra forze di polizia giunte sul posto. L’isola è sempre stata ritenuta keniota e abitata da suoi cittadini, ma ultimamente le autorità di Kampala ne hanno rivendicato la proprietà, esigendo imposte e permessi d’ingresso agli stranieri. Per tutta risposta, il Kenya ha inviato l’esercito, che ha deposto la bandiera ugandese. Dopo questa provocazione, con il rischio di uno scontro armato in mezzo al lago, è intervenuta la diplomazia politica. Ma la soluzione ancora non si vede. Secondo racconti dei pescatori di Migingo, fino a qualche anno fa l’isola era abitata da un solo pescatore, di cui però si sono perse le tracce. (ANSA)

lunedì 15 marzo 2010

LA BATTUTA DEL GIORNO

"...ognuno di noi ha un pezzo d'Africa nel cuore..."
"Sì, vabbè...ma proprio a me doveva toccare la Somalia?"

martedì 9 marzo 2010

TONINO CARINO: ADDIO AL SIMBOLO INVOLONTARIO DI UN'EPOCA


Ci sono persone che non sanno di essere un simbolo, di rappresentare l’evolversi della società nel bene e nel male e il mutare di abitudini e costumi. Non lo sanno quasi mai nel tempo presente, a volte se ne rendono conto quando la scia del loro involontario carisma si è già dissolta e diventano addirittura patetici se cercano di riprodurne la luminosità.
L’artista compone o recita per essere ricordato, per lasciare una traccia più profonda possibile del suo passaggio terreno e guadagnarsi l’immortalità virtuale. Lo scrittore, pur con molte più perplessità, cerca di fare lo stesso. “Scrivo perché ho paura che si perda il ricordo di me” diceva Fabrizio De Andrè. Il cronista, invece, si occupa di uno spazio temporale ristretto. Scrive e vende notizie che hanno vita breve. Per sua maggior dannazione, è sempre lì a commentare, a rivelare, a fornire informazioni, ma le sue “opere” muoiono. Come potrebbe sopravvivere nella memoria?
Solo diventando l’involontario protagonista di quelle notizie, trattandole così male da divenire più importante di loro. Chissà se Tonino Carino da Ascoli ha mai parlato di questo con qualcuno, magari con un collega con cui era in intimità nella redazione del Tg regionale di Ancona, o con un addetto ai lavori della società Ascoli Calcio. Chissà se si è reso conto che la società è cambiata parallelamente alla sua uscita di scena, e con lei sta scomparendo un certo modo di scrivere, di fare giornalismo, di comparire in televisione.
Tonino Carino da Ascoli se n’è andato come una notizia di giornata, a soli 65 anni.
Non era vecchio, ma già dimostrava un’età imprecisata, tra i 40 e i 70, quando venticinque anni fa si collegava durante “Novantesimo minuto” per offrire il suo commento della partita dell’Ascoli, quando i bianconeri marchigiani erano in serie A, o per fare il punto della serie B.
Piccolo, avvizzito, con il musetto da scolaro buono e la voce sempre ansiosa, le parole che si perdevano tra lingua e denti prima di saltare fuori come palloni dall’imprevedibile rimbalzo in area di rigore. Triturava congiuntivi, fantasticava sui nomi dei calciatori stranieri, di quell’Ascoli che continuava ad acquistare calciatori slavi per fargli un dispetto. Il suo dirimpettaio era Costantino Rozzi, vulcanico presidente della squadra locale e costruttore edile vecchia maniera (democristiana), che non mancava di bastonarlo se piovevano critiche. E allora l’Ascoli, anche quando perdeva 0-4 in casa, era volonteroso, sfortunato e le altre squadre erano ciniche e aiutate dall’arbitro.
