mercoledì 20 aprile 2011

ERA MEGLIO LA PASQUA BASSA...

Dice che in Kenya una Pasqua vale l’altra, che come sempre il sole sorge alle 6.21 e tramonta alle 18.26, i santi del weekend sono Venerdì (un parente bantù) e un certo L.Dell’Angelo.
A Malindi però c’è una differenza spropositata tra la Pasqua Alta e la Pasqua Bassa. Non si tratta di attendere più a lungo la resurrezione di Gesù, anche perché da queste parti siamo abituati alle attese estenuanti. La Pasqua “pole pole” semplicemente va fuori stagione e quasi nessuno ne approfitta per farsi una vacanziella sulla costa keniota. In Egitto, schivando le manifestazioni di piazza e un improbabile attentanto a Sharm dove risiede la famiglia Mubarak, inizia a far calduccio e le offerte per la vacanza di una settimana equivalgono al prezzo di un biglietto di sola andata in treno da Sesto Calende a Bassano del Grappa. In seconda classe, ovviamente. In Kenya invece c’è il rischio di pioggia, un’aria di smobilitazione che mette malinconia e soprattutto ci sono tanti residenti che non ce la fanno più e non vedono l’ora di godersi le meritate vacanze. Un safarino africano, soprattutto. Ma alcuni malati cronici sognano anche lo shopping in via Veneto o la domenica al Centro commerciale o all’Ikea.
Quindi a Malindi e dintorni, la Pasqua Alta è una vera sciagura!
Nel 2007, ad esempio, la Pasqua capitò a metà marzo: i connazionali vacanzieri traboccavano, la spiaggia di Silversand vantava una buona densità di beach-boy per turista, i molteplici ristoranti accettavano clienti solo su prenotazione, i fornitori di pesce si trasformavano in pusher, per una sniffata di aragosta ti chiedevano quel che a novembre basta per comprarne due chili.
I venditori di case si liberavano con facilità di ville vetuste, mettevano all’asta i moderni appartamenti e promettevano, previo succoso acconto, ogni singola colata di cemento sul terreno keniota. Affari d’oro per gli arredatori, le boutique, gli antiquari, i fruttivendoli e le corpivendole. Pulmini da safari sfrecciavano ogni mattina verso i parchi nazionali per poi mettersi in coda nel cuore dell’Africa tanto che i leoni si chiedevano se non fosse stato meglio nascere casellante, auto a nolo e taxi riempivano le strade di sano smog assorbito da baobab in astinenza secolare e di notte le discoteche erano alveari ricchi di miele (più che d’acacia, d’ascella) e marmellate umane.
Ballavano i V.I.P. che dopo ore di sole a schermo totale (se non c’è uno schermo da qualche parte quelli non vivono) si concedevano l’aperitivo alla Biennale d’Arte Contemporanea, tra le dritte di una Melandri e i rutti di un Bisteccone Galeazzi.
L’Africa fungeva da scenografia, romantica fascinosa esotica misteriosa inquietante paradisiaca rilassante invadente a seconda dei casi, degli stati d’animo e degli stati di provenienza.
Per i residenti italiani quel bordello voleva dire “fieno in cascina”, per i kenioti quel bordello voleva dire “arraffa finche puoi”.
2011, la Pasqua più in là possibile: il sole cerca disperatamente un turista a mezzogiorno per poterne proiettare l’ombra perpendicolare, i pochi villeggianti si sentono disorientati, inadeguati, fuori catalogo e contesto. Spaesati come un catamarano in un eliporto, vagano alla ricerca di un animatore rompiballe, di un beach-boy che li raggiri, di uno spacciatore di marijuana informatore della polizia, per sentirsi finalmente in vacanza.
La spiaggia di Silversand sembra un corso di Palermo cinque minuti prima di un omicidio su commissione, i ristoranti accolgono i clienti come cugini d’Europa di cui attendevano la visita da vent’anni, i fornitori di pesce passano in bicicletta lanciando aragoste nel locale come fossero copie del Daily Nation e raccolgono i cent lasciati sulle pietre all’ingresso. I venditori di case si ubriacano e organizzano feste solitarie ogni sera in una villa diversa, scegliendo tra quelle restituite dopo la prima rata, affittano a famiglie indiane i moderni appartamenti lasciati vuoti e impediscono ogni singola colata di cemento sul terreno keniota. Si riposano gli arredatori, chiudono le boutique, svendono gli antiquari, latitano i fruttivendoli e le corpivendole passano dai salti in discoteca ai saldi di fine stagione. I residenti italiani hanno il sorriso stampato di chi sta fumando ogni giorno un po’ del suo fieno in cascina.
D’accordo, ho esagerato, mi sono lasciato trasportare. In fondo è stata una stagione meravigliosa, da record. Vi aspettiamo tutti per la resurrezione! Nooo, per una volta non quella del Nostro Signore…quella della costa keniota, a partire da luglio: Malindi, per capire devi venire! (non male come slogan, vero?).

