domenica 30 dicembre 2012
MALINDI (canzone tratta dallo spettacolo "SAFARI BAR"
C’è chi viene a Malindi perché è in fuga
C’è chi viene a Malindi per la figa (la bellezza della fauna locale)
C’è chi viene a Malindi per la…strada
C’è chi viene a Malindi per la droga (trovare sé stesso e aprire la sua mente)
Il motivo non è importante
Se c’è il rispetto per questa gente
Che fa scordare l’Italia e ci dà libertà
Malindi, karibu bwana c’è posto per tutti
Malindi, furbi e stupidi, belli e brutti
Malindi, la savana le piante il mare
Malindi, l’importante è partecipare
C’è chi viene a Malindi per speculare (guadagnare)
C’è chi viene a Malindi per disboscare (costruire)
C’è chi viene a Malindi per sfruttare (dare lavoro)
C’è chi viene a Malindi per scopare (innamorarsi)
Malindi, karibu bwana c’è posto per tutti
Malindi, donne e uomini belli e brutti
Malindi, la savana le piante il mare
Malindi, l’importante è partecipare
venerdì 28 dicembre 2012
FREDDIE INVENTA LA LOTTERIA BENEFICA DI MALINDI: AI PRIMI CINQUE BIMBI CLASSIFICATI ANNI DI SCUOLA E CIBO GRATIS
Una lotteria di Capodanno per aiutare almeno tre bambini tra le migliaia di quelli del distretto. Bambini poveri, denutriti (come dalle ultime statistiche dell'Health Office) e spesso con condizioni difficili a casa, se non addirittura affidati a orfanotrofi. Noi viviamo a stretto contatto con loro e abbiamo proposto ad altre associazioni locali che si occupano della crescita e dell'educazione dei più piccoli (Myfem e Madca) e a uno degli sponsor di Malindi, più attivi nel sociale tra le realtà imprenditrici, il Malindi Key Group, di darci una mano. Così abbiamo fotografato e chiesto nome (previa autorizzazione per la privacy) a qualche centinaio di bimbi di Malindi e dintorni e li abbiamo "trasformati" in biglietti della più grande lotteria di beneficenza mai allestita da queste parti. I biglietti con foto e nome dei ragazzini vengono venduti a turisti e residenti a Kshs. 1000. Il montepremi verrà diviso tra i primi tre sorteggiati, con un premio per chi vince. Ma in realtà in questa lotteria chi gioca ha già vinto ancor prima dell'estrazione, che avverrà il 2 gennaio in un locale aperto al pubblico e alla presenza di ufficiali, oltre che degli organizzatori. Perché comunque i bimbi sorteggiati avranno una borsa di studio che, nel caso del primo estratto, arriverà fino al diploma. E' un modo per dare la possibilità, attraverso un gioco, di far sognare tante piccole anime e di familiarizzare con chi eventualmente potrebbe ricevere un aiuto anche se non vincesse. Sono tanti, troppi per dare loro una speranza attraverso l'istruzione, ma tutti insieme, con un piccolo gesto, ce la possiamo fare!
mercoledì 5 dicembre 2012
FREDDIE A "LE VIE DEL GUSTO"
Questa volta il grazie è tutto per Alfredo “Freddie” del Curatolo, ci ricorderemo di te quando a febbraio uscirà Safari Bar, vero? Grazie per avere accolto Le Vie del Gusto sotto la tua lanterna africana con le foto di Leni Frau e l’adattamento ad hoc del tuo spettacolo. E ora che sei di nuovo “scappato a Malindi”, fratello Freddie, abbi pietà di noi. Ci aspettano lunghi mesi di campagna elettorale per ritrovarci, se siamo fortunati, Bersani premier e la Bindi ministro. Passasse da quelle parte B, (in)trattienilo, che da quello non ci si libera più. (Maurizio Pratelli)
lunedì 12 novembre 2012
SI PRESENTA "SOTTO UNA LANTERNA AFRICANA"
La splendida storia di due scuole calcio per ragazzini di strada e orfani a Malindi, in Kenya, rivive attraverso le fotografie di Leni Frau, gli scritti del coordinatore del progetto sociale, lo scrittore Freddie del Curatolo e i contributi di ex calciatori e uomini di sport, scrittori e personaggi di sport, cultura, televisione e mondo del sociale.
La bellezza evocativa delle immagini e i racconti di quest’esperienza a sfondo sociale ci insegnano a vivere il gioco del calcio e una storica rivalità con il giusto spirito, per ritrovare i suoi valori educativi e salvifici: integrazione, amicizia, sportività.
Tre anni fa a Malindi, in Kenya, lo scrittore Freddie del Curatolo con l’aiuto di una Onlus e del Genoa Cricket and Football Club, creava la prima scuola calcio rossoblù in Africa, per ragazzi dai 10 ai 14 anni. Un progetto che ogni anno toglie dalla strada decine di giovani dei quartieri poveri e disagiati della cittadina africana, li fa studiare e crescere parallelamente al sogno di diventare calciatori.
Lo scorso luglio a Watamu, a pochi chilometri da Malindi, il Sampdoria Club Bogliasco crea all’interno dell’orfanotrofio Happy House, una scuola calcio blucerchiata. La U.S.Sampdoria fornisce le divise ai piccoli calciatori. Per i piccoli orfani è un modo per uscire dalla struttura d’accoglienza e confrontarsi con la vita e le aspirazioni dei propri coetanei.
Oggi le due squadre si allenano sullo stesso campo, quello del progetto sociale Malindi United. I ragazzi socializzano, si scambiano le esperienze e ogni due settimane giocano il derby della solidarietà e dell’integrazione. Un’esperienza che ha tanto da insegnare al calcio esagitato e senz’anima dei nostri tempi. Sfide in cui la vittoria è già esserci e coltivare la speranza, attraverso i calci ad un pallone, di uscire per sempre dalle condizioni di miseria e ignoranza che affliggono da sempre il continente africano.
Sotto una lanterna africana è la testimonianza, tra.sport, educazione e fratellanza, di come il calcio possa tornare ad essere un elemento aggregativo e di crescita in tempi di esasperazioni di rivalità ed eccessi mediatici. Il libro verrà venduto anche all’interno dello stadio Ferraris domenica 18 novembre, in occasione del derby.
mercoledì 17 ottobre 2012
ALLA PROSSIMA, BEPPE!
Da trent'anni mi manca un qualcosa.
Una roba bella, come avrebbe detto lui.
Sono cresciuto con le sue "Vite Vere", storie talmente surreali da essere più autentiche di quelle reali, pubblicate su Linus. Beppe Viola è stato uno dei miei primi punti di riferimento.
Sarà stato il suo essere profondamente milanese senza esserlo, il suo approccio mai troppo serio ma molto appassionato al gioco del calcio, l'ironia garbata da "inglese" napoletano. Un giorno, passando con la bici da Porta Lodovica, mi fermai quasi in preda ad una premonizione davanti alla pasticceria Gattullo. Dentro c'erano lui, Jannacci e Sandro Ciotti che discorrevano animatamente.
Avevo quindici anni e non mi piaceva chiedere gli autografi. Così entrai, chiesi una sfogliatella alla ricotta, pagai e, mentre la mangiavo, li guardai a lungo pensando che magari la volta successiva mi avrebbero riconosciuto.
Fu uno dei giorni indimenticabili della mia adolescenza.
Ciao Beppe.
Giuro che la prossima volta ti chiedo un qualcosa.
Sono cresciuto con le sue "Vite Vere", storie talmente surreali da essere più autentiche di quelle reali, pubblicate su Linus. Beppe Viola è stato uno dei miei primi punti di riferimento.
Sarà stato il suo essere profondamente milanese senza esserlo, il suo approccio mai troppo serio ma molto appassionato al gioco del calcio, l'ironia garbata da "inglese" napoletano. Un giorno, passando con la bici da Porta Lodovica, mi fermai quasi in preda ad una premonizione davanti alla pasticceria Gattullo. Dentro c'erano lui, Jannacci e Sandro Ciotti che discorrevano animatamente.
Avevo quindici anni e non mi piaceva chiedere gli autografi. Così entrai, chiesi una sfogliatella alla ricotta, pagai e, mentre la mangiavo, li guardai a lungo pensando che magari la volta successiva mi avrebbero riconosciuto.
Fu uno dei giorni indimenticabili della mia adolescenza.
Ciao Beppe.
Giuro che la prossima volta ti chiedo un qualcosa.
mercoledì 26 settembre 2012
martedì 31 luglio 2012
FREDDIE IN CAMMINO CON I MIJIKENDA (terza puntata)
Dall’altopiano di Jaribuni si dominano le due grandi vallate dell’entroterra di Kilifi. Quella verde di foreste e colline che ci siamo lasciati alle spalle parlava di villaggi sommersi tra cespugli e rocce preistoriche, di gente antica che ha conosciuto la civiltà con l’avvento delle motorette cinesi e di scuole piazzate in bilico su cocuzzoli d’argilla. L’altra è la spianata che porta a Bamba e il paesaggio diventa più brullo. Qui la terra rossa sta vincendo la millenaria guerra con la verde boscaglia. Odore di legna bruciata si confonde a campi di mais saccheggiati. Quel poco che cresce si mangia in fretta e l’acqua scarseggia mano a mano che ci si addentra. Jaribuni sta nel mezzo, con le sue baracche di ferramenta che espongono sacchi di cemento come oggetti del desiderio e vendono i chiodi anche singolarmente. Da qui si dominano le due vallate e verso la costa si vede l’insenatura ricoperta di mangrovie. E’ il creek di Kilifi, da cui partono rigagnoli di acqua salmastra che aiutano i contadini del fondo valle. Dalla rena arrivano le angurie e poco distante c’è anche qualche vecchio britannico che si è insediato con una farm e coltiva piante da frutto lungo binari di fango carrabili che costeggiano pascoli di vacche, coltivazioni di anacardi e infine rimessaggi di barche, poco prima di Mnarani.
