lunedì 24 gennaio 2011

VIENI IN AFRICA

Se in Italia non vivi più bene, vieni in Africa.
Se in Italia vivi bene ma è diventato un Paese di merda, vieni in Africa.
Se hai una rendita di 700 euro e non riesci nemmeno a mangiare, vieni in Africa.
Se ami gli animali più dell’uomo, vieni in Africa.
Se tuo marito è un animale ma non lo ami comunque, vieni in Africa.
Se tua moglie ama un altro animale, vieni in Africa.
Vieni in Africa invece di suicidarti per futili motivi.
Vieni in Africa invece di suicidarti per motivi seri.
Vieni in Africa se non hai nemmeno un motivo per suicidarti.
Se ne hai piene le palle del tuo paese, vieni in Africa.
Se il tuo paese ne ha piene le palle di te, vieni in Africa.
C’è sempre una soluzione, e non è ammazzare moglie, figli e anche la cognata. Parti per l’Africa.
Se lo smog ti asfissia, vieni a respirare in Africa.
Se il lavoro ti stressa, vieni a lavoricchiare in Africa.
Se hai lavorato per una vita, vieni ad oziare in Africa.
In Africa riscopri te stesso.
Se non hai un “te stesso”, in Africa riscopri qualcun altro.
Se hai il coraggio di cambiare vita, vieni in Africa.
Se hai vita per cambiare il coraggio, vieni in Africa.
Se vuoi gratificarti aiutando gli altri, c’è l’Africa.
Se vuoi graffitarti l’anima, c’è l’Africa.
Se vuoi africarti l’anima…lo sai.
Se non fai parte di una maggioranza, vieni in Africa.
L’Africa non è per tutti, per fortuna, non vuol dire che non sia per te.
E’ un consiglio da chi vuole esserti amico, vieni in Africa.
Certo, me ne potrei anche fregare, ma vieni in Africa.
In realtà, in meno siamo e meglio stiamo.
Anzi, mi sale quasi il timore che poi diventiamo troppi.
Chissà, magari vi vorrei tutti in Africa per poi tornarmene solo soletto in Italia.
Ma no. E’ solo che ho questo assurdo difetto.
Alla fin fine credo all’uomo.
Vorrei dargli un’ultima possibilità.
Ripartire da zero, tutti insieme. In Africa.
Lo so, è soltanto un'utopia.
Avete ragione voi.
Sono un inguaribile sognatore.
Continuate pure a pensarla così.
Restate pure dove siete, sognate i vostri sogni occidentali.
La differenza è una sola: io questo sogno me lo sto vivendo.
Ogni istante, ogni giorno.
In Africa.

sabato 15 gennaio 2011

"MALAIKA" - 2 PUNTATA


Così mi sto recando all’aeroporto.
Non sono riuscito a parlare con Lorenzo, l’unico indizio che ho è rappresentato da un numero di fax. Non mi ha mai dato un suo recapito, solo una volta ha comunicato per mezzo di un’agenzia di viaggi di Zanzibar alla quale ho scritto subito, senza ottenere risposta.
E’ comunque laggiù che devo fare tappa.
A 47 anni è la prima volta che affronto una trasvolata intercontinentale, il mio passaporto è pressoché intonso, presenta due o tre macchie di cioccolato svizzero, una visita ad un cugino che vive da vent'anni a Stoccolma, sposato con una psicologa, e l'ultimo pellegrinaggio portoghese sulle tracce di Bernardo Soares, nei luoghi dello scrittore Fernando Pessoa.
Tutto qui, negli ultimo lustro.
Non ho paura dell’aereo, intendiamoci, ma ci sono salito solo per brevi tratte europee, mi angoscia un po’ doverci passare nove ore.
Riuscirò a leggere? Riuscirò a dormire?
Osservo assonnato e divertito, come mi avessero drogato, la varia umanità allacciata alle cinture di sicurezza, i volti preoccupati di chi si muove sempre con l'ansia a fianco, gli sguardi già all’estero di chi ha sognato questa vacanza per un anno intero, le borse sotto gli occhi da routine degli uomini d’affari, due ventiquattrore.
Le hostess fanno un lavoro come un altro, solo con meno certezze sotto i piedi.
