lunedì 27 dicembre 2010

"MALAIKA" - 1 PUNTATA


21 Dicembre 1999

“Oggi non ho già più voglia di farvi lezione. Cosa ne dite di investire l’ultima mezzora prima delle vacanze parlando di quello che ci aspetta? Vorrei farvi partecipi di come lo sento io e come mi piacerebbe che lo sentiste voi”.
Silenzio.
Prendo un respiro pro forma.
“Tra poco più di una settimana, ragazzi miei, ci metteremo a guardare il nostro decrepito pianeta con cinque occhi a testa. I tre in più saranno gli zeri che accompagnano il due. Due millenni di storia, anche se non credo che l’era moderna sia partita dopo la morte di Gesù. Erano più avanti gli antichi egizi dei signorotti medievali.
Ma lasciamo perdere.
Interroghiamoci piuttosto sul passaggio da un millennio all’altro.
Cosa vuol dire? Pressappoco nulla. Forse soltanto venti secoli di cristianesimo, oppure duecento decenni di calendari identici a quello attuale o, ancora, ventiquattro mila mesi che si ripetono in fila per dodici.
La vera magia sta tutta nella cifra, nel 2000.
Durerà solo un anno, bisogna goderselo! Lo scatto del primo numero, e l’azzeramento degli altri, ci permetteranno di capire cosa è davvero mutato intorno a noi, come sta la nostra vecchia bicicletta dopo la verniciatura a forno, il pallone di cuoio rigonfiato dal benzinaio. La carretta del nonno passerà la revisione?
Vedremo finalmente se i computer attiveranno davvero i programmi che prevedono l’ingresso nel futuro reale, oppure cercheranno di dimenticare le migliaia di corbellerie informatiche che hanno immagazzinato un millennio prima, come potrebbe capitare a qualche essere umano con nozioni, progetti, sentimenti.
Gli storici raccontano che il Novecento fu festeggiato in maniera pirotecnica, era visto come il secolo delle rivoluzioni, del libero pensiero, della velocità. Le invenzioni si susseguivano spasmodiche, ed era soprattutto il cambiamento delle date a galvanizzare scienziati, letterati e governi di tutto il mondo. Furono organizzate crociere ardite, spettacoli di teatro d’avanguardia, feste che nulla avevano da spartire con la pomposa ovvietà ottocentesca. Ed era solo un cambio della guardia, si entrava negli ultimi cent’anni del primo millennio, tanti ne mancavano all'azzeramento, al giro di boa, al simbolo matematico del futuro. Anzi, le eccessive aspettative riposte nel Novecento hanno portato la bellezza di tre guerre mondiali, una ventina di conflitti internazionali e trentacinque sommosse civili. Sarebbe questo un motivo più che plausibile per non festeggiare per niente. Toccate ferro e incrociate le dita, ma immaginatevi cosa sta per accadere, voi che vi ci presentate vergini, recettivi, speranzosi. Annusatene l’aria, felici di potervi assistere! E vi prego, almeno il primo giorno del nuovo millennio, tenete spenti i telefoni cellulari”.
Sorridono, il gioco inizia a piacergli.
“Un antico profeta ci ha mandato le sue maledizioni, ma la iettatura funziona se si manifesta rapidamente, è a scadenza, come le mozzarelle. Non penso che salteremo in aria come fuochi artificiali, la settimana ventura. Invece sono preoccupato di sapere se ci sarà ancora la poesia, nel prossimo millennio, se si darà più spazio alle parole, piuttosto che alla voce. Quante altre cose verranno azzerate, oltre ai numeri?
Con queste considerazioni sul tempo che sarà, vi auguro buone vacanze. Pensate più che altro a vivere intensamente il veglione più importante degli ultimi novecentonovantanove, con una persona cara al fianco. Che poi, tanto, assicurano che il millennio vero inizierà il primo gennaio 2001”.