Tonino Carino da Ascoli non era solo il simbolo di un calcio che non esiste più, ma anche di una televisione che ormai non permette che sia il pubblico a decretare il successo di un personaggio, di un eroe involontario da cinque minuti al giorno. Oggi il calcio è televisivo e sono gli inserzionisti pubblicitari a decidere chi è più adatto a mostrarlo. Così avviene in ogni altro ambito, anche nell’informazione, che (pur telecomandata, per carità) un tempo aveva la pretesa di essere asciutta, seria. Oggi ti arriva il commento alla notizia, prima della notizia stessa. E non si è fatta molta fatica ad avviare un processo di spersonalizzazione dei latori della medesima, dato che la società tutta va verso questa direzione.
Però, paradossalmente, i personaggi continuano a fare notizia, perché è nella nostra natura affezionarci all’individuo singolo in massa, e alle masse quando ci sentiamo soli.
Il gossip, poi, è pure aumentato.
Quando nei bar si parlava degli scivoloni lessicali di Tonino Carino, non ci si chiedeva se avesse lasciato la moglie per un’avvenente presentatrice, o dove fosse andato in vacanza. Perché non era giovane, non era bello e non aveva i denti scintillanti. Tonino era umano, era uno come noi.
Oggi forse siamo “noi” ad essere in pochi, o ad essere sprofondati nella parte non visibile dell’iceberg, travolti dal peso della vita in una società che in un quarto di secolo è cambiata radicalmente. Ci hanno tolto pezzetti di libertà, imponendoci le loro scelte, e come in televisione, scelgono loro le persone a cui dobbiamo affezionarci e le notizie che è meglio ascoltare.
Carino, Necco, Castellotti, Ferruccio Gard, Giorgio Bubba…non sono nemmeno più caricature e imitazioni buone per la Gialappa’s, perché anche la Gialappa’s preferisce imitare (o è costretta, se vuole lavorare) i protagonisti del Grande Fratello, che sono tutto tranne che protagonisti involontari della loro vita e del loro mestiere.
Tonino Carino da Ascoli è stato e rimane un simbolo di come eravamo, ma soprattutto di come potevamo essere. Oggi siamo soltanto bravi consumatori e ci sono scuole professionali per diventare simboli. Non è affatto difficile, basta seguire gli appositi manuali. Oggi è una De Filippi qualsiasi a stabilire se puoi aspirare a diventare un emblema di questa società, se hai carisma e porti audience. Nella tristezza propria di chi è allo stesso tempo uomo di (poco) spettacolo e cronista, sono contento di essere riuscito a vivere in un’epoca in cui ho potuto assistere a un cambiamento radicale di costumi in così poco tempo. D’altronde la storia mi insegna che le rivoluzioni durano anche meno. Tranquilli, non ci sarà nessuna rivoluzione. Qui le notizie muoiono in poche ore e non c’è nessuno che involontariamente le tenga in vita, la televisione e i suoi accoliti ci convincono che siamo uguali a loro, proponendoci modelli che in realtà non avrebbero niente a che fare con le nostre aspirazioni e le nostre potenzialità. E intanto il teatro muore, i cantautori non hanno più spazi, si taglia il cinema, l’editoria, lo spettacolo in generale. Per pagare milioni a una casalinga imbranata per presentare Sanremo (osannandola pure, perché “è semplice e naturale come noi”).
Tonino Carino avrebbe presentato molto meglio il Festival di Sanremo, se la Rai glielo avesse chiesto avrebbe preteso probabilmente soltanto l’indennità di trasferta e qualcosa in più.
E sarebbe sembrato molto più simpatico e naturale a tutti.
Chissà, un giorno la gente tornerà ad essere “involontaria”, a guardarsi nello specchio invece che riflettersi nei talk-show televisivi, ad essere protagonista della propria vita, e non spettatrice di quella di persone che non le somigliano.
Allora forse potremo parlare di tanti Toninicarini, senza apparire come superati, noiosi, impolverati, grotteschi animali nostalgici.

sabato 6 marzo 2010

LE POESIE DI FEDELE TURCI L'ODOARDO: C'E' UN DIO SUL COMO'