Torniamo a Tzitzoni. I camminatori si sono alzati tardi dalle stuoie stese all’ingresso della scuola elementare.
Una veloce colazione prima che arrivino gli alunni e scoprano con sorridente sorpresa lo sparuto esercito di nonni e zii vestiti in costume.
Il percorso da Tzitzoni a Jaribuni è breve, così decido di percorrerne un tratto con loro. E’ festa di canti e balli, parole che ancora non conosco ma che hanno il suono di cose vere e giuste, di mantra trasmessi per secoli e ormai compresi anche dalle piante ai lati della strada polverosa. Ci scansiamo quando i camion la tagliano veloci e sconnessi, con carichi stivati in altezza che li fanno pendere pericolosamente verso di noi.
Ci fermiamo davanti a un tugurio in cemento e fango. Ospita il consiglio degli anziani della kaya dei Kauma. Il tesoriere sembra avere il volto scolpito in una di quelle rocce nere incontrate a Jibana. Poi c’è una mama avvolta in un vestito molto colorato e un giovane che non si stacca un secondo dal suo cellulare.
Vive i Mijikenda come una missione, uno dei pochi giovani incontrati fino ad ora. A Jaribuni, lo scopriremo pochi minuti dopo, c’è una forte componente separatista nei giovani. Sono simpatizzanti del MRC, il movimento che vorrebbe la “devolution” dal Kenya e che ha provato a farsi partito politico prima delle elezioni del 2013, per poi invece chiedere ai propri possibili elettori, di non votare. Come sempre, nella piazza del villaggio, ci mettiamo in cerchio e intoniamo (io scimmiotto, perlopiù) i canti tradizionali. Ballare è già più semplice, basta muovere i piedi seguendo i loro passi, che sono quattro: tre avanti e uno indietro. Quando lo faccio, battendo il “due” e il “quattro” con forza per terra come fanno loro, la gente che si sta assiepando intorno, si mette a ridere. Quando poi l’avvocato Mwarandu mi presenta come “giriama bianco” Mbogo Kimera, per un attimo l’ilarità supera il rispetto per le tradizioni. Bisogna riportare tutto al giusto equilibrio tra cultura e divertimento. Ci pensa Mwarandu, intavolando un discorso sulla difesa dei valori Mijikenda che suona anche un po’ politico, anche se molto rispettoso del governo keniota.
L’avvocato non è affatto inconsapevole, sa bene che tra la gente di Jaribuni si annidano quelli del MRC. Infatti non tarda la domanda di un giovane, che è una professione di militanza.Mwarandu non ci casca e, nel ribadire la vocazione apolitica dei Madca, ricorda che quello Mijikenda è un processo di pace, perché questa è da sempre la strada del suo popolo e che con il Governo bisogna cercare il confronto, perché una battaglia contro Nairobi sarebbe impossibile per chiunque.
I bambini ascoltano, si annoiano, cercano lo sguardo della fotografa che li blandisce con scatti tutti per loro. Sono pochi gli abitanti di Jaribuni che seguono la comitiva verso la kaya. Ci sarebbe il tempo di presentarsi ai mille e cento alunni di una scuola elementare, ma uno dei maestri tratta John a pesci in faccia.
“Siete stregoni” è il refrain purtroppo già sentito. Ma il fatto che a pronunciarlo sia un insegnante e non l’uomo della strada, è ancora più grave.
John chiede di parlare con il preside, che dopo mezz’ora è pronto a dare ragione ai camminatori Mijikenda, ma lo fa quando ormai i ragazzi sono rientrati in classe, per il ghigno soddisfatto del maestro ignorante. Anche senza i ragazzi, fuori dalla scuola partono canti e balli, tutti sotto un grande albero a ballare scambiandosi segni di pace e divorando una cassa di arance succose che ho trovato in un baracchino poco distante.
La comitiva ora scende per un viottolo tortuoso che costeggia il creek e dovrebbe sbucare a Majajani. Noi ci avviamo in macchina e li attendiamo.
Sbucheranno tre ore dopo, provati per il percorso scosceso e accidentato.
Il mzee più rappresentativo di Majajani è un personaggio da film. Ha gli occhi di Fernandel e la mimica da guitto.
Serafico come un mbambakofi secolare, parla con John che traduce tutto.
Si rivolge a me, parlando per metafore. Mi vede vestito come un Mijikenda e mi chiede se ho le scarpe giuste per camminare con loro. “L’importante è avere lo stesso passo – rispondo – le scarpe contano poco”.
Sembra soddisfatto della risposta.
I camminatori arrivano alla spicciolata, sono stanchi e qualcuno ha preso storte o è scivolato sul fango dei sentieri. Balliamo in fretta, poi ci avviamo verso Kilifi con a bordo la giovane Furaha. La ragazza mi ha colpito perché, oltre ad essere formosa e piena di verve, si disimpegna come una ballerina da discoteca malindina, più che come una traditional dancer. “Mi ha mandato qui mia sorella Jumwa – spiega con candore Furaha – lei non può essere con voi perché da poche settimane ha dato alla luce una bambina. Così mi ha chiesto di sostituirla”. Jumwa è una delle migliori danzatrici tradizionali, ci mette l’anima e, pur non essendo una bellezza, sprigiona una grande carica sensuale.
Furaha è molto meno passionale. Sarà anche l’età. “Mi ha insegnato tutto mia sorella – ammette – è la prima volta che ho a che fare con i Madca”. Poi aggiunge che l’anno scorso è stata eletta principessa Giriama, “Miss Hando”. Ne parla orgogliosa quasi come fosse una starletta da televisione italica. Le adolescenti carine hanno sogni identici in tutto il mondo, semmai è strano vedere Furaha scarpinare (controvoglia). Aspettiamo un passaggio per lei a Kilifi, al vecchio attracco dei ferry, sotto il grande ponte, che necessiterebbe di manutenzione.
Gli altri, esausti, stanno affrontando la strada per Kilifi a due all’ora. C’è chi si ferma per riposare ogni venti minuti, il gruppo si sfilaccia per poi ricompattarsi quando il buio s’inghiotte l’entroterra.
Ci trasferiamo a Mtondia, pochi chilometri oltre Kilifi, in direzione Malindi. Qui, in mezzo a due imponenti baobab, come streghe buone medievali, tra sbuffi di polenta e profumi di stufato, Mama Dahabu e Mama Kapucheche stanno preparando sima con carne e mchicha per la truppa.
Ma sono le nove e non si vede ancora nessuno. Mi chiama John Mitsanze.
Sei dei nostri eroi sono stati ricoverati in ospedale a Kilifi. Temiamo il peggio, lasciamo le cuoche nell’antro magico tra i due enormi baobab e ci precipitiamo alla clinica. Qui, manco a dirlo, li troviamo sorridenti, seppur mogi mogi. Dissenteria, è la diagnosi comune a tutti.
C’è Mzee Charo, che con il suo cappello da farmer ben calcato e la sciarpina rossa, non ha smesso di ballare da Mazeras a Majajani, ci sono due mama che chiedono acqua e riposo, gli elementi essenziali per rinascere. In questa parte di mondo si può rinascere ogni giorno, certi di non perdere il patrimonio accumulato nella vita precedente. Perché molto spesso non si ha nulla da perdere. Basta chiedere di ritrovarsi nello stesso punto ed ecco che un giaciglio, un vestito, una razione di sima…non mancheranno. Paghiamo il conto della clinica, John mi mostra i referti medici. C’è anche un sospetto caso di salmonella. “Lavatevi sempre bene le mani” si raccomanda, una volta tornati sotto i baobab. Acqua, riposo. Domani è un’altra vita, un’altra festa. Sono altri trenta chilometri di storia.