lunedì 18 aprile 2011

CI RIMANE SOLO IL PALLOSO RAP DEL GENIO CAPAREZZA?

Che il rap ci abbia rotto i coglioni è un dato di fatto, più o meno come che il tipetto brianzolo sta perdendo la partita. 
Però non si può fare a meno di ascoltare l'ultimo album di Caparezza, "Il sogno eretico". Di individuare colpi di genio, sbeffeggiamenti al potere, una certa cultura che non è quella da lounge bar di corso Garibaldi mista rivista semipatinata di J-Ax o quella finto borgatara e vero invidiosa di Fabri Felpa.
La tristezza del cantautorato anche giovanile è che nessuno più cerca nemmeno di scalfire il palazzo, né ha voglia di evolvere il suo linguaggio per far presa sui giovani.
Il solo Daniele Silvestri, che pur si rifugia spesso nella poesia e nell'introspezione, regala qualche sprazzo di "letteratura" contro. Così ci tocca ascoltare la vocina insinuante della zanzara pugliese, per saltare a ritmo di una musica di (minima) protesta.
Altro che punk o nuove tendenze finto revival anni Ottanta (la giustificazione di chi suona da schifo, basso in primo piano, batteria minimale, chitarra inesistente fino a che non latra il suo assolo). Ci vogliono il ragamuffin di "Legalize the premier", pezzo che vorrei veder suonato (e dico suonato) da Elio e le storie tese, e quella che alla fine è una ballatona, "Goodbye Malinconia" con quell'armadio a quattro ante di Tony Hadley. Capa canta "Chi se ne frega della musica" e probabilmente ha ragione. Certa musica non vale la pena di essere più considerata e non è solo il download selvaggio che evita le code al negozio di un nuovo Pino Daniele, Edoardo Bennato o Lucio Dalla. Come cantava il grande Randy Newman, sono morti, e non lo sanno.