Viaggiano su una rotta parallela a quella dell’aereo, innestano il pilota automatico della propria femminilità, sorvolano le abitudini e l’umore ad ogni turbolenza. Forse per questo, quando toccano terra, spesso si sentono a disagio, dormono come roditori in letargo, o si sforzano di vivere la normalità.
Le più sembrano matte da legare, o esageratamente superficiali.
Sono dei marinai col sorriso obbligato, ragazze-immagine pressurizzate.
Divagando volgo lo sguardo verso l’oblò al mio fianco. Guardo il niente là fuori e cerco d’impormelo dentro, invece spunta il profilo lusitano di Bernardo, che dalla sua finestra, ora tonda e a doppio vetro, spia quello che, giorno dopo giorno, la ritualità tenta di cancellare e mi dice che per viaggiare basta esistere.
Se lo sentisse Lorenzo! A lui per dare un senso all’esistenza è sempre bastato viaggiare, come rabdomanti a caccia dei pezzettini di ego sparsi per il pianeta.
Chissà se il suo puzzle è terminato.
Arriva il pacchetto pranzo caldo, costituito da un arrostino umido con carote tagliate spesse, formaggio olandese plastificato, e pastarella fruttata. Tento di gustarlo, chiedo una bottiglia in più di vino rosso. La mia vicina di poltrona mi omaggia di una mimica buona per una pubblicità-progresso a favore del proibizionismo.
Non ci siamo ancora rivolti la parola.
Mi metto a ripensare a Lorenzo. C’è ancora una volta lui, nel mio destino, a trent’anni di distanza. Forse questo mi ha ulteriormente spinto ad accettare la disperata proposta di Beatrice: è come chiudere il cerchio.
Me lo ricordo come ieri, il giorno in cui hanno unito la seconda G con la H, al liceo.
A quel tempo ero un neonato diciassettenne, guardavo le ragazze con la stessa intensità con cui studiavo le statue greche del periodo corinzio, mi divertivo con la bicicletta ed il ping-pong e leggevo, non facevo altro che leggere.
La professoressa di Greco, Paganovitz, sguardo fiero radetzkiano ed impenetrabilità di roccia carsica del Friuli, si era portata in dote i quindici alunni più meritevoli, lasciando alla sezione F i meno bravi. Unica eccezione, Lorenzo che però avendo un anno in meno degli altri, a detta della stessa kapò, aveva “margini di miglioramento”.
In realtà quell'austero avanzo di Mitteleuropa corretta grappa aveva un debole per lui.
La sua aria lacustre, malaticcia e sofferente, il fisico asciutto e dinoccolato di adolescente inquieto, la sottile ironia mai irriverente, conquistarono subito anche le nuove compagne di classe.
A quel tempo io giravo con Milena, o meglio era lei che si costringeva a letture noiose e serate alla cineteca municipale per non so quale afflato di attrazione. In un certo senso mi piaceva, era sveglia e volonterosa, non pareva fingere di star bene con me, e portava una misura di reggiseno che non credevo esistesse in natura. Come sempre faticavo a prendere l’iniziativa, gli impulsi sessuali dicevano che non ero ancora pronto, e che lei non era esattamente il mio tipo.
Tuttavia ne ero quasi geloso, mi scoprivo possessivo, stavo giù sviluppando l'attitudine all'insegnamento e lei era la mia prima allieva.
Avevamo un bel rapporto, quella fratellanza fatta di occhiate complici, frasi cominciate da uno e finite dall’altro, messaggi in codice e linguaggi privati.
Milena fu la prima a cedere al fascino di Lorenzo. Me lo confidò con la stessa semplicità di quando mi mostrava i seni, per chiedermi se il destro fosse leggermente più grosso del sinistro e se i cerchi dei capezzoli somigliassero vagamente a due tuorli d’uovo.
Quando intuì che stavo per rimanerci male, credette di agire per il meglio.
“Ho tanta voglia di andarci a letto” ammise “però se vuoi essere tu, il primo...”
Che gentilezza! Mi offriva la verginità in cambio della risoluzione di un contratto adolescenziale, per sentirsi libera d’intraprendere la carriera di donna.
“Piuttosto vado a letto io con Lorenzo” risposi d’acchito.
Non fu carino, da parte mia, ma Milena scoppiò a ridere.
Non riuscì ad odiarla, non odiai nemmeno Lorenzo di cui, anzi, in poco tempo divenni amico.