Così mi sono congedato dagli alunni della terza F.
Prima di questo pistolotto, ascoltato in parascolastico mutismo dai ragazzi, indifferenti persino alla vampata d’adrenalina che solitamente provoca il trillo della campanella, avevo tenuto l’ultima lezione del millennio sulla poesia.
L’ultimo grande poeta del secolo, Pierpaolo Pasolini.
Ho chiesto a Corrado di recitare La mistificazione è leggerezza in falsetto.
“Come, prof?”
“In falsetto! Hai presente il soprano Farinelli, o i Cugini di Campagna? O quegli altri, come si chiamano… i Bee Gees?”
“Quelli della Febbre del sabato sera, prof?”
“Proprio loro, Cattaneo”
Ci ha provato, ma gli veniva da ridere. Poi ha capito che non stavo affatto scherzando.
Si è fatto serio, l’ha letta tutta d’un fiato, con una vocina bianca bianca.
A ridere era la classe intera.

La mistificazione è leggerezza
La sincerità pesante e volgare
Con essa è la vita che vince
Deve vincere invece la giovinezza.

Era solo un esperimento.
Non l’hanno preso sul serio, siamo alle solite. Il docente secondo loro è antiquato e pedante, oppure moderno, informatissimo e odioso.
Se ama svariare, stupire, allora è completamente matto.
Lezione archiviata.
Corrado mi ha rincorso per il corridoio, ha dribblato un crocicchio di compagni, un bidello con la scopa e suor Matilde appoggiata alla finestra che maneggiava un Game boy sequestrato ad un alunno di seconda e trafelato mi ha chiesto dove avrei passato l’ultima notte del millennio.
E’ rimasto di sasso, apprendendo che sarei andato in Africa.
Forse anche lui è uno di quelli che m’immaginano perennemente rinchiuso in una topaia zeppa di libri impolverati, tra scatolette di cibo per gatti e pullover infeltriti, ammonticchiati sulla lavatrice; assorto in elucubrazioni che annullano il concetto di tempo, e quindi anche di vacanza natalizia, ed illuminano di polvere la scrivania su cui i gomiti hanno scavato solchi. Forse avverte l’odore di naftalina e carote lesse della mia casa, l’umidità delle pareti scrostate del bagno, la solitudine che tenta d’ingiallire i capelli grigio cenere. Misura la mia insonnia dalla profondità delle occhiaie, la misantropia dallo spessore delle lenti bifocali. Probabilmente mi considera uno strano animale intellettuale pleistocenico, combattuto tra l'astrattismo di concetti immortali ed il problema della sopravvivenza della specie.
A volte sono così.
“In Africa, professore? Ma a Sharm o proprio in Africa?”
Proprio in Africa.
Quello che non ho detto a Corrado è che non è stata una mia scelta.
Beh, non proprio.
Sono rimasto sorpreso anch’io, il giorno in cui Beatrice mi ha chiamato.
Non la sentivo da parecchio tempo. In realtà non mi ero mai fatto sentire, si era ricordata lei di un paio di miei compleanni, squarci d'ironia nei giorni più tristi della vita, che di solito amo trascorrere a letto, con l'amico di sempre che si materializza dalle pagine di un libro che di tanto in tanto riapro fin da quando ero adolescente. E’ Bernardo Soares, che mi rassicura dal suo ufficio di Lisbona.
Alla fine di un'estate incolore mi era arrivata, come un presentimento, una cartolina dalla Corsica firmata Beatrice: veduta dal’alto di una spiaggia incastrata nella roccia in cui eravamo stati con Lorenzo a diciotto anni.
Non è possibile, Roccapina!
Il bungalow che vibrava ad ogni raffica di vento, le serate al gusto di mirto, il mare dalle cento diverse sfumature d’azzurro... che nostalgia.
Avevo ricambiato con una veduta dell’Isola Comacina da Ossuccio, durante una gita con la classe. Non fui in grado di fare di meglio, ma era solo una maniera per ringraziarla.