C’è un dio sul comò
Ne ammiro le fattezze
Nella pena di un ombra
C’è un dio nella stanza
Mi prude un piede
Il più sindacalista dei due
Quello dei calli duri
Quello delle foglie che non si staccano
C’è un dio superattak
Lo intuisco liquefarsi
Nella timida ora del quinto senso
Ma non succederà
E’ solo uno scherzo
Della luce all’incontrario

venerdì 5 marzo 2010

SCORCIO D'AFRICA


Questa mattina, per lavoro, ero in un anfratto arabo di Malindi, tra donne anziane dalle ampie vesti colorate cariche di pesi sulla testa, motorini e apecar roboanti, ragazzini allegri e vocianti e altra varia umanità accaldata. Sono passato in pochi secondi dai brividi d'emozione, ammirando lo scorcio di cielo seminascosto dalle palme al vento, con due uccellini dai cento colori che si libravano in aria quasi lasciando una scia d'arcobaleno sullo sfondo di una nuvola talmente vicina e ben disegnata da pensare di poterla legare a una corda come un palloncino e portarsela a casa, a quelli di sconforto, osservando un uomo neanche tanto vecchio, rovistare in un quadrilatero dov'era ammassata spazzatura dall'odore nauseante. Cercava qualsiasi cosa, da mettere in bocca e alternava la ricerca a getti disumani di vomito. Chissà quante altre schifezze aveva ingoiato per sopravvivere. Dopo di lui, ne arrivava un altro, e si metteva a cercare in mezzo a quelle nefandezze. Questa è l'Africa, splendore e raccapriccio, terrore e meraviglia nel brevissimo battere d'ali di due sunbirds.