mercoledì 6 aprile 2011

IL DIABOLICO PIANO DI JANE


Io mica sono uno sprovveduto e soprattutto non arrivo dall’Italia per farmi fregare.
Sono sbarcato a Malindi con le idee chiare. Trascorro sei mesi all’anno qui, lascio a quel paese la nebbia, il freddo e il grigio, lascio quella stronza della mia ex-moglie, i soldi per l’università ai figli che manco ci vanno e se li pappano, uno in cocaina e l’altra in concerti di metallo pesante, e lascio le rotture in mano al commercialista.
Qui trovo il clima gentile, a volte un caldo bestia, pesce fresco e tante belle figliole.
E mi guardo in giro, che prima o poi mi trasferisco in pianta stabile.
Ma attenzione! Non sono mica uno che ci casca…questo non è il paradiso, lo so bene.
Un amico, poi, mi ha dato un librettino scritto, dice, da uno che vive in Kenya e che la sa lunga.
O almeno è uno che si è informato e te la racconta bene.
Così grazie a questo libretto, e ai consigli del mio amico, ho trovato un bell’appartamentino in affitto in centro a duecento euro al mese, poi mi è stato presentato un buon avvocato, che mi assiste nelle operazioni finanziarie chiedendomi molto meno di quello che mi scucivano in Italia intermediari e consulenti del cazzo per ogni movimento o transazione. Inoltre ho messo su un piccolo business, giusto per avere qualcosa da fare, anche se con la rendita della casa e del negozio che avevo in Italia, qui vivo alla grande. Mi posso permettere il ristorante due volte alla settimana, ho una donna di servizio otto ore al giorno, bravissima ma intrombabile, e una segretaria incapace ma molto operosa da quell’altro punto di vista.
Più o meno come in Italia, ma spendendo un decimo.
Mi muovo bene, come uno che ha sempre vissuto da queste parti.
Fiuto i connazionali furbi e quelli intrallazzoni, le brave persone e i kenioti che vale la pena di frequentare. Rispetto tutti e sono rispettato.
Alla sera, ogni tanto, mi sento un po’ solo. Dopo il telegiornale, esco a fare un giro, che tanto qui fa sempre caldo e si sta bene anche fuori, anzi quasi meglio che in casa.
Sono seduto in un bar locale, con una cocacola baridi in mano.
Mi si avvicina una bella ragazza statuaria, un panterone di quelli che a Treviglio non si vedono nemmeno di notte, forse perché sono troppo scure, chissà. Altro che la mia segretaria! Quella, per quanto operosa, ha la femminilità di uno scaffale in mogano.
Questa è formosa, procace, con labbra che sanno di peccato. Un peccato sarebbe non farla sedere, non offrirle da bere. Posso farlo tranquillamente, senza rischiare nulla; tanto ho studiato la lezione del libro: le Naomicambell da queste parti sono pericolosissime. Peggio delle sirene di Ulisse, ti fanno innamorare e poi ti ripuliscono per bene. Ma io non farò quella fine.
“How are you? What’s your name? From Malindi?” il mio inglese finisce qui, ma per fortuna (e anche questo è scritto nel libro) lei parla e capisce l’italiano.
“Bene, grazie…mi chiamo Jane…”
Jane, mi suona come “iena”. Chissà da dove arriva, per spolpare me.
Sono tutte di Nairobi, anche quelle dei villaggetti sconosciuti, dice il libro. Sarà perché vogliono dare l’impressione di essere cittadine, e non arrivare dalle capanne nel bush. Nairobi è una città moderna, è la capitale…c’è cultura, lavoro, bei locali, tante opportunità. Altro che questa cittadina di disgraziati e arabetti, altro che il mondo derelitto che trovi girato l’angolo dei resort.
Qui solo fango e palme, vecchi sdentati che chiedono l’elemosina e bambini che chiedono le caramelle.
“Sei di Nairobi?”
“No, vengo da Matumbuku”
“Ah…interessante…come hai detto?”
“Matumbuku, è un villaggio vicino a Machakos”
“Uhm…è dov’è Machakos?”
“Non lontano da Nairobi”
“Ah…ecco…vicino a Nairobi…ora capisco…”
“Sì”
“E cosa facevi a…”
“Matumbuku”
“Matumbuku”
Cosa vuoi che facesse un pezzo di ragazza del genere…queste ti dicono che sono tutte studentesse, oppure hanno finito da poco la scuola e vengono a Malindi a cercare lavoro nel campo del turismo…così dicono tutte quelle che ti vogliono raggirare. Ci ha proprio la faccia da laureata, questa qua. Mi viene da ridere. Voglio proprio ascoltare che balle mi racconta…l’educanda.
“Non facevo niente, per la verità. Stavo a casa ad aiutare la mamma, ma appena potevo me ne andavo a divertirmi con le mie amiche. Non mi piaceva studiare, e mi annoiavo. Così a quindici anni me ne sono andata a Machakos, poi mi sono trasferita a Nairobi, e ancora a Mombasa e infine sono venuta qui a Malindi”.
Ecco…non studia, non ha un lavoro. Questa è ancora più furba delle altre, fa la finta sincera…ho capito…sicuramente la metterà sul patetico, sul vittimismo. Orfana di padre, una madre malatissima, il fratellino da mandare a scuola, la sorella violentata…e chi più ne ha più ne metta.