L’ultima volta che avevo incrociato l’ex moglie di Lorenzo era stato alla fiera del mobile di Cantù, cinque o sei anni fa. Sedeva su uno dei suoi divani, nello stand della ditta ereditata dal padre.
Era in compagnia di un signore più maturo di lei, e molto distinto.
Sarà stata la vicinanza di quell’uomo o l’accostamento della sua esile figura a un austero sofà “barchetta”, ma la trovai invecchiata più di quanto avrei potuto immaginare.
Si alzò e mi venne incontro e mi volle offrire da bere. Dopo pochi secondi i fluenti capelli biondo platino si adagiavano con grazia sui cuscini di un Pagoda beige. Allora abbandonò i convenevoli e mi sorrise come avesse intravisto uno squarcio dei tempi felici.
Fu un attimo, mi disse semplicemente “Tutto bene, professore?” E si congedò, rapita da un potenziale cliente, togliendomi dall’imbarazzo di presentarmi il suo nuovo compagno che stava per fare capolino.
L’altra sera al telefono, invece, era diversa.
“Scusa l’orario, ho assolutamente bisogno di parlarti.”
La sua voce era grave, sottendeva una tensione emotiva che non le ho mai riconosciuto, lei sempre così distante da tutto: accomodante fino alla soglia dell'imbarazzo altrui, ma mai servile o entusiasta ; spontanea e passionale, ma raramente volubile o istintiva.
Mi sono recato a Villa Orsari pensando al peggio, attraversavo il deserto serale di Cernobbio convinto che riguardasse Lorenzo, che fosse successo qualcosa al nostro Lorenzo.
Era più di tre mesi che non ricevevo notizie da quel figlio di buona donna, ma poteva anche essere normale, ha sempre avuto paura di rivelarmi dove si trovasse ed a quali espedienti fosse costretto per sfuggire alla giustizia ed alle ricerche della prima moglie.
E se non è per Lorenzo, mi chiedevo, cosa vorrà così urgentemente una donna che non ha niente a che spartire con me da una quindicina d’anni?
Il massiccio cancello della villa si era spalancato elettronicamente, attraversai il parco con la mia utilitaria, sporcando il meno possibile con incerta carburazione il silenzio inglese che regnava, scortato da immobili olmi, guardato a vista dalle aiuole ben curate, fino a raggiungere il parcheggio.
I cani non emettevano mezzo latrato, ma nemmeno agitavano la coda; il maggiordomo mi accolse con uno sguardo vitreo da zombie.
"Benvenuto, professor Saveri"
Nel suo tono c'era la volontà di farmi intendere una situazione ben precisa, ma altresì l'obbligo di tacere e rimanere in armonia con la grande casa.
Qualcosa nella polvere dei quadri degli antenati, e nell’odore di medicinale del corridoio, mi mise in preallarme.
Beatrice era nel salone delle feste, sola e accucciata su una poltrona che la faceva piccola piccola, con le ossa protese il più possibile verso il tepore del camino.
Mi avvicinai, lei sorrise e la sua magrezza si estese al volto, pensai che forse era una mia impressione, le tesi le mani e mi chinai per abbracciarla.
Sussurrai un saluto, aspettavo che fosse lei ad esordire.
"Siediti, professore"
Era una voce stanca, che si sforzava di aprire le vocali per essere il più accomodante possibile.
Allora la esaminai meglio: gli zigomi che facevano ombra su quelle che un tempo erano le gote, i tendini del collo incuranti della pelle che durava fatica ad avvolgerli e tenerli insieme, i pochi capelli tenuti cortissimi e vistosamente tinti di rosso.
"Come stai?"
Sapevo bene che era una domanda delle più idiote, mi sforzai di usare il tono di chi ha capito che c'è qualcosa che non va.
Non era Lorenzo il problema, ma lei.
Prese un respiro che produsse come scintille di scossa, attraversandole i polmoni.
Non aveva lo sguardo di compiacente masochismo proprio di chi ha in serbo cattive notizie, e questo fatto mi allarmò ancor di più. Trascorsero due secondi tra il mio nuovo presentimento e la sua voce tremolante.