giovedì 4 marzo 2010

L’INTER E IL GRATTACIELO: UN SOGNO LUNGO UN ANNO


Me l’avevano un po’ rovinata quella festa della donna 2009. Lui, il lungagnone di passaporto svedese con le sue cazzo di mosse di kung-fu, e l’arbitro Emidio Morganti da Ascoli. Già mi erano girate di non poter essere allo stadio, al presunto 2-0, pallone respinto mezzo dentro e mezzo fuori da Marchino, avevo avuto una crisi da sconforto, sprofondando sul mio divano, mezzo addormentato dentro e mezzo fuori.
Per fortuna al fischio finale c’era la notte brava e bella ad attendermi. Una telefonata inattesa.
Le ragazze mi aspettavano in un locale molto trendy ad Albaro. Avevano iniziato la festa senza noi maschietti, come si conviene quando nell’aria c’è odore di mimose e libertà convenzionale, ma ora ne volevano…eccome se ne volevano!
La sorpresa non fu però trovare Gaia, Agnese e Federica, nel privè, e nemmeno la spider di Raffaele e il Suv di Bosko nel parcheggio. Dentro, nel privè, seminascosti da un grosso lampadario bluastro, c’erano Branca e Fabrizio. che parlavano fitto fitto, affiancati soltanto da due flute di bollicine.
La solita mancia a Gianfranco, il mezzo maitre (lui solo mezzo fuori, di coca…), e non fu difficile scoprire il motivo di tanto chiacchierare. Il dinamico paraculo in smoking bianco aveva già origliato abbastanza.
“Stanno parlando della cessione di Thiago Motta e Milito”.
Era nell’aria. Soprattutto per El Principe. Certe dichiarazioni del Pres. erano suonate come una sentenza. Degnai Gaia di un casto bacetto sulla guancia e sferzai un’asciutta pacca sul sedere a Federica, e uscii a fumarmi una sigaretta.
Composi il numero di Diego.
Buffo, non ricordavo nemmeno di averlo.
“Ciao principe, sono Fred…sì, io Fred Lupente…ero qui con Branca e Fabrizio…cosa pensi di fare?”
“Io vorrei restare qui, amico…ma come si fa…”
“E la stella? Avevi promesso…”
“I sogni fanno vivere meglio, Fred. Ma prima o poi ci si sveglia sempre”
“Tu sei il nostro sogno…e puoi decidere se svegliarci o lasciarci in questo magico limbo ancora un po’…”
“Limbo? Lo so…lo so…ho capito…ma ho 29 anni, per un calciatore vuol dire l’ultima chance…”
“E’ solo una questione di soldi? O pensi anche alla nazionale, ai mondiali, al pallone d’oro…”
“I mondiali posso conquistarli anche nel Genoa”
“Quindi è solo una questione di soldi…ti fidi di me?”
“Tirerò per le lunghe…ma non oltre Pasqua…”
La mattina dopo mi svegliai alla buonora e iniziai le consultazioni. Aziende, fornitori, politici anche privati. Tralasciai De Girolamo e un certo Anemone…il mio fiuto mi diceva che non era cosa. La proposta, però, allettava. Chiaro, la carta di scambio era il raggiungimento della Champions.
Visibilità europea, scambi di favori, spostamenti di poltrone. Tutto a posto, al massimo avrei rilanciato candidandomi alle prossime regionali…
Nell’immediato, però, serviva anche Thiago Motta. Per quello, avrei dovuto parlare con il Pres.
E per parlare con il Pres, dovevo prenotare una cena al Muntaha, in sala privata.
E portare a Dubai un’amica comune.
L’amica comune fece il suo ottimo lavoro come da copione, e il Pres. accolse l’invito di buon grado. Al ventisettesimo piano del Burj Al Arab, di fronte a un panorama infinito di luci e mare, tra un parfait di pere allo zacapa con paté de fois gras e un astice imperiale, fu tutto più facile.
“Chiaramente è tutto vincolato alla qualificazione in Champions League”
“E se non ce la facessimo…gli arbitri… Della Valle…”
“Magari non sarà un affarone come quello con l’Inter, ma riuscirete a venderli lo stesso…e poi Mourinho li vuole a tutti i costi. Qua ci sono le garanzie per eventuali ammanchi…Ma mi raccomando, non dica loro e non faccia capire alla stampa che è tutto vincolato alla champions…altrimenti…”
“Mi ha preso per fesso?”
“Ci mancherebbe…un imprenditore che si è fatto da sé come lei…ogni tanto, se posso permettermi, solo un po’ chiacchierone”.
“Aspetti un paio di giorni e vedrà, il chiacchierone!”
Una sonora risata della nostra amica comune e una bottiglie di Chateau Lafite Rotschild Pauillac del 1996, chiusero la questione.
La scommessa era stata giocata, le fondamenta su cui costruire il sogno erano state posate.
Ora bisognava attendere giugno, per capire se sarebbe stato il più grosso buco “edilizio” della mia vita o se si poteva continuare a sognare. Il grattacielo della Stella…sì!