(fine terza puntata)
venerdì 27 luglio 2012
FREDDIE, IL "MIJIKENDA BIANCO" IN CAMMINO (seconda puntata)
Gli anziani mijikenda sono alberi. Da settanta, ottant’anni vivono in simbiosi con la Natura. Lo stesso identico ambiente che li ha visti nascere, familiarizzare con erbe, piante e sterpaglie. Li ha riempiti di terra e polvere e poi lavati con acqua argillosa. Li ha nutriti con acqua di cocco e frutta caduta dagli alberi, con il mais pestato del campo di casa e gli spinaci dell’orto. Li ha accuditi nelle case tirate su dal fango della radura e coperti dalle foglie secche del palmeto. Ad ogni stagione sono stati arsi più volte dal sole ed inumiditi dalla rugiada, seccati dal vento e infradiciati dagli acquazzoni. Per questo ancora adesso dormono all’aria aperta, con una stuoia come materasso e un turbante di stracci come cuscino. Non è stato un sonno regolare, il loro. Avevano scelto uno dei luoghi sacri per eccellenza della loro cultura, e si sono ritrovati in un campo di mais. Noi preferiamo una minitenda da trekking da una ventina di euro. Ci svegliamo con le ossa rotte ma siamo stati protetti dal freddo e dall’umidità di una notte d’inverno equatoriale a Kaloleni. L’albero sacro di Mepoho, con la luce del mattino, trasforma i raggi del primo timido sole in fasci di luce irregolari che rendono ancor più palese la situazione che ieri sera ha fatto sobbalzare gli “elders”.
Siamo nel bel mezzo di un terreno coltivato a grano. In ogni altra parte del mondo si griderebbe allo scandalo. Questo è allo stesso tempo un sito storico, culturale e religioso. Un po’ come il Taj Mahal in India o il Pantheon a Roma…certo, stiamo parlando di una piccola cultura, di un’etnia africana di due milioni di persone, ma anche nella stessa costa keniota, hanno reso museo le rovine di Gede, cittadina araba senza una storia particolare, se non quella commerciale. Mentre il luogo sacro della cultura Mijikenda, dove la regina Mepoho, la profetessa, nacque e predicò, ai piedi delle lande da cui partì la suddivisione dell’etnia in nove tribù, è lasciato in mano agli eredi del proprietario del terreno che non hanno intenzione di cederlo. “E’ il governo a dover fare la proposta per l’acquisto o l’affitto – spiega John Mitsanze – noi possiamo garantirne la gestione. Dovrebbe essere stipulato un accordo in base al quale i proprietari siano costretti a cedere almeno la parte di terreno in cui è compreso Mbambakofi, l’albero sacro sotto il quale Mepoho predicava”. Ci sediamo tra le radici dell’immenso Mbambakofi e osserviamo il paesaggio intorno: da una parte il manipolo mijikenda che ricompone i propri bagagli e si prepara al secondo giorno di marcia. Le mama preparano il tè con il latte, c’è chi si pulisce i denti con rametti di rovo e chi confabula ridendo. Li avevamo sentiti ridere e scherzare anche nel buio della sera e con le loro voci allegre ci eravamo addormentati.
Dall’altra parte del campo, dall’alto si scorge il disordinato crocevia di Kaloleni. E’ un altro vociare, più frenetico e moderno, rumoroso e mescolato a marmitte e bassi di autoradio, ma altrettanto vivo e sereno. L’albero sembra lo spartiacque tra un passato selvatico, primordiale, pacifico e un presente in cui, almeno qui a Kaloleni, si fa fatica a vedere molti segni positivi della civiltà. Una preghiera Taireni za mulungu… e siamo pronti a partire.
Il cielo dell’entroterra minaccia pioggia ma la comitiva non si scompone. Canti e balli, scanditi dal corno giriama, da campanelli che sono cerchi di ferro battuti con un batacchio e da percussioni da viaggio a tracolla dei musicanti, avvolgono la cittadina commerciale che s’inerpica sulle colline di Kambe. La sua via principale ha baracche abbarbicate tra sassi e poco cemento. Vendono corde, semi, vestiti usati, legumi, pentolame, sacchi di farina, taniche vuote, polpettine di patate e samosa, paraffina, pescetti essicati, piatti e tazze di plastica. E’ un mondo di necessità povere e semplici, quello che sfila al nostro fianco. Fino alla piazza alta, nello slargo tra un pub, un ferramenta, il barbiere e due chioschi di pizzicagnoli. Qui viene allestito lo spettacolo di strada più entusiasmante a cui questa gente possa assistere. Un teatro canzone d’altri tempi che racconta storie nella loro parlata, che è la lingua di pochissimi. Termini, forme gergali, locuzioni che affratellano in modo diretto e vero. Filastrocche danzate, balli popolari come rituali di riappacificazione, un senso di già vissuto e di dispiacere che molto di questo sia già finito. Si potrebbe andare avanti così fino a notte fonda, ma sono solo le dieci del mattino. La truppa inforca la grande “carretera” che si mangia la collina dalla parte opposta, per inoltrarsi nella foresta di Jibana. Qui c’è chi non ha mai visto un mzungu in vita sua, bimbi che scappano terrorizzati alla vista dell’obbiettivo della macchina fotografica, donne che si avvolgono per intero in parei colorati, ragazzini che guardano in tralice. Solamente gli anziani non si scompongono. Ci osservano con la dignità che portano appesa alla poca carne e ai peli bianchi della barba che sono un tutt’uno con i capelli. Una dignità che è buona parte del tesoro dell’Africa. Ci si potrebbe nascondere con loro, in questo saliscendi, nelle pieghe verdi di questo lenzuolo ondulato di mondo.
Ci fermiamo, li salutiamo. Due parole in dialetto bastano a far crocicchio, a diradare la leggera inquietudine provocata dall’incedere del fuoristrada. Spuntano sorrisi grandi come l’arcobaleno che disegna il contorno delle acacie. Poco distante abbiamo notato una scuola abbandonata che qui chiamano “politecnico”. Insegnavano ai contadini a fabbricarsi sedie e tavoli, alle loro sorelle taglio e cucito. Qui non ce n’era proprio bisogno. Le panchine ricavate da tronchi di palma all’ingresso delle capanne vanno benissimo e nessuno si aspetta tende ricamate alle finestre. Basterebbe saper scrivere e leggere bene e conoscere la propria storia. Siamo a kaya Jibana, nel cuore dell’entroterra della costa keniota. Mille anni fa, qui, non era molto diverso da oggi. Ed era sicuramente meraviglioso.
Su un poggio attendiamo i camminatori, proprio quando le nuvole innaffiano la boscaglia con la violenza di un enorme giardiniere che inciampa. Spunta la bandiera keniota dalla collina di fronte. Il popolo impassibile balla sotto la pioggia incessante. C’è una mama che è scivolata e si è fatta male a una caviglia. La carichiamo in macchina e attraverso kaya Chonyi la portiamo a Tzitzoni. Alla scuola elementare, Mama Dahabu, Mama Kapucheche e le altre stanno già predisponendo polenta e verdure per la cena. Avranno da attendere, perché il percorso del secondo giorno di cammino è davvero lungo e la pioggia l’ha reso particolarmente ostico. Arriveranno, esausti, alle nove di sera, dopo aver ballato, erudito e cantato anche a kaya chonyi e in altri tre villaggi sulla strada. E’ più forte di loro. Anzi, è la loro forza.
(fine seconda puntata)
martedì 24 luglio 2012
I MIJIKENDA IN CAMMINO E IO CON LORO (prima puntata)
Sono sempre meno, ma sempre più decisi. Hanno perso per strada fratelli, compagni di viaggio, vicini di capanna. Tutto quel che hanno è una casa e un campo coltivabile, i loro costumi tradizionali e un paio di abiti che noi chiamiamo “civili” ma che a ben guardare sono meno civili dell’hando (la gonnellina con il top delle donne) e del khanga (il pareo avvolto in vita degli uomini). Hanno poco o nulla e oltretutto vedono ogni giorno di più il loro passato cancellato da falsi miti, ignoranza e dall’assenza totale delle istituzioni.
Il manipolo di Mijikenda che per il secondo anno di seguito si è messo in marcia per difendere la propria cultura e le tradizioni di un’intera etnia, merita ancora più rispetto e visibilità.
E’ una battaglia pacifica, che viene combattuta con due sole armi: piedi e testa. E con munizioni di gioia, positività sparate sulla gente che incontrano sulla strada. Duecentocinquanta chilometri in sette giorni di camminata, toccando otto luoghi sacri della cultura mijikenda.
Una cinquantina di piccoli, umili, pacifici eroi cercano di risvegliare il sentimento d’appartenenza di due milioni di persone, gran parte delle quali vivono ancora nella regione costiera del Kenya. Sono perlopiù anziani. Ci sono molte donne, “mama” che hanno alle spalle numerosi figli, decenni di governo del villaggio, del campo coltivato (la “shamba”), delle capanne di fango. Dopo i chilometri quotidiani di una vita, per andare a prendere l’acqua, per procurarsi la legna, per recuperare erbe medicinali, per scambiare i prodotti della terra con altra materia commestibile, ora camminano fino allo stremo per non perdere quanto di più caro è rimasto loro nel cuore. Il tesoro di una vita, l’unico gioiello ereditato dai padri e dai padri dei padri. Quello che le grandi piogge non potranno mai trascinare a valle con l’argilla melmosa, che gli incendi di febbraio non potranno mai ridurre in cenere, ma che solo l’inciviltà dell’uomo potrebbe far scomparire.
Le mama, gli anziani, i capotribù, il poeta e i musicanti, le danzatrici con alcuni “professionisti” (l’avvocato Joseph Mwarandu, fondatore dell’associazione culturale MADCA, il curatore di musei John Mitsanze, il tour-leader Samson, l’universitaria Furaha, il maestro Simba, figlio dell’ultimo grande capo Mijikenda, Simba Wanje) si sono ritrovati il 15 giugno a Mombasa. Accolti dal Governatore della costa, che li ha esortati a proteggere le loro tradizioni, sono partiti alla volta della prima “kaya”, il villaggio sacro di una delle nove tribù che compongono l’etnia mijikenda.