“Sono malata, Riccardo. Non mi resta molto da vivere. Forse riuscirò a vedere il duemila, i medici mi hanno detto che le cure che ho adottato sono tra le più rivoluzionarie, ma che nel mio caso possono solo ritardare... inoltre sono costosissime e molto dolorose. Mi sottopongo alla terapia, non per un morboso attaccamento alla vita, credimi, né per la magra consolazione di finire ai vermi nel nuovo millennio.”
Un altro respiro interminabile.
“Ho un solo desiderio: voglio rivedere mia figlia. Non è giusto che lei non sappia chi era sua madre, cosa ha lasciato per lei... Perché ogni giorno della mia esistenza ho pensato ad Alice. Nel corso di questi anni ho assoldato investigatori, ho pagato governi di almeno venti paesi, utilizzato gli appoggi politici di mio padre, ma non sono riuscita a localizzare il mio ex marito. Tu sei l’unico che ce la possa fare.”
Avevo inteso e, nonostante l’imbarazzo di assistere ad un dramma non mio ed il dispiacere di vederla in quello stato, mi sforzai di non chiedere cosa avrei dovuto fare. Mi limitai a mettermi a disposizione.
“Tu sei il solo amico che Lorenzo abbia conservato, puoi riuscire a scoprire dove si trovino, lui e nostra figlia. Ti pagherò il biglietto, ho già pronta una carta di credito da cui potrai attingere per ogni bisogno durante il viaggio, è illimitata. Ti chiedo di provare, di fare il possibile per riportare qui la ragazza. Solo per vederla, per parlarle, specchiarmi nella sua gioventù e regalarle uno sguardo di amore materno. Lei ne ha bisogno, ed io potrò andarmene serena.”
Cosa avrei potuto fare, se non annuire in silenzio e stringere le sue fragili mani, era già tanto che non mi fossi messo a frignare come un ragazzino, come la volta in cui scoprii che era stata a letto con Lorenzo, e non capivo per chi dei due stessi piangendo, di chi fossi più geloso.
“Va bene, Bea. Le mie ferie partono dal 22” le dissi.
“Lo so. L’aereo per Zanzibar è già stato prenotato. Non so in quale maledetta isola dell’Oceano Indiano o staterello africano si sia cacciato quel...”
Interruppi la sua invettiva.
“Le isole dell’Oceano Indiano sono tante, l’Africa è immensa. Non sarà facile scovarli”.
Beatrice chinò la testa, ricambiò la stretta di mano e chiese alla domestica una vestaglia più pesante, regalandomi una smorfia rassegnata.
“Ce la farai. Sei l’unico che può farcela.”
Trattenni le frasi di circostanza, i proverbi e le parole di speranza; soffocai quelle tristi, le sentite, sincere ma inutili mezze condoglianze che salivano dall'esofago. Non aveva accennato a eventuali rimorsi che avrei potuto covare.
In fondo avevo contribuito anch’io alla fuga di Lorenzo, indirettamente.
Sudavo, m'imposi di ritenere che fosse la vicinanza del camino.
Pensai soltanto a lei, al suo stato. L'avrei rivista?
Si alternavano nella testa altre mille domande, che vidi passare in un battito di ciglia.
Un migliaio di buste chiuse, come quelle dei quiz, c'erano tutti i quesiti di un'amicizia. Mi hai voluto bene? Sei stata gelosa di me e Lorenzo quando eravate fidanzati? In Grecia, quando vi spiai, ti accorgesti di me? Quella volta a Londra, mentre attendevamo Lorenzo in arrivo da Roma e c’era quella strana atmosfera, in hotel simulasti un attacco di colite perché avevi paura che finissimo a letto? Mi hai maledetto quando hai saputo che tuo marito era scappato con una mia allieva?
Adesso risponderebbe - pensai - a che giova mentire quando si è ad un passo dalla verità più grande di tutte?
Non ci provai nemmeno, la lingua era saldata al palato e sentii che, se avessi tentato di staccarla, l'avrei ingoiata.
Aspettai che fosse lei a congedarmi.
“Ricorda, la carta di credito è illimitata” le sue ultime parole.