Lo ammiravo per la leggerezza con cui prendeva la vita, per la maniera in cui trattava le ragazze. Appariva disinteressato, sempre rapito dalla musica, dalla sua chitarra, come io lo ero per il libri, ma adorava a tal punto la realtà da armonizzarla nei suoi giri di blues.
Milena sarebbe stata una delle tante, ma s’innamorò e ne soffrì parecchio, tanto che fu bocciata e cambiò scuola. Poi Lorenzo frequentò Anna, che era parecchio inibita, si attaccava a me perché aspettava che fosse Lorenzo a corteggiarla, un atteggiamento tipico che riscontrai in molte altre fanciulle.
Anna aveva un tic che la costringeva a battere le ciglia in continuazione, e due morbide labbra carnose. Passava interi pomeriggi a raccontarmi i sogni che aveva fatto la notte precedente, e nei sogni c’era sempre Lorenzo.
Attore principale dei suoi film onirici: vestito da principe azzurro, in divisa da vigile urbano, Lorenzo rapinatore di banche, commissario di polizia, pirata malese, cadavere. Sempre lui.
Anna girò con noi per un paio di mesi, s’interesso al jazz, imparò a bere e reggere l’alcool, a suon di vomitate nei vicoli, assoli di John Coltrane ed albe viste di sbieco da finestre mai uguali.
Poi un giorno Lorenzo disse che l’aveva scopata, e che era stata una mezza delusione.
“Rigida come una carpa” fu il suo commento.
Seguirono pomeriggi noiosi e serate cariche di tensione. Un sabato, all’uscita dal concerto di Archie Shepp con il suo quartetto, trovò una scusa qualunque ma molto femminile per litigare con entrambi e non si fece più vedere.
Più tardi venni a sapere che aveva dovuto abortire.
Lorenzo seguitava a non rincorrere le sottane, spesso avvicinava le coetanee solo per presentarle a me ma, come diceva mia madre, “quel ragazzo è nato con la calamita”.
Loro fissavano i suoi occhi azzurri e la sua bocca, lui non faceva altro che magnificare le mie doti di intrattenitore, la mia cultura, la mia intelligenza. Io mi limitavo a sorridere, le ragazze non mostravano interesse e, alla fine, lui desisteva.
“Non puoi diventare maggiorenne e restare illibato” scherzava.
In realtà ero più affascinato dal suo modo involontario di sedurre, che preoccupato di imitarlo o trovare una mia via d’approccio al genere femminile. Quasi godevo a vederlo combinare con le più vanitose, a far tentennare anche le più restie; spesso mi arrabbiavo, quando rinunciava ad andare a letto con una ragazza che mi aveva presentato, e che pensava potesse stuzzicare i miei sensi ancora in embrione.
Con Beatrice fu diverso.
Avevo capito da subito che Beatrice era una specie di Lorenzo femmina. Pareva tenerci pochissimo ai ragazzi, era bella ma soprattutto austera, indipendente, matura.
Era difficile scoprire un suo lato vulnerabile.
Lorenzo la detestava, forse aveva intuito che c’era qualcosa in lei che lo avrebbe catturato.
Infatti in quell’occasione fui io ad avvicinarla.
Ci scambiavamo libri, dischi, impressioni su film visti al cinema, commentavamo la cronaca politica e ci preparavamo insieme in vista delle interrogazioni scolastiche.
Penso che la attirasse il mio modo di non dare a vedere quanto mi piacesse, il mio non corteggiarla, non provarci, non dirle quanto fosse bella. Involontariamente, per la prima volta, stavo adoperando la tattica di Lorenzo.
Ogni tanto capitava a casa mia quando c’era anche lui, e i due si lanciavano frecciate ai limiti del cattivo gusto, dando sempre l’impressione di cercare spunti per il litigio.
Ci avrei giurato che si sarebbero messi assieme, e che sarebbe stata un’unione duratura.
Quello che non avrei immaginato è che sarebbe successo proprio la sera in cui avevo deciso di rivelare a Beatrice il mio amore per lei, e che avrei sofferto così tanto per il cambiamento di carattere che subì Lorenzo dalla loro relazione.
Erano fatti l'uno per l'altra, vederli litigare era cinema neorealista, i dialoghi erano da registrare, la loro fisicità raggiungeva la perfezione, erano bellissimi. Approfittavo del mio ruolo di doppio confidente per dosare possibili elementi di colluttazione.