Chi segue malindikenya.net conosce già la storia di questo popolo: nel dialetto giriama, divenuto l’idioma ufficiale dell’etnia, “midzi” significa popolo e “chenda” è il numero nove. Le nove tribù intorno all’anno mille lasciarono le colline di Shangwaya, non lontano dal confine con la Somalia dove oggi è in gran parte deserto e dove si battaglia con la fame e si conduce un’assurda guerra tra squallidi interessi economici e cieche rivendicazioni integraliste, per cercare un luogo più tranquillo e riparato dagli attacchi di popolazioni guerriere. Attraversando l’entroterra costiero giunsero tra i saliscendi di Kaloleni. Qui ognuna delle tribù si organizzò in un villaggio. Chi nelle piane tra boschi e palmeti, improvvise formazioni di rocce laviche millenarie e fiumiciattoli che confluiscono nel creek di Kilifi. I Digo si spostarono verso Mombasa e da qui proseguirono per Ukunda, i Duruma scelsero la zona di Mazeras, dove le vallate si aprono e oggi passa l’autostrada Mombasa-Nairobi. Le altre tribù elessero a foreste sacra (le kaya, appunto) villaggi molto vicini tra loro. In una manciata di chilometri si sale sul crinale di Ribe, nella piana di kaya Chonyi, nella foresta di Jibana, sulle colline di Rabai, nel bosco di Kambe alle pendici della cittadina di Kaloleni. Poi, scendendo verso il creek, s’incontra la kaya dei Kauma, poco distante dal villaggio di Jaribuni.
Il traffico di Mombasa incontra a suon di clacson e fumo nero di marmitte instabili il passaggio della sfilata in costume dei Mijikenda. In testa al gruppo c’è una mama che regge la bandiera keniota, mentre un ragazzo vestito in abiti normali ne fa sventolare una identica nelle retrovie. Qualcuno al passaggio del plotone urla “mchawi!”, stregoni cattivi. E’ il primo segnale della poca coscienza dei loro stessi consanguinei. “I Digo sono stati i primi a prendere le distanze dalle tradizioni Mijikenda – mi spiega Mwarandu – così come fecero mille anni fa quando se ne andarono oltre Mombasa. E’ insito nella loro natura. Così oggi si mescolano alle razze della grande città, e questo è anche giusto, ma invece di mostrare le peculiarità della loro provenienza, hanno assorbito la civiltà e il progresso nel nome del business, del denaro, della globalizzazione”. E’ comodo pensare che chi difende una cultura indigena millenaria, voglia anche difendere i rituali animisti che ancora sopravvivono qui, dove l’evoluzione è arrivata (con inganno, coercizione, schiavitù e violenza) solo due secoli fa. I Mijikenda ancora oggi sono in grado di curarsi con le erbe, praticando una medicina che è in auge nei salotti bene delle metropoli occidentali ma che non piace per niente alle multinazionali che scaricano tonnellate di medicinali fuorilegge in Africa, hanno amministrazioni parallele e parlamenti nei loro villaggi che non hanno mafia e corruzione come fondamenta del loro ordinamento, ma buon senso e rispetto delle opinioni di tutti.
Non a caso il Consiglio degli Anziani di una circoscrizione, viene consultato anche dalle autorità distrettuali, dalle associazioni benefiche, da chiunque voglia avere a che fare con le zone ad alta concentrazione di Mijikenda. Esiste anche la stregoneria, e tutti ci credono. Tanto che gli stregoni sono personaggi molto potenti. Un anatema contro malviventi o chi palesemente non rispetta le regole della comunità, fa paura anche agli stessi giovani che si vogliono staccare dagli usi e costumi dei padri, in nome degli dei che noi conosciamo da tempo. “Si muore più facilmente in coda in un ospedale di Mombasa aspettando la cura giusta, piuttosto che a Kaloleni, dopo un consulto con lo stregone guaritore” dice Simba.
Vaglielo a spiegare ai tassisti in motocicletta assiepati agli angoli delle strade, che delle usanze degli avi si tengono solo il vino di palma, consumato però non fresco nel relax di un tramonto nella kaya, ma superalcolico e fermentato nella fagocitante miseria suburbana. Vallo a raccontare a chi vive di espedienti intorno al mercato nuovo, sniffando colla e maledicendo il governo, convinci tu le bande di slum che abbrustoliscono sogni e speranze sotto la lamiera di baracche che presto verranno spazzate via dall’edilizia, da quello stesso progresso che si mangia la cultura dei padri.
Le nuove generazioni si nutrono della stessa droga e non solo si dimenticano la cura, ma arrivano anche a denigrarla e a combatterla. “I nostri anziani vivono ogni giorno con la paura di essere picchiati se non ammazzati – racconta Emmanuel Munyaya, giovane (e non è un caso, è stato eletto apposta) presidente dei Madca – io stesso che ne ho difesi alcuni, e ho cercato di denunciare le baby gang che vogliono eliminare i presunti stregoni, sono minacciato e ho messo la mia vita e quella della mia famiglia a repentaglio”. Sotto i loro piedi nudi, nella camminata del primo giorno che li vede attraversare i sobborghi sporchi e degradati della città portuale, alla sporcizia immorale si aggiunge un senso di instabilità che abrade più delle buche dell’asfalto. Insieme alla cultura e alla tradizione, ci sono da salvare vite umane, esistenze di uomini semplici e antichi, di decani impassibili come baobab e saggi come l’acqua dei ruscelli incorrotti delle colline che da sempre trasporta e purifica le stesse cose.
Un giorno di cammino per purificarsi dall’inciviltà della civiltà. Kaya Duruma è una via di mezzo tra i Digo ormai persi (“i loro capi si sono addirittura rifiutati di partecipare agli ultimi meeting intertribali” ammette il segretario dei Madca John Mitsanze, che a Mombasa ci vive e lavora) e le “sette sorelle” delle colline, Ribe, Rabai, Kambe, Kauma, Chonyi, Jibana e ovviamente i Giriama, la tribù più numerosa, quella che a Malindi frequentiamo e ben conosciamo.
A Mazeras c’è un altro gruppo di persone, importanti e coinvolte nella camminata di pace e sopravvivenza almeno quanto chi ci mette i piedi. Si tratta delle mama che predispongono la cena e preparano il luogo in cui il manipolo si fermerà per dormire. Coordinano il tutto Mama Dahabu, un’energica signora di Matsangoni che è capace di trattare con i negozianti il prezzo di ogni singolo mazzo di spinaci locali (“sukuma wiki”) e di insaporire un piatto di polenta e fagioli con latte di cocco e melanzane gialle di Kombeni. Con lei c’è Mama Kapucheche, che un tempo ballava e cantava come poche giriama ma che pinguedine e salute consigliano di tenere le ginocchia a riposo. Dall’Aretha Franklin Mijikenda che era, si è alacremente trasformata in aiuto cuoca, ma non disdegna qualche improvvisa canzone tradizionale e ha sempre un sorriso per tutti. Accanto a loro, qualche neo mamma con i pargoletti al seguito e gli anziani che non possono camminare ma non rinuncerebbero per niente al mondo ad essere sul campo. Hanno messo da parte i loro risparmi e si pagano la tratta del matatu per attendere i camminatori alla sera e farsi raccontare la tappa.
Lungo la strada che porta a Mazeras ogni villaggio, ogni assembramento di gente e negozi, ogni crocevia, ha visto il popolo in cammino fermarsi, mettersi in circolo e cantare. Fino a quando si forma un altro circolo alle loro spalle e un crocicchio sempre più imponente diventa pubblico. Ecco allora che scatta quella che Mwarandu chiama “Elimu”, l’erudizione. Nel nome della pace, della mescolanza di razze e culture e in difesa della propria, vengono raccontati i problemi e le verità dei Mijikenda. Dietro ai fantasmi della stregoneria, c’è il pensiero così salvifico e attuale di un’etnia che per centinaia d’anni è stata pacifica, in cui erano le donne a comandare, che non costruiva armi da guerra e aveva monili da caccia che spesso facevano sorridere persino le loro prede. Meglio ingegnarsi per creare trappole, che passare la vita a costruire pericolose lance. Meglio diventare vegetariani, che rischiare la vita per uccidere uno gnu. L’uomo d’altronde non è mica nato carnivoro. Il poeta Kazungu Wa Hawerisa intrattiene il pubblico con le sue liriche in giriama. Sonetti che pescano nell’attualità (le bombe nelle chiese a Garissa, le elezioni, il Governo lontano dalle esigenze dei cittadini) e nella storia (le profezie veritiere, le preghiere dei padri). Per finire l’improvvisata festa di paese con un’invocazione a un dio che può essere quello cristiano ma anche quello mussulmano, ma in realtà per ognuno di loro è lo spirito dei padri e delle madri, la forza del ricordo e del percorso millenario, sempre a piedi, fatto da un intero popolo. Forse è proprio Dio, quel che i camminatori Mijikenda stanno cercando di difendere.