Due giorni dopo, con puntualità incoraggiante, arrivò la prima dichiarazione del Pres. a Radio Kiss Kiss, ripresa da tutti i quotidiani sportivi.
“Milito rimane anche se non si va in Champions!”
Voci di corridoio parlavano di un nuovo contratto di tre anni a 2 milioni e 800 mila euro all’anno, con premi a iosa. Tuttosport lasciava intendere in un trafiletto che l’affare champions avrebbe fruttato almeno 50 milioni di entrate per il Grifone, da parte di non precisati sponsor, con cui si sarebbero pagati gli aumenti per Diego e Thiago, più l’acquisto di un paio di altri giocatori per il grande salto.
Il giorno dopo un altro brodo di giuggiole, per i tifosi rossoblu, titolo a sei colonne sul Secolo XIX: Motta “Se resta Milito, rimango anch’io”.
I nove punti conquistati con Reggina, Udinese e Juventus facevano ben sperare. La Fiorentina era rimasta l’unica vera rivale. Il sofferto pareggio con una Lazio incredibilmente gagliarda, grazie a un rigore generoso all’ultimo minuto di gioco, ci fece tremare i vista del rush finale. Vittoria a Bologna con gol di Bosko al 5’ e raddoppio nel finale di Thiago, fantastico 3-1 nel derby, con tripletta del Principe e incredibile serie di vittorie finali. Fiorentina messa ko e sorpasso su Juve e Milan grazie proprio alla Fiorentina! 76 punti e secondo posto! Nemmeno il Pres. avrebbe sperato tanto.
Mai vista una festa così grande per il mio Grifone, mentre contavo i soldi vinti con le scommesse e quelli che sarebbero arrivati dagli sponsor. La città era paralizzata, le bandiere sventolavano ovunque, anche a notte fonda trovavi da via Venti a via Garibaldi gente in festa, locali aperti, macchine strombazzanti. Io festeggiavo a modo mio, con Gaia e Federica sul materasso ad acqua comperato la settimana prima, a qualificazione raggiunta matematicamente.
Ma saltare il preliminare…questo proprio!
E via alla costruzione del Grattacielo!
Nonostante la timida resistenza dell’allenatore, che chiaramente aveva preteso un leggero ritocco dell’ingaggio e compilato una lista simpatica, ma di giocatori di seconda fascia come Lanzafame e De Ceglie, partirono alcuni artefici dell’incredibile stagione, anche perché era l’ultima occasione di farsi pagare 4 milioni gente come l’ottimo Biava (che oltretutto andava in scadenza), passato al Parma, o 2 il vecchio Juric, tornato in Spagna al Deportivo. Per Ferrari la società non potè rifiutare un’ottima offerta dal Besiktas, ma dalla Turchia arrivò Diego Lugano. Per Palladino e Criscito si arrivò a un accordo con la Juve, alla quale fu promesso Thiago Motta per l’anno successivo a un prezzo già stabilito. Via anche Van Den Borre e Olivera, Gasperini fu irremovibile soltanto su Sculli e Milanetto, che però avrebbero fatto le riserve.
Ci volevano due squadre competitive. L’obbiettivo principale rimaneva la Stella, ovviamente, ma andare avanti in Champions voleva dire soldi…così si puntò sul giovane Ranocchia, come sostituto di Biava, e su Moretti del Valencia, come alternativa a Criscito sulla fascia ed eventualmente in difesa al posto di Bocchetti.
Rubinho uscì di testa, era in scadenza e pretendeva gli stessi soldi di Buffon. Con un bell’esborso di denaro a quel mercante di Cellino, lo scambiammo con il promettente Marchetti del Cagliari.
I due colpi promessi arrivarono a luglio: Menegazzo dal Bordeaux e il laterale destro Joao Ametista dal Brasile. Chi cazzo era? Non lo sapeva nessuno, ma me l’aveva consigliato Grifondoro, e siccome ormai ero stimato e ascoltato all’interno della società, si era deciso di dare un’alternativa a Rossi e Mesto. Mancava un centrocampista per affiancare Mila in panca. Altro giovane interessante, Dzemaili dal Torino, altro prestito con diritto (o rovescio) più Kharja, vecchio pallino di Capozucca, dal Siena.
La squadra era fatta: Marchetti, Papa Lugano Bocchetti, Ametista, Menegazzo, Thiago, Criscito (Moretti), Jankovic, Milito, Palladino. Come attaccante di riserva, nonostante qualche smorfia da
Pegli, rimase Lucho Figueroa, e arrivo anche un’altra ala argentina, Rodrigo Palacio dal Boca Juniors.