Ne godevo, e sapevo perfettamente come scatenare uragani partendo da una semplice goccia di pioggia.
Passarono giorni, mesi.
Il mio atteggiamento nei loro confronti non cambiava.
Mi accorsi che ero innamorato allo stesso modo di tutti e due, che avevo bisogno di entrambi.
Fu terribile, abbozzai delle spiegazioni plausibili, tentai di soffocare i sentimenti. Facevo paragoni con altre ragazze, con altre coppie. Chiesi a un cugino più grande di me come distinguere la gelosia dalla solitudine, come riconoscere l’amore. Ma ogni volta non sapevo se parlare di Beatrice o di Lorenzo. Perché in fondo lo sapevo, il problema era lui. Alla fine dovetti convincermi che la realtà era capovolta: amavo Beatrice perché in fondo, caratterialmente, anche lei era un uomo.
La relazione tra Lorenzo e Beatrice mi cambiò la vita.
Mi immersi nei libri per trovare dei riferimenti letterari a quello che mi stava capitando.
Lessi e rilessi Oscar Wilde come fosse un testo sacro, analizzai prosa e poesia di Pasolini, cercai raffronti nel maledettismo francese, m'immergevo nei racconti di Pier Vittorio Tondelli per tenere a bada eventuali atteggiamenti estremi, ed imparare a conoscermi meglio.
Questa volta l'amico d'inchiostro Bernardo Soares non mi era stato d'aiuto, sapevo bene di essere un emarginato per mio stesso volere, e per questo avrei sofferto meno in futuro di ogni altro elemento di diversità con la maggior parte degli esseri umani, tuttavia non potevo ignorare una domanda che si faceva ogni giorno più insistente e plausibile.
Ero davvero omosessuale?
Non sarei stato in grado di rivelare ai due amici i miei tormenti sentimentali, cosa avrei potuto dire loro “Ragazzi, forse sono frocio e vi amo tutti e due!”
Mi avrebbero, a poco a poco, accuratamente allontanato.
L’istinto materno non è un’opinione, a casa il ritornello era diventato “quando ti troverai una ragazza come si deve?”
Era quel “come si deve” che non ho mai potuto sopportare.
Anche i miei due amici si adoperavano per trovarmi una fidanzata che mi calzasse, mi trascinavano con loro in vacanza e per me era già il massimo. Sapevo che non avrei mai trovato una donna che mi potesse far cambiare idea e difficilmente un gay con le caratteristiche di Lorenzo.
Iniziai a soffrire seriamente della mia diversità, perché la sentivo avulsa dalle diversità comuni: si parlava sempre e solo di sesso: quello è finocchio, guarda! Agita il culo come un’entraineuse... Lidia è lesbica, Adele se la fa leccare dal cane, Guido è gerontofilo, gli piacciono solo le signore di una certa età, e si fa pure pagare...
Ma per me c’era dell’altro.
Loro non capivano, poverini. M’invaghivo dell’anima, non del corpo. L’anima non è maschio né femmina, perché c’è virilità nel cuore delle donne almeno quanto femminilità in fondo al carattere di certi maschi. Di questi pensieri soffrivo e ancora oggi la penso liberarmi da presunti tabù, perché gli anni passavano e qualcosa doveva pur accadere. Fu proprio in Corsica che s'innescò un meccanismo nuovo, in loro ed in me.
Una notte, in campeggio, entrai nel bungalow di Lorenzo e Beatrice per bere dell'acqua fresca, che il mio casotto non aveva il frigorifero. Il vento che in quell’isola non si placa mai e a volte è un soffio complice, altre un fastidioso borbottio mi fece da alleato attutendo i cigolii. La porta era accostata, feci attenzione a non fare corrente e fui tentato di chiuderla per evitare che sbattesse e li svegliasse di soprassalto. Ma loro non riposavano. Anzi, stavano facendo l'amore talmente forte che non potei disinteressarmene. In cucina c'era una finestrella grigliata di sfogo che dava sulla camera da letto. Mi prese un desiderio che sapevo non essere soltanto curiosità. Salii su una sedia senza far troppo rumore e mi sporsi.