venerdì 24 dicembre 2010

UN NATALE COME ME


Magari vi aspettavate che uno come me vi facesse gli auguri di Natale.
Uno come me non fa gli auguri di Natale.
Uno come me non fa gli auguri.
Uno come me non fa.
Uno come me.
Uno come.
Uno.
Uno già è tanto se si augura di essere come me.

domenica 19 dicembre 2010

TERZA ETA' IN TERZO MONDO: A MALINDI SI INVECCHIA BENE!


A Malindi si invecchia bene, non c’è che dire.
In questa grande botte di rovere climatizzata sull’Oceano Indiano, nel sud della prestigiosa cantina “Kenya”, apprezzata per il gusto selvaggio e agrodolce dei suoi prodotti, i retrogusti retrodatati, le etichette avventurose e l’infinita scelta di bouquet, continuano a maturare annate umane che in Italia sarebbero andate già da tempo all’aceto.
Allo stesso modo, è doveroso ricordarlo, ci sono anche numerose “gran riserve” di aceto che tentano l’avventura del “balsamico africano”, ma spesso rimangono buone solo per disinfettare le ferite dell’anima, del cuore o di uno dei pochi punti dove non batte il sole.
Malindi, luogo divino, anzi di vino, se vogliamo proseguire nella metafora.
Un tempo i pensionati italiani, per svernare e poi trasferirsi sempre più mesi all’anno, sceglievano mete meno esotiche e più vicine, fidando nella scelta economicamente più oculata e nei migliori servizi. Così per i milanesi era Rapallo, per i torinesi Pietra Ligure, per i fiorentini Forte dei Marmi o Cecina, per i bolognesi i Lidi Ravennati, per i romani un po’ dove capitava (e dove non li cacciavano dopo tre giorni) e così via.
Acquistavano prefabbricati per poche manciate di milioni, che d’inverno si riempivano di muffa, di gatti o di tossicodipendenti. I più fortunati riuscivano anche a trovare gatti tossicodipendenti ammuffiti. D’estate impraticabili, tra zanzare grosse come deltaplani e discoteche rombanti sotto casa, d’inverno il clima mite comunque non evitava il riscaldamento o un camino.
Le attività a mezzo servizio, gli ospedali messi sempre peggio, gli autoctoni in ferie o in letargo e i prezzi sempre più alti: ecco che in una ventina d’anni questi luoghi per anziani più o meno arzilli hanno perso il loro appeal. Così, pole pole come si conviene, si è fatta largo l’Africa.
Malindi: terzo mondo per terza età. La prima volta, ovviamente, in un villaggio turistico.
Vacanza rigorosamente fuori stagione, per approfittare dell’offerta all inclusive da 500 euro a settimana, compreso anche l’aereo! I primi tempi era meglio specificare, perché il Kenya fino a metà degli anni Ottanta era una destinazione d’elite, e nelle agenzie con 500 mila lire ti facevano vedere il depliant, un documentario e sentire l’odore di una scoreggia di ghepardo sottovuoto per entrare nel “climax”, altro che voli charter...
Oggi arriva l’allegra coppietta sessantacinquenne nel bell’hotel in riva al mare. Che gli importa a loro delle alghe? Tanto il bagno in mare non lo facevano nemmeno a Santa Marinella o ad Alassio. Una bella piscina, quella sì…rilassante e comoda, che ci si tocca e si può mettere il braccio sul bordo per ricevere un cocktail di frutta analcolico dal cameriere o ricevere un pestone dall’animatore rasta, distratto e saltellante. Fa un po’ troppo caldo, ma le ossa a una certa età preferiscono il tepore al freschetto, le zanzare sono un falso problema, perché il sangue di uno che ha respirato per più di mezzo secolo lo smog delle città italiane, fa schifo anche a loro.