Il girone di Champions ci aveva regalato una delle partite da sogno: Genoa-Real Madrid! Quante volte avevamo sognato qualcosa del genere. Noi, un popolo ancora appeso al ricordo di Anfield Road. Il girone non era una passeggiata, considerando battibile lo Zurigo, dovevamo vedercela con il Marsiglia. La notte del Velodrome, esordio fantastico (con qualche incidente fuori dallo stadio, maledetti marsigliesi) fu indimenticabile: più di diecimila i genoani presenti, con gente arrivata a Marsiglia fin dal lunedì, per acquistare i biglietti in loco. Gol di Milito, pareggio di Niang e rete della vittoria di Palacio! La vittoria per 1-0 nel Tempio contro lo Zurigo (grandissimo missile di Ametista, che ricorda Branco, nelle punizioni ma spesso si perde in inutili ghirigori col pallone tra i piedi) ci mette abbastanza tranquilli al Bernabeu, dove perdiamo dopo una partita a gran ritmo, evidenziando qualche limite in difesa, dove Bocchetti prima e Moretti poi, ballano alla grande al cospetto di Cristiano Ronaldo. Eppure rimontiamo due volte lo svantaggio e crolliamo solo nel finale, 4-2.
Intanto in campionato siamo quarti, con un po’ di fatica, ma il 4-0 nel derby (altri due gol di Milito, più Thiago e Rossi) è un altro tassello da mettere negli annali. Trentaduemila abbonati sono un’altro record difficile da battere e l’unica sconfitta, seppur pesante, contro l’Inter capoclassifica, per 4-1 in casa, si fa più leggera. In champions le due vittorie con lo Zurigo e la sconfitta casalinga con i Galacticos per 2-0 (con arbitraggio infame e l’infortunio a Bosko che lo terrà fuori per 5 mesi) ci costringono almeno al pari col Marsiglia. La notte di fuoco si conclude 2-2, con il Grifone per venti minuti fuori dal sogno. Altri soldi entrano nelle tasche, buoni per aggiungere un sostituto di Jankovic, Foggia dalla Lazio, mentre in campionato brilla l’astro di Ranocchia, spesso titolare, conteso ora dall’Inter e da mezza Europa. Con lui la difesa non subisce gol per sei partite di seguito e balza al terzo posto, a pari punti con la Roma. La partita di Champions di fine febbraio è qualcosa che mette i brividi Genoa-Manchester United. Il sorteggio non è stato benevolo, ma siamo orgogliosi e felici di esserci. La sconfitta per 3-2 ci elimina virtualmente…quel bastardo di Rooney e quella scelta disgraziata di far giocare Sculley…ma qualcuno è contento perché l’Inter ora è a soli 5 punti e il sogno più grande di tutti per noi si chiama stella.
Nonostante questo, in quindicimila hanno già prenotato Manchester, e chissà quanti riusciranno davvero a entrare.
E’ passato un anno. Siamo di nuovo alla festa della donna. Questa volta nessuno potrà fermare il Pres. dal vendere Thiago Motta alla Juve e la coppia Ametista (che plusvalenza! Pagato 1,5 milioni ora ne vale 15, con una mia scommessa da 300 mila euro da pagare a Grifondoro, però…) Milito all’Inter. Però arriveranno almeno sette giovani di sicuro avvenire, altri due brasiliani sconosciuti, un paio di serbi, un greco, un ciociaro e un portoghese.
Ormai quel che conta è correre come matti, sfoderare il gioco ficcante palla a terra di cui il Gasp è profeta, tenere lo spogliatoio e provarci, sì, provare a mettere il tetto al Grattacielo!
Il destino ci fa ritrovare davanti l’Inter, tutto iniziò un anno fa dopo la partita con i nerazzurri…se vinciamo andiamo a 2 soli punti dalla Stella! Poi ogni Genoano che si rispetti, alla vita non chiederà più nulla. Io finalmente troverò il coraggio per fare parapendio, lanciarmi col paracadute, guidare una moto di grossa cilindrata, candidarmi alle elezioni europee.
Eccoci, il Ferraris è gremito in ogni ordine di posti, la Nord è il solito incredibile spettacolo di canti, colori e passione. L’arbitro Banti fischia il calcio d’inizio.
L’arbitro Banti fischia a lungo. Troppo a lungo.
Non è l’arbitro Banti.
E’ la retromarcia del mezzo del lavaggio strade.
La televisione trasmette un documentario sul falco pellegrino della Marsica. I voli pindarici, a volte, sono viaggi immaginari, altre volte sono così vicini a un’ipotetica realtà, che ci sembrano impossibili.
Il mondo è in mano a individui che non sono capaci di sognare e la cosa triste è che hanno ragione loro. Ma a noi cosa importa? Noi non vogliamo avere ragione, siamo già abbastanza felici di riuscire ancora a svegliarci contenti di avere sognato la costruzione di un grattacielo.

