venerdì 20 maggio 2011

VIVERE IN KENYA


Vivere in Kenya, per un occidentale, è innanzitutto una scelta.
Significa abbandonare la propria patria, allontanarsi dalle proprie radici, lasciare parenti, amici e abitudini che ci hanno affiancato sin dalla nascita.
Ma vivere in Kenya significa (e deve significare) anche avvicinarsi ad un’altra civiltà, un’altra cultura, un altro modo di vivere. La storia del Vecchio Continente ci ha insegnato che quando ci troviamo in presenza di popolazioni che riteniamo più “indietro” di noi, magari perché mangiano con le mani o non hanno ancora dimestichezza con le ultime invenzioni della scienza e della tecnica, tendiamo a trasmettere le nostre cognizioni e fantastichiamo che quella sia superiorità.
Da pochi particolari, poi, iniziamo ad applicare questo metro in tutte le cose della vita, cercando di imporre anche abitudini idiote e disdicevoli. Chi ha detto che bisogna mangiare con la forchetta? E’ più igienico? Pensateci bene, non credo. Basta lavarsi le mani prima e dopo. Difficilmente, quando andiamo in un ristorante europeo, chiediamo al cameriere di lavarci le posate. Le troviamo sul tavolo e per quanto ci riguarda, la donna delle pulizie, in aperto contrasto con la gestione del locale, potrebbe anche essersele strofinate sul pube.
E chi vi dice che la carta igienica sia meglio della foglia di banano, per pulirsi il sedere? Potremmo andare avanti con mille altri esempi. Ma torniamo in Africa: vivere in Kenya vuol dire innanzitutto capirne i problemi, quelli ancestrali e quelli legati all’epoca che stiamo vivendo, quelli indotti e quelli che fanno parte dell’ambiente. Il rispetto per le persone è strettamente legato al rispetto per la Natura e, se amiamo questo posto, con il rispetto in noi stessi.
Credo che mia figlia crescerà con l’abitudine di utilizzare l’acqua solo per lo stretto necessario, che inumidirà le mani e poi chiuderà il rubinetto per insaponarle e lo riaprirà per sciacquarle. Così farà con la doccia. A me capita di farlo anche quando torno in Italia, mi è successo di scoprirmi a compiere quei gesti in un grande albergo. E ne sono felice! Rispetto è anche abituarsi a non sperperare, perché la miseria di molti dipende non tanto dalla nostra ricchezza, ma dalla nostra noncuranza. Posso mangiare con le mani, seduto al tavolo con sodali kenioti il cui modo di pensare, di pervenire a un’opinione è lontano anni luce dal mio, salvo incazzarmi come una bestia se sono loro per primi a insozzare il loro territorio o a non rispettare i propri simili. Ma qui l’Africa c’entra poco, lontani anni luce sì, ma siamo sempre esseri umani. I più stupidi, domestici e pericolosi animali in circolazione.
Vivere in Kenya per me è una scelta di libertà, ma non c’è libertà senza rispetto, senza passione e senza verità. Rispetto per chi ci ospita e non ha le risorse per mostrarsi generoso o avido come lo siamo noi in Italia alla presenza di uno straniero, passione nel coltivare i perché del nostro insediamento in questo Paese: che sia lavoro e investimento, amore per la natura o per la vita, solidarietà pubblica o privata, egoistico relax. Cercare di farlo al meglio, consci della fortuna di avere molte meno sovrastrutture e limitazioni di quanto non avvenga oggi nel mondo occidentale.
Vivere in Kenya è forse un ripiego per anime candide o una via di fuga per cuori prosciugati, una fune di speranza per tirare a campare o uno splendido e unico esemplare di mattone levigato su cui costruire la propria nuova vita.
Vivere in Kenya per molti è semplicemente una maniera per affrontare l’esistenza senza farsi troppe domande. Può anche andare bene, in quest’epoca di smarrimenti. L’importante è non farsi trovare impreparati quando l’Africa chiederà qualcosa. Come dire, si può anche rinunciare alle domande, basta conoscere qualche risposta.

lunedì 16 maggio 2011

LA GIOIA DI NON AVERE NEMICI


Esercizio di finta retorica: “non bisogna gioire delle sofferenze altrui”.
Per carità. Iniziamo con il dire che stiamo per parlare del giuoco del calcio e al limite del contrassegno di uno stile di vita, di un orpello supplementare ma molto profondo di vivere Genova e la genovesità. Sul tifo calcistico si è dibattuto fin troppo, sicuramente è una forma superiore di adorazione di falsi idoli, io lo ritengo un afflato di comunione d’intenti, di cooperativismo. Lo stare insieme per una causa comune. A maggior ragione in questo tempo di preclusioni, di gabbie, di realtà virtuale, lo stadio è uno dei pochi ambienti dove frequentare e conoscere persone.
Questo potrebbe bastare, poi c’è anche la schermaglia sportiva, la competitività, la passione. Situazioni e sensazioni minori, controllabili, razionalizzabili. Forse.
Eppure la mia gioia, al fischio finale dell’incontro Ciclisti-Palermo, che ha sancito la retrocessione dei titolari di quell’orribile maglia nella serie minore, era vivida e pura. Si rispecchiava candidamente nel pianto di quel popolo sbagliato in gradinata sud, non si è mossa a commozione per la disperazione quasi ecumenica del capitano Palombo.
Da parte mia, felicità.
Umberto Eco ha appena pubblicato un saggio palloso sull’esigenza di avere, di crearci un nemico.
A noi genoani, il nemico ce lo hanno creato con una fusione in laboratorio, e chi ha i capelli bianchi e lo sguardo fiero da partigiano, può assicurare che stavamo benissimo prima del 1946, senza alcun nemico se non i normali avversari del campionato e qualche pittoresca compagine ligure minore.
In questo periodo storico pieno di contrapposizioni spesso pretestuose, in malafede, in quest’epoca di scontri e di caccia alle diversità e di ricerca della superiorità nella distinzione, vorremmo dimostrare ancora una volta che noi genoani siamo diversi: vorremmo vivere in pace con chiunque e non doverci interessare di alcun avversario. Non abbiamo nemici, non abbiamo cugini.
Ecco cos’era quella gioia spontanea: la speranza di esserci tolti di mezzo per un po’ qualcosa che non ci appartiene, come un’escrescenza fastidiosa che non ci cambia l’esistenza ma ci ricorda che dobbiamo avere a che fare con il brutto, l’errore, il nonsenso.
Il nemico per noi non esiste.
E’ una roba di serie B.