“E la tua famiglia a Matambu…là, vicino a Nairobi…come sta?”
“Bene, grazie!”
“Nessun problema? Mamma, papà? Ci sono ancora?”
“Sì, non sono vecchi. Lavorano. Mamma insegna nella scuola elementare di Matumbuku, papà guida i camion, non c’è quasi mai. Ho tre fratelli, uno più grande che lavora a Nairobi in una ditta di abbigliamento, una sorella che fa le scuole superiori a Machakos ed è bravissima, e un fratellino che ha sette anni e studia nella scuola dove insegna mamma”.
Che bel quadretto…tutti bravi e tutti felici…vediamo dove sta la fregatura, sicuramente la sua scelta di vita l’avrà messa in difficoltà qui sulla costa.
“E qui a Malindi, dove vivi?”
“Per ora sono ospite da un’amica”
Bingo! Ecco dove voleva arrivare la pantera. Certo, l’ha presa larga, per sedurmi a dovere. Sicuramente le serviranno i soldi per trovare una casa propria, arredarla…gli affitti a Malindi sono così cari…avrà bisogno di una mano, questo è il motivo per cui è qui al tavolo con me. Io le sembro una persona gentile…e lei è costretta occasionalmente, per bisogno, per disperazione…anzi no, non lo farebbe mai…non è solo per riconoscenza che si concederebbe, ma perché le piaccio veramente.
Se crede di farmi fesso, si sbaglia di grosso, prima o poi la faccio cadere.
“E non hai una casa tua. Jane?”
“Una casa? Per adesso non mi serve proprio…”
“E le tue cose, un tuo armadio per i vestiti, se vuoi ospitare parenti e amici...?”
“Ma quante domande mi fai…fai il poliziotto in Italia”
“No…veramente…vendevo polizze assicurative…”
“Sorry?”
“Niente…insurance…vabbè, lasciamo stare”.
C’è qualcosa che non torna…questa è veramente un osso duro, vuole tenermi sul filo, farmi intendere che ha dei segreti, circondarsi di un alone di mistero…ma prima o poi calerà l’asso nella manica. Lo so, perché sono tutte così. L’uomo bianco per loro è solamente un pesce grosso da far abboccare all’amo. Ognuna ha la sua esca particolare.
“Quindi hai una vita normale, tranquilla…sei felice?”
“Felice?”
Ride, l’attrice. Si bea della sua fisionomia, pensa di poter incantare chiunque.
Non sa che io so, o quantomeno immagino tutto.
“Certo! A Malindi si vive bene, ci vivi anche tu, no? Lo sai…a me piace ballare, stare con gli amici, bere una birra ogni tanto”
Ballare…stare con gli amici…la birra…ma questa c’è o ci fa? E come può pretendere poi di volere dei soldi, se la porto a letto? Quale altra arma pensa di usare, se non la compassione? Con la situazione dell’Africa, le sue miserie a portata di mano che fa, non ne approfitta? Questo è un caso patologico…devo assolutamente capire.
Decido di far precipitare le cose.
“Ti va di venire nel mio appartamento?”
“Perché no?”
Non ha avuto esitazioni. E se fosse una rapinatrice di professione? Una terrorista al soldo di qualche islamico potente? E se fosse pagata dalla cooperazione italiana per prendere i nomi di tutti i depravati italiani che abitano a Malindi?
L’importante è non cedere prima di essere convinti di conoscere tutta la verità. Devo entrare nella sua testa, capire la psicologia, che tattica sta usando e perché. Il libro dice che queste ragazze sono camaleontiche, si adattano al tuo modo di fare e scoprono subito i tuoi punti deboli, per poi farti fare la fine del maschio della mantide religiosa.
Prendiamo un tuk-tuk e in cinque minuti siamo da me.
Cento scellini. Pago io.
Entriamo in casa, siamo in camera.
Sorride, entra in bagno. Ne esce nuda. Un corpo perfetto, un seno sodo, che sta in piedi da solo come se se lo fosse rifatto a Dalmine. Avanza sinuosa con sguardo famelico.
“Ma…cosa ti sei messa in testa?”
“Ho fatto la doccia…non va bene?”
“Mah…Jane…credevo dovessimo parlare…prima”
“Si può parlare anche così, non credi? Vuoi che ti spogli io?”
“Io…io…”
“Ho capito, hai paura di spendere troppo. Allora, se vuoi fare tutto, sono 3000 scellini. Altrimenti ti faccio uno sconto”.
“Ma tu…tu…tu sei…”
“Sono una prostituta, italiano. Una prostituta a pagamento. Non hai mai visto una puttana? Non ce ne sono dalle tue parti? Se volevi una suora, la diocesi è a poche centinaia di metri da qui, se vuoi fare la storia romantica e poi chiedermi di diventare tua moglie, hai sbagliato persona, bello. Io lo faccio solo per soldi. Che faccio, mi rivesto?”
“No….no…per carità…mi si è alzato anche senza viagra…”
Sono al cospetto di una creatura intelligentissima, e indubbiamente molto bella. Non sono ancora riuscito a capire quale sia il suo diabolico disegno nei miei confronti. Probabilmente anche lei ha capito che non mi si può fregare facilmente. E’ arrivata addirittura a recitare la parte della mignotta…questa punta in alto…Ma la smaschererò, giuro che la smaschererò!