Era una scena splendida, virata dalla luna piena che faceva luce sui due corpi. Carne che aveva il colore della brace. Bea soffocava gli urli e sudava in ogni angolo della sua bellezza, Lorenzo infieriva su di lei con precisione meccanica ed ondeggiamenti del bacino che sembravano studiati da un coreografo. Non sapevo dove guardare, la bocca semichiusa della ragazza che implorava, sorrideva, si piegava nei gemiti e si riapriva al suo avvicinarsi, o i glutei lucidi ed elastici di Lorenzo, che si contraeva mostrando ad intermittenza il retto teso come uno stantuffo.
Mi masturbai, fu la mia prima avventura sessuale. Mentre raggiungevo l'orgasmo mi parve di notare Bea aprire gli occhi, guardare verso l'alto e sorridermi. Ad oggi quelle immagini sono dentro di me come il più bel film che abbia mai visto. Anime amiche e corpi bellissimi insieme.
Il mattino dopo ero visibilmente turbato, la testa mi scoppiava, le gambe mi tremarono per tutto il giorno. Lorenzo era convinto che avessi la febbre, Beatrice non faceva altro che sdrammatizzare, ogni tanto si avvicinava e mi accarezzava i capelli.
“Professore, vieni alla spiaggia naturista di Balistra con noi?” domandava, sicura che avrei approfittato dell’emicrania per lasciarli andare soli. Mi sarei vergognato come un ladro, ma la voglia di rivedere quei due corpi era enorme.

martedì 4 gennaio 2011

IL GIORNO IN CUI DIVENNI GIRIAMA


In realtà ho sempre sospettato di essere un giriama, di appartenere ad una delle tribù meno considerate d’Africa, una delle più quiete e indolenti alla vista degli occidentali, ma anche una di quelle che non hanno svenduto le loro tradizioni ma piuttosto preferiscono convivere con esse quotidianamente e non farne un vanto da cartolina, come avviene ad esempio per i maasai, ai quali è piovuta addosso una popolarità con la quale da anni devono fare i conti.
I giriama non hanno un aspetto da guerrieri, piuttosto sono dei contadini d’equatore, hanno zigomi scolpiti di grosso con il falcetto e corpi tozzi che solcano la terra meglio degli aratri.
Credono negli antenati come io credevo in mio nonno, avevano una regina, Mepoho, ed erano le donne a governare i villaggi, fino a quando non si rese necessario guerreggiare con nemici che facevano valere la forza dei muscoli e delle lance.
Quando arrivai per la prima volta in Kenya avevo vent’anni e, come dice il Poeta, m’innamoravo di tutto. La Natura mi avvolgeva e coinvolgeva e della Natura non facevano parte solo i baobab, i frangipani, l’oceano indiano, le scimmie e i varani, ma anche la popolazione locale, che sapeva viverci in simbiosi, ancora ignara però che i "mzungu" la considerassero Paradiso.
Dopo una settimana in un villaggio giriama, dormendo su un’inesistente materasso in una capanna di fango (ancora oggi sono convinto che gran parte dei dolori reumatici che ho sono stati causati da quella settimana), ho capito che anch’io ero molto portato per entrare nella stessa ottica di pensiero. Cominciò il mio processo di africanizzazione. I primi ad accorgersi che ero un giriama, furono i miei capelli. I capelli, si sa, essendo più vicini alla materia cerebrale, sono privilegiati, capiscono prima le cose. Così iniziarono a crescere ancor più selvaggi e ispidi, più neri e resistenti.
Da allora sono passati altri vent’anni e di mezzo ci sono state tante storie, alcuni libri e mesi e mesi di studi sul popolo giriama e sulla vita tribale. Nel frattempo sono tornato in Italia e ho dichiarato a tutti la mia africanità, nel 2005 ho fatto la mia scelta e due anni fa a Mombasa è nata mia figlia.
Oggi, dopo che l’associazione MADCA per la conservazione e il recupero delle tradizioni Giriama mi ha conferito la “giriamitudine” ad honorem, finalmente raccolgo il frutto di una grande passione per questa terra, per questa gente consapevole della propria storia più di quanto lo siano oggi milioni di italiani, fiera della loro ingenuità, preparata da sempre al peggio e così incerta sul domani da celebrare persino il giorno prima come passato remoto, vivendo il presente in maniera clamorosamente in sintonia con i nostri tempi sciagurati.
Ho usato troppe parole e troppi arzigogoli per un giriama. Mi congedo dalla filosofia e dalle elucubrazioni. Da oggi sono Mbogo Kimera del clan Amelulu. Un giriama.