lunedì 1 marzo 2010

FREDDIE DEL CURATOLO, VIVE A MALINDI IL “CUSTODE” DEL MAL D’AFRICA


Dice di essersi trasferito in Kenya perché l’Italia gli stava troppo stretta, e di vivere a Malindi perché il Kenya gli sta troppo largo. Alfredo Del Curatolo, meglio conosciuto come Freddie, è il nostro connazionale più famoso nell’enclave italiano sulla costa keniota (dopo Flavio Briatore, sic!).
Ha scritto libri che si vendono quasi solo lì e che sono veri e propri “cult” per chi frequenta la località turistica che quest’anno è tornata di gran moda. “Come diventare un perfetto residente italiano a Malindi” ha superato le tremila copie vendute e lo stesso si avvia a fare “Come prendere il Mal d’Africa e altri 101 virus tropicali”. Manualetti ironici e terribilmente veri, che illustrano meglio di qualsiasi documentario o reportage la vita dei nostri connazionali in quella fetta d’Africa. I due libretti sono stati accorpati dall’editore italiano Liberodiscrivere sotto il titolo “Malindi Italia – Guida semiseria all’ultima colonizzazione italiana in Africa”. La creatività di Freddie non si ferma ai libri. Qualche anno fa ha inciso un disco dal significativo titolo “Nel regno degli animali”, di cui fa parte una canzone struggente e autobiografica, “Scappato a Mombasa”. Impossibile non emozionarsi, guardando il video del brano su Youtube. Così come, sempre su Youtube, si possono vedere frammenti dello spettacolo legato ai suoi libri, portato in giro per l’Italia nei due mesi in cui Freddie torna da noi (maggio e giugno, quando a Malindi piove) insieme al musicista Franco Cufone.
Freddie, ma tu sei scappato dall’Italia?
“No. Scappato non è la parola giusta. Io sono tornato a casa. Il mondo in cui sono cresciuto, da bambino, era fatto di libertà, fantasia, contatto con la natura, divertimento, rapporti umani, semplicità. Da adulto, in una società profondamente diversa da quella di ven’anni fa, sono andato a cercare un luogo dove potessi vivere ancora secondo i dettami della mia anima. L’Africa, e in particolare, il Kenya, si avvicinano molto al mondo dei miei sogni di quand’ero piccolo”.
Un mondo che è anche quello di tua figlia…
“Agata Zena è nata a Mombasa un anno fa e ha la fortuna di crescere in un paradiso di sole, mare e natura, in mezzo a gente di tutte le razze che le sorride e vuole giocare con lei e con due genitori che hanno tempo da dedicarle e non sono stressati o insoddisfatti della loro vita”.
Eppure nei tuoi libri, nelle tue canzoni, critichi Malindi e gli italiani che ci vivono.
“Non li critico, semmai li prendo un po’ in giro. Mi riferisco però solo a un certo tipo di italiani, quelli che sono qui solo per determinati comfort che Malindi può dare loro e che dell’Africa e della filosofia di vita legata al suo popolo non hanno capito nulla. E’ un peccato che spesso questo genere di turisti e di residenti italiani a Malindi, si prendano le luci dei riflettori dei media e della stampa italiana, a svantaggio di tanti altri connazionali che hanno scelto il Kenya tra mille altri luoghi del mondo, rispettano questo Paese e fanno del bene a chi ne ha bisogno”.
E’ difficile per un artista che vuol pubblicare libri e dischi e produce spettacoli, stare lontano dall’Italia?
“Non è facile, ma in Italia per me era impossibile vivere da scrittore, cantante e uomo di spettacolo. Non mi sono mai potuto permettere di campare da artista, e ormai se vuoi portare a casa uno stipendio che ti permetta di sopravvivere, alla sera sei talmente stanco che ti passa la voglia di scrivere o di creare. Così sono diventato un esule volontario che produce all’estero e cerca di rintrodurre in Italia le cose che fa”.
Hai ancora sogni nel cassetto?
“Guai se non ne avessi…tra i trecentocinquanta e i quattrocento, attualmente”
Il più importante?
“Mi piacerebbe girare un film, da autore e interprete, con l’aiuto di un bravo regista, per raccontare anche col supporto delle immagini, che cos’è il mal d’Africa ai nostri tempi e come preservarlo”.