Taireni, za mulungu. Alombwayeni mulungu.
(prima puntata)
lunedì 11 giugno 2012
ANDARE IN KENYA...
Vendo vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Considerando la vita partendo dal basso
Ho fatto gavetta non ho guadagnato mai
neanche un sasso qualcosa da vendere in strada
la festa è finita scappato a Mombasa
E allora vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Ipotecando il futuro secondo la prassi
Avrei lavorato per altri vent’anni poi
In tasca un poco di soldi magari una casa
La testa malata scappato a Mombasa
E con l’istinto di un bambino
l’incoscienza stesa al sole
M’immergo in un mondo diverso dal mio
Col coraggio di lasciare
Tutto dietro le spalle
Rompo il mio vetro prendo il respiro
giro un nuovo film
e dopo
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
Vendo vendo vendo la pellicola della mia vita
njoo hapa baba, njoo ndani moyo yangu, baba mzee njoo hapa lala
domenica 20 maggio 2012
IL CONTENZIOSO CON L'INVISIBILE
Per raccontare questa storia d'amore bisogna partire da Odessa. Che bisogno c'è di andare tanto lontano? Se dico Odessa non mi viene in mente niente mi confondo. Odessa è una parola suggestiva musicale tipo odissea. Odessa odissea ma non so bene dove sia. Raccontami un'altra storia. Nooooo ti racconto di Odessa perchè questa ti voglio raccontare.
E' la storia di un uomo e una donna che si sono persi e perdendosi hanno vinto il contenzioso con l'invisbile, perchè o si amavano o morivano. Allora è una storia romantica? mi farà sognare? Toh! Eccoti un atlante, andiamo per ordine apri la pagina dell'Europa e guarda a destra in basso ma non troppo guarda sul Mar Nero, lì c'è Odessa. Mmmm lo sai che ci vedo poco, le scritte sono minuscole non riesco a leggerle, mmmm ma non puoi raccontare un'altra favola? No, stai zitta. Odessa agli inizi del 900 c'è una famiglia a Odessa sul Mar Nero. Hanno un teatro si divertono. Immagina il teatro, le scene, i costumi. Poi scoppia la rivoluzione, figli maschi muiono tutti, le femmine si salvano. Nadesha finisce ad Amburgo sposa del Sig. Curiel. Amburgo? mmmm dove sta? Guarda sempre la cartina dell'Europa ma stavolta in alto al centro, prima delle isole, sul mar Baltico. Non la trovo non c'è. Ad Amburgo, nel 1914, nasce Ruth Curiel. Amburgo, non c'è disegnata. Uffa ma quanto sei noiosa. Vabbè adesso cerca Praga. Praga, lì a destra della Germania. Ma non dovevo cercare Amburgo? Perchè Praga? Perchè nel 1939 scoppia la guerra e Ruth da Amburgo fugge a Praga. La Germania si era fatta troppo pericolosa per lei. Ruth è ebrea. Non trovo nessuna di queste città che nomini. Questa storia non mi piace. E questa Ruth che da Odessa ad Amburgo e poi a Praga? Che fa questa Ruth? Dopo un anno Ruth da Praga arriva a Nervi. Finalmente un posto che conosco! E perchè proprio a Nervi? Te l'ho detto c'era la guerra, Nervi era protetta dalla Croce Rossa Internazionale. Questa storia non mi piace, parli solo di guerra e di una piccola ebrea che fugge per l'Europa. Voglio una storia d'amore. Ruth è da sola a Nervi. Sua madre, quella del teatro di Odessa, è rimasta ad Amburgo, il padre combatte in Francia, i suoi fratelli sono dispersi. Mmmm, vabbè allora dov'è l'amore? Aspetta.... Ruth vuole salvare almeno sua madre. Come fa? Con una bugia. Per costringerla a lasciare la Germania e tutto quel che possiede, le manda un telegramma e le dice di essere gravemente malata. E la mamma? Che domande? Ovviamente abbocca. Così arriva anche lei a Nervi. Ma non dovevi raccontarmi una storia d'amore parli solo di guerra voglio ascoltare una storia d'amore. Una cosa alla volta, andiamo con ordine. Ricordati che siamo in un tempo di catastrofe, il mondo stava sospeso tra perdizione e innocenza. Sulla passeggiata di Nervi Ruth incontra un uomo di cui si innamora, un soldato italiano in convalescenza. Il segretario politico del fascio di ALessandria. Finalmente! La storia comincia a piacermi. Che fanno? Si sposano? Il soldato italiano è già sposato... e lei è un'ebrea in fuga. E allora? Te l'ho detto, si innamorano. E' amore. Carlo de Mattei, un militare fascista fa l'amore con un'ebrea russa. Come dono di fidanzamento le regala un sacchetto di..... un sacchetto di diamanti? Ma quanto sei scema! Le regala un sacchetto di caffè che a quei tempi era come un sacchetto di diamanti. E poi? Ruth conserverà tutta la vita un chicco di quel caffè. Finalmente una cosa che mi piace il chicco di Ruth. Carlo deve tornare a combattere, lo spediscono sul fronte balcanico. Ruth non sa se lo rivedrà mai più. Carlo parte per la guerra. E Ruth? Ruth avrà una figlia da [grazie a qualche furbo che ha cancellato non siamo riusciti a decifrare] crescere. 1942. Ricordati c'è sempre la guerra. Sarebbe questa la storia d'amore? Aspetta.... Carlo [di nuovo illeggibile] e torna in Italia ma c'è ancora la guerra. Lo mandano col Battaglione Monterosa fra i monti della Valtellina a coprire la fuga del duce, ormai braccato che tenta di fuggire in Svizzera. Uffa, sono stanca di sentire parlare solo di guerra. Poi una notte Ruth fa un sogno: sogna la mamma di Carlo che le dice di andare a salvare suo figlio. Ruth parte alla volta di Sondrio. Eh? Che fa? Non hai detto che c'è la guerra? Peggio della guerra c'è lo sbando, l'Italia è divisa a metà, i tedeschi in fuga, gli americani alle calcagna. Ruth va dai partigiani , Ruth costringe suo marito ad arrendersi. Gli salva la vita..... E poi? Finalmente si sposano? Macchè stanno nascosti finchè nell'autunno del 1945 riescono ad imbarcarsi per la Palestina... Palestina.... Mmmmm sull'atlante non c'è. Stavolta hai ragione il giorno che lasciano l'Italia si imbarcano a Genova. Sono il Sig. Carlo Curiel nato a Odessa, sua moglie, sua figlia e sua suocera a salpare verso Haifa. Lui cambia nome, ah capisco. Diventa ebreo? In un certo senso anagrafico, si. Ma realmente lo diventerà più avanti. In Palestina c'è la guerra. Carlo Curiel combatte contro gli inglesi poi entra nell'esercito israeliano, nel genio militare costruisce la prima strada tra Be'er Sheva e Eilat. Qui nasce la loro seconda figlia. E poi? Restano in Israele fino al '58 poi tornano in Italia, Carlo è processato in contumacia per i fatti della Valtellina. E quel chicco di caffè? Ruth lo porta sempre con sè, anche quando partono per l'Africa. Vanno in Nigeria, ci restano quasi dieci anni. Ma in Italia non ci vivono mai? Siiii...poi tornano. Africa, Spagna, una puntatina nelle Filippine e alla fine approdano a Genova e da Genova a Tortona. Finalemnte. Posso riporre l'atlante? SI puoi chiuderlo. Siamo arrivati quasi alla fine della storia. Carlo, un uomo che ha combattuto molte guerre e girato mezzo mondo, muore in un incidente domestico, non ci crederai precipita da un albicocco su cui si era arrampicato. E Ruth? Ruth gli sopravvive per sette anni, sette come i pianeti. Poi se ne va anche lei, lo raggiunge. Dormono l'uno accanto all'altra la stella di David e la croce latina, nell'attesa del risveglio, alla fine della fine del tempo, all'inizio della vita vera che ci attende non trova su nessun atlante...
(testi di Rosa Matteucci scritti per strada da Palazzo Ducale fino al Porto Antico di Genova, lungo i vicoli della Città Vecchia)
lunedì 30 aprile 2012
QUELLI CHE...MALINDI
Quelli che sono arrivati a Malindi vent’anni fa in vacanza e non sono ancora ripartiti
Quelli che sono in Kenya da tre giorni ma hanno già capito tutto
Quelli che sanno come trattare con i neri
Quelli che a Malindi devi fidarti solo degli italiani
Quelli che “stai attento agli italiani che sono tutti mezzi delinquenti” e tu di dove sei, scusa?
Quelli che "a me non mi rubano nemmeno uno scellino"
Quelli che ti spiegano la tua Africa senza fartela capire
Quelli che sono venuti in Kenya per cercarsi dentro e non hanno trovato niente
Quelli che in Kenya volevano trovare se stessi e hanno trovato un altro al posto loro
Quelli che a Malindi erano talmente fuori che non ci stavano dentro
Quelli che chiamano "disadattato" chi invece si è integrato
Quelli che una volta qui era tutta savana
Quelli che ci avevano un leone in giardino
Quelli che sono stati morsi da un black mamba e sono ancora vivi (apparentemente)
Quelli che s’incazzano perché non tutti i kenioti capiscono l’italiano
Quelli che licenziano il giardiniere perché dopo due mesi non ha ancora imparato il dialetto bergamasco
Quelli che sono a Malindi perché avevano già inventato nel 1980 la finanza creativa
Quelli che sono venuti a Malindi con la moglie e hanno pensato che era come andare all’Oktoberfest con una Peroni.