Il Kenya è tutto positivo, e non solo siero! La coppietta, entusiasta, viene avvicinata da un venditore italiano (finto) giovane, (finto) dinamico e (vero) paraculo che illustra loro altri numerosi vantaggi del vivere a Malindi. Il maggiordomo a 70 euro al mese, il cuoco a 100 euro al mese, la badante a 120 euro al mese più gli extra per il marito, l’autista a 140 euro al mese più gli extra per la moglie. In più i venditori di case, dalla fine degli anni Novanta, devono ringraziare un elemento aggiunto: non il calo dei prezzi delle tegole canadesi e nemmeno l’importazione degli economici sanitari cinesi. L’elemento aggiunto per far vendere ancora più case è piccolo, piccolo, piccolo…tre centimetri di pastiglietta azzurra. Da allora, chissà come, i mariti spingono molto di più per la destinazione finale Kenya. I primi tempi portano la moglie in safari, la stancano con le gite in barca, con camminate sulla spiaggia, la iscrivono al golf, la mandano al mercato a scegliere personalmente la frutta e le ceste in vimini, a prendere il sole alla Rosada o al Parco Marino tutti i giorni…sperano di sfinirla e farla addormentare presto la sera per poi uscire di sottecchi ed andare a ballare al Fermento. Risultato: le anziane signore rifioriscono, si abbronzano, conoscono gente, imparano la lingua, capiscono vita e tempi africani. Vivono una nuova stagione e contraggono il mal d’Africa.
I mariti si gonfiano di birra, hanno occhiaie da tiratardi, si perdono dietro a ragazzine che li fanno soffrire come quando erano adolescenti e contraggono lo scolo (se gli va bene…).
Immaginate la scena: il marito torna a casa alle sei di mattina, dopo essersi ubriacato per attendere la fidanzata occasionale che si è attardata a ballare fino a tardi. Si è addormentato sul suo seno d’ebano e non ha fatto niente, in compenso aveva preso la pastiglia ed è stato cacciato a pedate fuori dalla sua stanzetta in affitto. La moglie, intanto, è già sveglia e pimpante, sta mangiando ananas e mango e si prepara al jogging mattutino in compagnia di Katana, il suo personal trainer. Lo vede presentarsi strepennato come Jack Nicholson nelle Streghe di Eastwick e con una roba gonfia in mezzo alle gambe che non aveva mai visto.
“Eginio…ma dove sei stato…che ti è successo…mi hai fatto stare in pensiero…ma…cos’hai nei pantaloni?”
“Lascia perdere…una serataccia…mi ha punto uno scorpione, mi hanno portato all’ospedale in stato di semincoscienza…ma ti ho mai detto che sei ancora una donna bellissima…vieni qua, mia leonessa d’Africa!”
“Eh…ma che dici…devo andare a correre, caro, che poi alle nove ho la parrucchiera per le treccine”.
Non sempre l’armonia di coppia viene esaltata in questo modo a Malindi, c’è anche chi non coltiva velleità “sentimentali” e preferisce un’intensa attività intellettuale: partite a scopa, pettegolezzi al bar, allegre dissertazioni su cateteri, dipartite e figli irriconoscenti, come nelle migliori tradizioni italiche. C’è chi insiste che a Malindi mancano le infrastrutture, che la popolazione locale non s’impegna abbastanza per lo sviluppo economico, che i turisti non vengono perché mancano i servizi…la verità è che il tempo passa e i residenti invecchiano, i pensionati di un tempo oggi sono già ultraottantenni e hanno bisogno di divertimenti…con altri arrivi il “gerontokenya” potrebbe diventare un business! Basterebbe poco per riempire ancor di più Malindi: un bell’ospizio con procaci infermiere locali in gonnellina e aitanti damoni di compagnia, un paio di bocciodromi con Kazungu che sposta le bocce, la tusker al posto della spuma e il rutto libero, un ristorante con menù di brodini digestivi di coccodrillo e samosa purganti alla papaia, un parco con panchine e una fontana nel mezzo, una bella rivista scandalistica tipo “Malindi 3000” da commentare e un moderno, elegante cimitero tropicale dove prenotare la propria lapide in pietra saponaria con il proprio mezzobusto in puro ebano.
Allora sì che Malindi sarebbe quella che abbiamo sempre sognato per il nostro futuro.
Un enorme, rigogliosa, equatoriale casa di riposo Villa Arzilla.