Quelli che hanno lasciato la moglie in Italia ma si sono portati in Kenya il rottweiler
Quelle che i maschi sono turisti sessuali, io invece sono una donna emancipata che sposa il maasai
Quelle che mio marito non è un beach boy, è un tour leader
Quelli che lei è davvero diversa
Quelli che era meglio me la trovavo uguale alle altre
Quelli che Malindi è casa mia
Quelli che non evidentemente in Italia non pulivano casa loro
Quelli che non rispettano i padroni di casa
Quelli che alzano la voce e trattano male il personale, solo perché non hanno ancora ricevuto in cambio una scarica di botte
Quelli che il rispetto prima di tutto, ma per secondo viene lo sfruttamento
Quelli che hanno concesso prestiti al proprio personale fino al 2074
Quelli che per fortuna è arrivata la tv italiana
Quelli che senza il generatore non è vita
Quelli che non vanno nei villaggi perché soffrono a vedere la povera gente (meglio rimanere a bordo piscina sorseggiando una caipirinha)
Quelli che ascoltano Tanzini parlare degli alieni
Quelli che ascoltano gli alieni parlare di Tanzini
Quelli che il Karen Blister
Quelli che il Pio Box
Quelli che prendo un tutù
Quelli che faccio un safari nel Max Mara
Quelli che vado a Sardegna 2 e m’immergo in una Jacuzzi
Quelli che parcheggiano al Kiwi per non pagare i 40 scellini al Galana Center
Quelli che vanno a mangiare la verdura semicruda gratis al casinò
Quelli che sono convinti che il casinò metta nel cibo una polverina che li induce a giocare alle slot machine
Quelli che a Malindi ci vuole un ristorante nuovo
Quelli che a Malindi ci vuole un bar nuovo
Quelli che a Malindi ci vuole un locale lounge nuovo
Quelli che a Malindi non hanno nemmeno un vestito nuovo
Quelli che il mio cuoco cucina il miglior red snapper alla griglia della costa
Quelli che licenziano il cuoco perché si è dimenticato lo zafferano nell’aragosta alla catalana
Quelli che a Malindi mancava solo il Billionaire
Quelli che Jabreen Café, Simba Dishes e Chariba
Quelli che si abbronzano per sentirsi come loro
Quelli che si sbronzano per sentirsi come loro
Quelli che finalmente ho trovato quella giusta
Quelli che non hanno mai rifiutato a priori quella sbagliata
Quelli che sono in Kenya perché hanno scelto la fuga
Quelli che sono in Kenya perché hanno scelto la figa
Quelli che non sapevano di essere in Kenya
Quelli che appena scesi a Mombasa volevano risalire sull’aereo perché era pieno di negri
Quelli che a Malindi ci sono troppi italiani, ma anche gli africani non scherzano
Quelli che criticano soltanto gli italiani di cui diventeranno amici
Quelli che criticano tutti gli italiani come se loro fossero neozelandesi
Quelli che non riescono a comperare se prima non disprezzano
Quelli che passeranno le giornate al Nakumatt
Quelli che passano il tempo a inventarsi il business buono
Quelli che lavorano un anno senza permessi e si lamentano perché in Kenya c’è la corruzione
Quelli che arrivano a Malindi in vacanza da inesperti, ci tornano da introdotti, si fermano da imprenditori e
ripartono da inculati.
Quelli che a Malindi non mi vedrete più
Quelli che me ne torno per sempre in Italia
Quelli che a Malindi non si può più lavorare
Quelli che Malindi è diventata troppo cara
Quelli che sono ancora qui a rompere i coglioni
Quelli che nonostante tutto preferiscono Malindi, perché la vera libertà è accettare tutti e cercare di vivere in armonia con chiunque, aiutando quando si può, sopportando quando si deve, godendo quando è lecito e ignorando chi lo merita.
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martedì 6 marzo 2012
VIAGGIO A LAMU, IL PARADISO SENZA TEMPO CHE SCOMPARIRA' CON IL NUOVO PORTO
(Seconda Puntata)
Gurba pulisce con flemmatica fretta africana la sua “speed boat”.
Liquidi marroncini, antenne di crostaceo spezzate, mosche annegate compongono un guazzetto da spazzare via con altra acqua di mare. Una spolverata di detersivo per cancellare l’odore e barca come nuova per accogliere i turisti.
Gurba capitalizza al massimo il suo investimento, un piccolo motoscafo veloce e potente. Fa il doppio lavoro. La mattina va a pesca di aragoste, che rivende a un signorotto arabo che le inscatola insieme a grosse lastre di ghiaccio secco e le infila sui camion diretti a Nairobi e Mombasa.
Le aragoste che l’oligarchia della capitale consuma insieme a costose bottiglie di vino italiano e francese, arrivano tutte da qui. Gurba ci fa accomodare sulla “speed boat” e col favore del tramonto isolano ci porta verso Shela. Farà questa doppia vita ancora per poco o comunque dovrà cambiare abitudini e ridimensionare il suo business: il Viceministro della Pesca ha annunciato il blocco ai pescatori nella zona del nuovo porto.
“E’ la più pescosa in assoluto – spiega Gurba – soprattutto per le aragoste e i granchi. Dove andremo adesso?”. Chi ha una barca, un dhow, un motoscafo, a Lamu da sempre vive di pesca e trasporto, prima ancora che fare il taxi per i mzungu.
“Forse ci sarà altro da trasportare in futuro, ma Lamu non esporterà più nulla. Qualcuno avrà i soldi per comprare, forse”.
Chissà. Magari arriveranno barche più veloci e potenti della sua, per andare a pescare a cento chilometri di distanza e portare gli operai alle raffinerie che costruiranno sull’isola di Faza.
Le raffinerie, già. Anche se le aragoste galoppassero in quella zona, avrebbero tanto carburante in corpo da diventare gustose più o meno come la marmitta di una Nissan.
Si sa che il porto sarà soprattutto il terminale dell’oleodotto che porterà petrolio da Juba, capitale del neo costituito Sud Sudan. Resta da capire come mai debba il greggio debba essere ripulito e adattato proprio a Lamu.
“Ormai ci dobbiamo arrendere all’evidenza che il nuovo porto si farà – spiega l’ex sindaco di Lamu, Abdallah Fadhili, fautore del movimento “Port Stearing Comittee” – dobbiamo cercare semplicemente di ridurre l’impatto ambientale. Le raffinerie, ad esempio: perché non le fanno direttamente in Sud Sudan e mandano qui già il carburante, pronto da essere immesso sulle navi?”
Il Sud Sudan c’è poca acqua e ci sono ancora troppi pochi interessi. Il movimento dei politici di Lamu ha proposto Isiolo, cittadina a nord di Nairobi dove gli interessi ci sono eccome.
Ma il Kenya insiste su Lamu e così sarà.
Venerdì 2 marzo: arrivano i presidenti dei tre Stati coinvolti per inaugurare i lavori che di fatto sono già iniziati. Atterrano con elicotteri militari il keniota Mwai Kibaki, il Sudsudanese Kiir e l’Etiope Zenawi. Sono orgogliosi di lanciare LAPSSET, un progetto da 18 bilioni di euro che comprende, oltre al più grande e moderno porto dell’Africa che si affaccia sull’Oceano Indiano, una ferrovia e ovviamente le raffinerie.
Il chairman di “Save Lamu”, l’associazione ambientalista che ne raggruppa una ventina, un combattivo arabo di una certa età che abbiamo intervistato la settimana prima, è stato arrestato dalla polizia mentre si preparava a manifestare a Magogoni, davanti a politici e giornalisti. Con lui una cinquantina di attivisti. Scandivano slogan contro la costruzione del porto, la mancanza dello studio di fattibilità ambientale e l’oleodotto.
Già, c’è anche l’oleodotto. Uno identico è appena saltato in aria durante un attentato in Sud Sudan. Quello che partirà da Juba e arriverà a Lamu, finirà in mare dalla parte opposta dell’isola, oltre il villaggio elegante di Shela, in cui svetta la villa del rampollo di casa Peugeot, dove Sarko e Carlà piroettavano per far nascere l’ennesimo erede presidenziale, e quella di Carolina di Monaco. Sarà difficile rivedere i tycoon tra qualche anno sciacquarsi nel canalone turchese tra Manda e Shela.
Magari le residenze in stile moresco saranno acquistate da qualche petroliere azero o uzbeko dal nome impronunciabile e dall’inguardabile gusto.
“Del turismo a Lamu non frega più niente a nessuno – commenta un’imprenditrice italiana che vive a Shela da anni – in molti attendono serenamente l’avvento del porto per veder salire il valore dei loro immobili e dei terreni, poterli vendere ai primi commercianti che arrivano ed emigrare altrove”.
Non c’è più spazio per la poesia, per il mal d’isola africana.