sabato 18 dicembre 2010

IL CONGO PRIMA DEL DERBY E LA VERTICALE DEL CARONI


Cazzi vostri, io me ne vado in Congo.
E per farvi capire che non è una provocazione, ci vado prima del derby. Mi spiace per i pochi fratelli che lascio e le fidanzate caucasiche occasionali, per le fidanzate dei fratelli che sono sacre e per le mogli che sono già più profane. Mi dispiace perdere la partita che vedrà le prodezze di Toni, l’esplosione di Rafinha, gli slalom di Mesto, la mobilità di Veloso e la panchina di Kharja. Sognerò un gol di Destro che per me non è scarso…no, però non è nostro…una doppietta di Rudolf. Ci arriviamo più invertebrati che mai, a questo appuntamento tradizionale. Come fosse la sagra delle puntarelle fuori stagione, come sapessimo già che finisce 0-0.
Mi spiace, amici; ma l’Italia mi ha veramente rotto i coglioni e non ci voleva Daniele Silvestri per capire che non sono il solo.
Me ne vado in Congo perché lì, quando un regime diventa ridicolo, si scende in strada e si fa la guerra.
Me ne vado in Congo perché in Africa c’è una logica delle cose: lagggiù non vedrai mai un disoccupato all’interno di una casa a rischio di crollo, con in mano un I-Phone.
Me ne vado in Congo perché voglio registrare un disco con una sublime band di musicisti di strada poliomielitici, che si chiama Staff Benda Bilili e se non ci credete, oltre ad essere cazzi mosci vostri, ascoltatevi il loro disco “Trés Trés Fort” e poi mi dite. Ma sottovoce, che mi sta sul culo quando la gente mi da ragione.
Me ne vado in Congo soprattutto per godermi la festa che ci sarà quando il Mazembe Football Club diventerà campione del mondo per club, dopo essersi inchiappettato i brasiliani.
Congo! Paese corrotto, incivile, zeppo di soprusi, governato da idioti pericolosi. Direte, dove sta la differenza? La differenza è che il divario tra ricchi e poveri è immenso, ma i ricchi sono lo 0,1 del Paese, non il 15 per cento!
Sono troppo incazzato e troppo poco furbo per commentare la fiducia al parlamento italiano, gli scontri di strada a Roma e degli infiltrati.
Per parlare dello schifo ho assunto un portavoce, l’ostricaro. E’ un personaggio che molti vorrebbero portassi con me in Congo e invece resterà, per scrivere un libro sulle memorie di Giorgio Bubba.
Ora però vi racconto una cosa vera: sono salito su un treno a Genova Brignole, ieri pomeriggio, e c’era un uomo che inveiva contro i passeggeri. A un certo punto ha tirato fuori il fontanile di carne e ha pisciato addosso a tutti! Ci sono volute cinque persone per bloccarlo, la polizia per identificarlo e un inserviente per disinfettare il vagone.
Il treno è partito con mezzora di ritardo e io avrei voluto tanto applaudire. Sui giovani d’oggi io ci scatarro sopra, sugli altri una bella pisciata magari sveglia.
Per calmare i nervi potrei parlare del Genoa, ma a chi interessa? Il nostro campionato, mi sembra di aver capito, si chiude domenica sera. Lo ha detto chi ne sa più di noi e io approvo parola per parola, lo sapete bene che sono aziendalista.
E’ un’annata iniziata male e progredita peggio. Non vedo l’ora che questa stagione finisca. Facciamo il derby, giusto perché è una partita storica, poi tutti in Congo, a vedere il Mazembe.
Oltretutto non c’è nemmeno la tessera del tifoso e si può andare a Kinshasa da Lumbumbashi con la sciarpa al collo. Al limite te la rubano i ragazzini che sniffano colla negli slum di periferia. Almeno si potessero giocare le partite in modalità manager, ci potremmo concentrare sul calciomercato di giugno.
Direi che si può tornare dal Congo giusto a giugno e luglio, quando lì piove e qui apre l’Ataquark.
Ci sono rimaste poche cose che danno soddisfazione, in questo stivale dei maiali. Mangiare, bere, la fica nostrana e un manipolo di tifosi rossoblu. Il resto lo trovi da qualsiasi altra parte. E anche il mangiare e bere, d’esportazione, se hai i soldi.
Ma il manipolo…di fronte al crollo verticale dell’Italia, prima di partire per il Congo, mi sono goduto uno di quei pranzi che non si dimenticano facilmente, se non con una lobotomia e una settimana di palestra. Tagliolini al tartufo bianco, tagliatelle al ragù di cinghiale, maiale al forno con patate, polenta e brasato e un numero compreso tra il cinque e il venti di varietà di dessert.
Tutto preparato da un uomo solo, con l’aiuto della moglie.
Potrei parlarvi dei vini, invece vi illumino sulla “verticale del Caroni”, unico antidoto contro un Paese allo sbando e contro i lanci morbidi di prima di Omar Milanetto.
Alla fine di un pasto del genere, di fianco a persone consenzienti (e che non vedono l’ora che ve ne andiate veramente in Congo) aprite una bottiglia di Caroni del 1993, che se lo sapete è un’annata unica nella storia del Caroni. Quell’anno i dipendenti della fabbrica misero in mora la società, ma non si chiamavano Meggiorini e Britos e la Caroni dovette chiudere. Per salvare quel che stava nelle botti, dato che la stagione era iniziata male e tutti speravano finisse presto, imbottigliarono il rum anzitempo.
Così invece di raggiungere il giusto invecchiamento e la famosa gradazione di 55,3°, si fermò “solo” a 44,5°. Si assaggi un bicchiere di Caroni 1993, lo si sorbisca piacevolmente, conversando e accompagnandolo con cioccolato fondente alla cannella.
Poi si passi al Caroni vero e proprio, dal 1992 a scendere. Dapprima sentirete il bruciore in gola che ho provato quando ho visto Gasparri saltare come Ricky Martin quando fa “un dos tres, alè alè alè”, poi respirerete roba forte come davanti a Montecitorio e infine capirete che ogni caduta verticale può essere compensata con un’ascesa di gusto.
Perché le stagioni, se vale la pena di vivere, non dovrebbero finire mai.
Solo una verticale, forse, ci salverà.
Io, intanto, me ne vado in Congo e mando cordialmente tutti quelli che non sono miei fratelli, a fare in culo.