“Anche a Manda – prosegue l’imprenditrice – chi ha un terreno non vede l’ora di costruirci qualcosa che potrà rendere economicamente perché funzionale al nuovo tipo di indotto che arriverà”.
Turismo economico, lo chiama l’ex sindaco Fadhili.
Altro che villette e cammei, condomini per ospitare tecnici ed operai, hotel da due notti e una mignotta per i dirigenti d’azienda, magari chissà anche un casinò…Perché non sognare, al posto di Lamu, una piccola Dubai?
Proprio come Dubai, ironia della sorte, Lamu dovrà importare le aragoste dalla Tanzania. Ma avrà i soldi per farlo. Architetti illuminati, chiamati per costruire edifici essenziali allo sviluppo, restaureranno l’antico forte simbolo della città e finalmente, risolveranno la grande piaga dell’isola: le fogne a cielo aperto che scorrono di fianco ad ogni vicolo.
Oppure Lamu diventerà la casbah, l’inaccessibile quartiere povero, dei traffici, della droga, di Sudanesi ed Etiopi trafficoni e verrà costruita una New Lamu poco distante, asettica e splendente su terreni nuovi, con palazzi a vetro e piscine al quindicesimo piano.
Quasi quasi c’è da sperare nella bontà della predizione dei Maya.
lunedì 27 febbraio 2012
VIAGGIO A LAMU, IL PARADISO SENZA TEMPO CHE SCOMPARIRA' CON IL NUOVO PORTO
L’arma più pericolosa rintracciabile sulla terra, quella più subdola, violenta, silente e inesorabile, è senza dubbio la mano dell’uomo.
E’ l’unica capace di cancellare in pochissimo tempo millenni di storia, di usi e costumi, di pace e dominio della Natura, di abitudini ancestrali che forgiano caratteri, che penetrano addirittura nel cuore e nell’anima di intere generazioni.
L’unica che uccide e distrugge mentre stringe una sua simile, mentre firma un pezzo di carta, mentre volteggia in aria per disegnare parole misurate, bonarie, apparentemente sagge.
Così la mano dell’uomo seppellirà anche l’arcipelago di Lamu.
Lo visitarono i cinesi, prima dell’anno mille, lo rispettarono gli indonesiani che insegnarono ai pescatori a costruire i trimarani e i dhow. Non lo stravolsero né gli arabi, né gli indiani. Non le dispute tra sultani, né i portoghesi. Non lo convertirono i tedeschi e non lo colonizzarono gli inglesi.
L’indipendenza del Kenya, a Lamu, fu un fatto marginale. Era come tornare in possesso di un albergo di cui in realtà si aveva sempre avuto la gestione.
Quel che non hanno fatto popoli guerrieri o conquistatori, scaltri mercanti e schiavisti, missionari o esploratori, riusciranno a compierlo i politici del terzo millennio.
Quelli cresciuti nella cieca e sorda adorazione del dio denaro e con le spalle coperte dalle multinazionali, quelli che dietro la parola “democrazia”, sviluppano, in maniera avida e cialtrona, la solita oligarchia che in Africa vuol dire tenere un popolo sotto la soglia della povertà, calibrando il pane quotidiano d’ignoranza e malattie e un po’ d’oppio di progresso.
Lamu spesso viene definita la “Venezia islamica dell’Oceano Indiano”, il “Paradiso arabo in Kenya”.
Ha il fascino delle cose immutate, del salto indietro nel tempo. Il fascino che nessun racconto e nessun film potrà tenere vivo, perché nei film non si accarezzano gli asini che se ne vanno liberi per i vicoli, non si dribblano le loro cacche che sono un secondo pavimento, non si viene salutati continuamente da vecchi e bambini, non si gira di notte per una casbah buia e stretta senza il minimo sentore di pericolo, non ci si abitua ai miasmi delle fogne a cielo aperto, non si rischia il gusto inimitabile di una samosa nei chioschi per strada.
Nei film però ci si perde nel sogno da mille e una notte dell’elegante quartiere di Shela, tra guest house da sceicchi e la villa di Carolina di Monaco, viottoli dal fondo levigato come toilette e un ordine in giro che avrebbe stupito persino quel precisetti di Maometto. Nel film c’è il deserto di Manda Beach, che fino a qualche mese fa era la spiaggia dei vip, tra resort a cinque stelle e ville senza nemmeno un’inferriata. Prima che una banda di pirati neanche troppo addestrati si portasse via una residente francese malata terminale a cui nella vita mancava solo di morire da eroina e per giunta senza morfina.
Ma non è la pirateria ad uccidere Lamu, che vive di pesca, d’esportazione di crostacei, del suo ecosistema, di viaggiatori e villeggianti vip e della cultura islamica.
Saranno le mani che hanno firmato gli accordi per la costruzione del nuovo porto ad annientare mille anni di storia, a cancellare la parola turismo dal bagnasciuga e dalla barriera corallina, a scrivere freddi numeri con l’inchiostro ricavato dalle raffinerie di greggio, a trasformare i dhow in petroliere?
LAPSET.
Così si chiamerà il porto. Significa “Lamu Port Sud Sudan Ethiopia”. Sarà lo sfogo sul mare di due stati i cui governanti si apprestano a diventare ricchi, affamati e potenti come i loro alleati.
LAPSET, sembra un rossetto, un semplice makeup per un Paese che si specchia nell’egoismo internazionale sventolando il suo Pil in crescita e altre cazzate simili. La verità è che c’è dietro la costruzione di un oleodotto che collegherà il nuovo stato staccatosi dal Sudan del dittatore Bashir, pieno di petrolio, con il mare e che permetterà anche all’Etiopia di non dover pagare fior di tasse all’hub di Port Sudan. Ecco perché Francia e Stati Uniti appoggiano la guerra contro le frange estremiste arabe di Al Shabaab in Somalia, ecco perché per la prima volta tutti i politici somali in esilio si trovano d’accordo con quest’azione contro quel che resta del loro paese. Ecco perché c’è bisogno della pace.
Il petrolio tira ancora parecchio, più della vendita di armi. L’accordo per il porto è già stato firmato, a Juba dai tre ministri dello sviluppo. Sorgerà nella zona est di Lamu, dietro l’attuale porto d’attracco per chi arriva dalla terraferma e viene trasportato sulle isole. I lavori sono già cominciati, le acquisizioni di terreni di chi vive lì da secoli, anche.
Venerdì prossimo, 2 marzo, i Presidenti dei tre stati e i Ministri saranno a Lamu per il via ufficiale ai lavori.
Cosa si può fare allo stato attuale per salvare il salvabile dell’arcipelago, paradiso protetto (per quel che conta) dall’Unesco?
Malindiikenya.net è andata a Lamu per parlare con la gente, le associazioni, i politici, gli imprenditori, gli ambientalisti, per cercare di capire.
(fine prima puntata)
venerdì 3 febbraio 2012
SULLE STRADE DEI BRACCONIERI: TERZA PUNTATA
IL TIR DI SAPONARIA E IL CORRIDOIO PER MOMBASA
Lo chiamano il corridoio.
Ma non è quello con le mattonelle a rombi di una vecchia casa, nobile o di ringhiera che sia, con la padrona anziana che lo asfalta avanti e indietro con le pattine ai piedi.
Questo è un corridoio di polvere e petrolio, di carichi pesanti e pericoli da sorpassare.
E’ la Nairobi-Mombasa. Forse solo il Brennero nei giorni feriali vede transitare così tanti camion. Nel corridoio c’è tutto il Kenya da esportazione su gomma, buona parte dell’Uganda, un po’ di Etiopia e c’è anche la Tanzania lacustre.
Tutti verso l’atrio prima dell’uscio.
Il grande porto d’Africa aspetta. I container ammassati sulla riva del creek hanno assorbito la calma ancestrale del continente. Arrivano a frotte i pachidermi di lamiera e scaricano il proprio ingombrante peso davanti alle gru, enormi giraffe sonnecchianti.
Un cimitero degli elefanti, ironia della sorte.
A Kisii il lavoro è stato completato. Il sovrintendente cinese aveva precedentemente acquistato forniture di pietra saponaria da riempire le toilettes di mezza Shangai.
E’ in mezzo a quell’orgia di porta saponette, cofanetti e soprammobili che si nascondono le zanne in tranci. Nessun controllo serio nel corridoio. Bolla d’accompagnamento, assicurazione, gomme semilisce e via, a sollevare polvere sulla polvere, ad imbiancare le acacie e i maasai che attendono un matatu o qualche altra sventura che se li porti via.
Il corridoio è una manna, un’opportunità, una galera invisibile in cui l’ora d’aria prende la giornata, la percorre e la riempie di piccole occasioni per sopravvivere.
Il tir di saponaria si confonde con altri mille e taglia il corridoio tra sorpassi e frenate, posti di blocco e borghi da far west africano.
Un motel-macelleria, un bar di legno e lamiera, una pompa di benzina. Potrebbe essere new Mexico, se non spuntassero fuori i maasai come qualcosa che non c’entra niente, come in un film di David Lynch.
Il tir scavalca Mtito Andei, poi il crocevia di Voi. Per qualche chilometro magari avrà al suo fianco un collega tanzaniano che arriva da Taveta lungo una strada cattiva e accidentata come il governo in Congo e ha nascosto le zanne in mezzo al tek e a pietre strane.
Sollevano polvere a Mariakani, a Mazeras e riposano gli arti nel traffico d’ingresso a Mombasa, dove il corridoio si restringe fino a sembrare un vicolo cieco, un angiporto.
Il grande atrio di Mombasa.
Sembra quasi uno scherzo del destino che il simbolo della città siano le due grandi zanne incrociate di Moi Avenue. Tusk City, la chiamano. La città delle zanne. Dovrebbero cambiare il nome in Elephant Cemetry, forse.
E’ una piazza d’armi, un territorio da saccheggio pure il Kenya attuale. Quanti di questi traffici, quanto di questo traffico, d’inquinamento che fa arrendere la savana alle porte della città, dipende dal Paese.
Quanta di questa polvere è sollevata per l’Asia e l’Occidente e quanto rimarrà nelle mani di pochi kenioti.
Da nord arriva tè, caffè, ananas e orchidee surgelate. Nella confusione generale cosa vuoi che sia un tir di pietra saponaria.
Soltanto quattrocento elefanti in meno nello Tsavo.
Soltanto quattrocento elefanti morti.
Qualche mese fa un carico sospetto è stato controllato come si deve. Hanno trovato 465 zanne.
Qualcuna, con una spavalderia che fa riflettere sul coinvolgimento di tanti, non era stata nemmeno segata.
Bella, fiera e senza tempo era pronta per salpare alla volta di Singapore. (fine terza puntata)
domenica 29 gennaio 2012
SULLE STRADE DEI BRACCONIERI: SECONDA PUNTATA
LA GRANDE MADRE SAVANA E LE ZANNE DI KISII
La savana è la materia.
E’ ciò di cui siamo fatti tutti e da cui tutti proveniamo.
Non sono solo i mesozoici elefanti e le grottesche giraffe a ricordarcelo.
Ce lo dicono le improvvise colline che sono frammenti della Rift Valley, le acacie ad ombrello disseminate come funghi antidiluviani, gli enormi massi scolpiti da centomila anni di vento.
Ce lo insegnano la disperata corsa della gazzella per sfuggire ai felini, la grottesca lotta di corna tra l’orice e l’antilope d’acqua per spartirsi una buona zona d’erba, l’incazzatura collettiva dei bufali, la marmorea attesa dello sciacallo, la vita a strisce delle zebre e quella a stelle del marabù.
La savana ora è ai nostri piedi e assorbe un cielo insolito, appannato.
Un cielo molto poco africano.
Pascal, il ranger, ci spiega che la guardia scelta a cui i bracconieri hanno sparato la sera prima, sta lottando a Nairobi tra la vita e la morte.
Saliamo sul Poachers Lookout, il colle d’avvistamento dello Tsavo Ovest.
Abbiamo dribblato le pietre laviche delle Chyulu Hills, le piste sabbiose che portano alle sorgenti di Mzima Springs, dove l’ippopotamo regna assonnato e la fitta foresta è nascondiglio naturale.
I bastardi conoscono la materia e la loro provenienza.
Hanno tagliato più volte la testa alla grande madre Savana.
L’hanno stuprata e la stanno rendendo sterile.
E’ una storia antica come quella della terra, l’estenuante ripetersi dei soprusi e della vigliaccheria.
Lo Tsavo West in pochi anni è stato svuotato di elefanti e in genere di tutti gli animali.
Paesaggi mutevoli e misteriosi, desertici e lunari, duri, montani o boschivi. Pochissimi esemplari, però.
Da qui i contrabbandieri d’avorio risalgono le verdi colline d’Africa, s’inoltrano nel maasai mara e proseguono per Kisii.
Sono le lande della pietra saponaria, quella sorta di alabastro duro con cui si fanno animaletti, portaoggetti ed altre diavolerie inutili che i cinesi preferiscono in avorio.
Così i bracconieri hanno ceduto il passo ai trafficanti.
Finanziati da uomini d’affari asiatici, arrivano con pesanti automezzi a Kisii e preparano i carichi che finiranno al porto di Mombasa.
Con grosse seghe circolari fanno a pezzi le lunghe zanne, poi mescolano elefanti di saponaria con i preziosi resti di quelli che hanno ucciso.
Un’orrenda mescolanza di reale e irreale, un teatro dell’assurdo e dell’inutile da esportazione.
Tutto nei container che, caricati su grossi tir, riprendono a macinare chilometri nella direzione opposta.
(fine seconda puntata)
lunedì 23 gennaio 2012
SULLE STRADE DEI BRACCONIERI: PRIMA PUNTATA
VOI, L'INSOSPETTABILE CROCEVIA DELL'AVORIO
Non diresti che è un crocevia del contrabbando. Voi è adagiata tra colline solitarie ed improvvise rocche, con i piedi in savana e le ginocchia sulla Mombasa-Nairobi, la statale dei camion. Se fosse una donna, potrebbe avere i tratti somatici di quelle sudamericane d’altura, un po’ contadina india un po’ stregona maya, ma non abbastanza guerriera da creare scompiglio e libertà.
Sempre battuta dai venti e dal passaggio degli eventi, tiene i colori dell’Africa all’interno di un composto mercatino scosceso, dove tutto è accomodato e accomodante.
Persino il capolinea dei matatu non è chiassoso come in ogni altro borgo di queste parti.
Basta passare da Mariakani o da Mtito Andei, per accorgersi della differenza.
Per non distrurbarti, qui la gente quasi non ti sorride nemmeno.
Il mzungu è cosa rara, è un alieno che non scende mai sulla terra.
Lo si vede sfrecciare sulle astronavi da safari, intabarrato in completi color cachi e seminascosto da cappelli a larghe tese e occhiali da sole.
A lui non interessa la vita di Voi, la gente che vive in salita e discesa, che beve kenya coffee al Gloria Cafè. Al mzungu da sempre importa degli animali, vuole vedere il leone, l’elefante.
Un tempo li cacciava e ne esibiva fiero i corpi morti. Oggi li protegge e, anzi, sembra dare la caccia a chi vorrebbe portarsi via la pelle del re della savana o le preziose zanne del pachiderma.
Strani questi bianchi.
Allora ti guardi intorno e cerchi l’occhiata complice di chi non ha mai cambiato idea.
L’animale può essere pericolo o fonte di sopravvivenza. A volte anche entrambe le cose.
Cerchi nelle pieghe della cittadina il senso di questo pericolo, la stretta esigenza di sopravvivere.
E’ nascosta, coperta come in questi giorni il grande cielo africano di queste parti. Velato di una tristezza in più, che offusca la luminosa ineluttabilità della storia del Continente Nero. I bracconieri hanno ucciso un aiutante del parco dello Tsavo Est e ferito gravemente una delle guardie scelte del Kenya Wildlife Service. “Sono qui, sono nascosti tra noi – assicura Dominic Wambua, Senior Warden di Tsavo Est – si spostano, vanno e vengono. Impossibile dargli la caccia in maniera costante. Il nostro nucleo investigativo lavora in collaborazione con la polizia di Voi, ma quando ne avvertiamo la presenza all’interno del parco, tocca a noi rischiare la pelle, lo scontro a fuoco”.
Gli uomini di Wambua sono stati addestrati per riconoscere il mal di denti della giraffa, per prevedere il crollo di un ponticello e preparare il guado alternativo.
Vivono nella natura e della natura selvaggia prendono le difese. Ma all’occorrenza imbracciano il fucile per difendere loro stessi e il parco dalla bestia più pericolosa di tutte. L’uomo.
“Si spostano nella notte, lasciano grosse automobili ad attenderli fuori dallo Tsavo e partono con la caccia all’elefante – spiega il boss Wambua - Sono in tanti, devono agire in fretta, prima dell’alba.
Devono trasportare zanne pesanti di là dalla riserva e caricarle sugli automezzi. Sono quasi tutti somali, o Pokoth.
Facile pensare dove si procurino le armi.
Sono quasi tutti al soldo degli asiatici che sbarcano a Nairobi in cerca d’avorio”. Se poi pensi a quel che ne faranno, oggettistica preziosa kitsch per le loro ville, ti viene ancor più il voltastomaco. Nell’ufficio di Wambua, un palazzotto rivestito di Galana in mezzo al niente dell’Africa, si respira preoccupazione ma anche abitudine a battaglie quotidiane per conservare uno dei grandi patrimoni di questo Paese. Anche per il bene del turismo. “Ci tengo a precisare – dice ancora Wambua – che per i turisti che arrivano allo Tsavo Est, non c’è alcun pericolo.
I bracconieri non hanno alcun interesse a farsi vedere o ad attaccare le persone.
Si muovono a piedi e mai di giorno, evitano le vicinanze dei campi tendati o dei lodge perché sanno che sono sorvegliati. I vostri connazionali ogni anno premiano in massa il nostro lavoro e sono sempre i benvenuti”.
Magari, se lanciassero qualche bottiglietta di plastica o fazzoletto usato in meno sotto le acacie o sulle sponde del Galana river, sarebbe meglio…
(fine prima puntata -foto di Leni Frau)
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