giovedì 9 dicembre 2010

EUGENE E CHARLES: DAL SOGNO ALLA GIOIOSA REALTA'


Il ciak è da film neorealista, di quelli con Alain Delon nel grigio freddo invernale in un'imprecisata località di mare italiana. Passeggiano sulla ghiaia del bagnasciuga, lanciano sassi alle onde impetuose, ridono e cacciano le mani infreddolite in tasca.
Ma non è la Rimini di "La prima notte di quiete" di Zurlini, bensì la Pegli di SkySport 24. Attori: Charles Bruno e Eugene Moses. Ieri il capitano della Karibuni-Genoa di Malindi e il suo viceallenatore sedicenne, titolare della nazionale Under 20 keniota, hanno vissuto una delle più felici giornate della loro vita. La televisione sportiva li ha seguiti passo passo durante la loro esplorazione al Signorini. I loro occhioni sgranati nel seguire i movimenti di Ranocchia e Toni, le parate di Eduardo durante l'allenamento a porte chiuse, parlavano il sincero e muto linguaggio dell'entusiasmo. Dopo il battesimo con la nuova realtà, hanno incontrato i campioni. Bruno, centrocampista difensivo trasformato in difensore centrale, voleva stringere la mano a Ranocchia. "E' vero che se si gioca bene nel Genoa, poi si può andare facilmente all'Inter e al Milan?". Charles lo chiede sottovoce, Riccardo Re di Sky lo rilancia a Ranocchia che chiede gentilmente di glissare, ma si mette di fianco al suo "collega" di reparto. "Allora sarai il mio sostituto...ma non a gennaio, eh?". Si ride, ancor di più con Franco Zuculini, quasi un coetaneo. "Tra quattro anni, ci incontreremo ai mondiali, Argentina-Kenya...". Mentre i due ragazzi della scuola calcio rossoblu in Africa vagano estasiati tra le porsche e i suv dei giocatori del Grifone, passano alla spicciolata Rafinha, Kaladze ("come li capisco, anche i bambini in Georgia hanno gli stessi sogni" e infine il loro "sogno" di giornata: Luca Toni. "He's a world champion" spiega il "fratello maggiore" Charles al quattordicenne Eugene.
Si stringono la mano, Toni fa loro gli auguri per la carriera e per la partita dell'indomani, con i giovanissimi contro il Mondovì. Altre riprese in giro per Villa Rostan, occhi appesi agli affreschi e alle coppe. Ed ecco mister Ballardini. Parla in inglese con i ragazzi e prende sotto braccio Eugene. "Quanti anni hai, 14? Mio figlio ha un anno in più di te". Il sorriso reciproco è davvero quello di un padre e un figlio, per Eugene che ha perso il suo, soldato semplice nell'esercito, quando ancora non riusciva a dare calci al pallone.
"Voglio giocare nel Genoa, è il mio sogno" dice Charles Bruno all'uscita da Villa Rostan. Ed eccoci nel film di Zurlini. Le interviste in riva al mare, le riprese mentre mangiano la focaccia di Priano a Voltri, la più buona della riviera. L'immagine della giornata di gioia immensa avviene però a telecamere spente. In riva al mare, Charles fa il gesto di saltare in groppa al piccolo Eugene. I due esplodono in una risata contagiosa: "ti rendi conto di quanto siamo felici e fortunati?".
E' solo l'inizio della loro fortuna e speriamo anche di una felicità infinita.
Ma i più fortunati siamo noi, salvati dalla loro gioia e orgogliosi di ammirare nei loro occhi la serenità perduta dell'amare il calcio e la leggerezza nel coltivare i sogni come piante rare nel deserto dello smarrimento umano.