lunedì 27 febbraio 2012

VIAGGIO A LAMU, IL PARADISO SENZA TEMPO CHE SCOMPARIRA' CON IL NUOVO PORTO


L’arma più pericolosa rintracciabile sulla terra, quella più subdola, violenta, silente e inesorabile, è senza dubbio la mano dell’uomo.
E’ l’unica capace di cancellare in pochissimo tempo millenni di storia, di usi e costumi, di pace e dominio della Natura, di abitudini ancestrali che forgiano caratteri, che penetrano addirittura nel cuore e nell’anima di intere generazioni.
L’unica che uccide e distrugge mentre stringe una sua simile, mentre firma un pezzo di carta, mentre volteggia in aria per disegnare parole misurate, bonarie, apparentemente sagge.
Così la mano dell’uomo seppellirà anche l’arcipelago di Lamu.
Lo visitarono i cinesi, prima dell’anno mille, lo rispettarono gli indonesiani che insegnarono ai pescatori a costruire i trimarani e i dhow. Non lo stravolsero né gli arabi, né gli indiani. Non le dispute tra sultani, né i portoghesi. Non lo convertirono i tedeschi e non lo colonizzarono gli inglesi.
L’indipendenza del Kenya, a Lamu, fu un fatto marginale. Era come tornare in possesso di un albergo di cui in realtà si aveva sempre avuto la gestione.
Quel che non hanno fatto popoli guerrieri o conquistatori, scaltri mercanti e schiavisti, missionari o esploratori, riusciranno a compierlo i politici del terzo millennio.
Quelli cresciuti nella cieca e sorda adorazione del dio denaro e con le spalle coperte dalle multinazionali, quelli che dietro la parola “democrazia”, sviluppano, in maniera avida e cialtrona, la solita oligarchia che in Africa vuol dire tenere un popolo sotto la soglia della povertà, calibrando il pane quotidiano d’ignoranza e malattie e un po’ d’oppio di progresso.
Lamu spesso viene definita la “Venezia islamica dell’Oceano Indiano”, il “Paradiso arabo in Kenya”.
Ha il fascino delle cose immutate, del salto indietro nel tempo. Il fascino che nessun racconto e nessun film potrà tenere vivo, perché nei film non si accarezzano gli asini che se ne vanno liberi per i vicoli, non si dribblano le loro cacche che sono un secondo pavimento, non si viene salutati continuamente da vecchi e bambini, non si gira di notte per una casbah buia e stretta senza il minimo sentore di pericolo, non ci si abitua ai miasmi delle fogne a cielo aperto, non si rischia il gusto inimitabile di una samosa nei chioschi per strada.
Nei film però ci si perde nel sogno da mille e una notte dell’elegante quartiere di Shela, tra guest house da sceicchi e la villa di Carolina di Monaco, viottoli dal fondo levigato come toilette e un ordine in giro che avrebbe stupito persino quel precisetti di Maometto. Nel film c’è il deserto di Manda Beach, che fino a qualche mese fa era la spiaggia dei vip, tra resort a cinque stelle e ville senza nemmeno un’inferriata. Prima che una banda di pirati neanche troppo addestrati si portasse via una residente francese malata terminale a cui nella vita mancava solo di morire da eroina e per giunta senza morfina.
Ma non è la pirateria ad uccidere Lamu, che vive di pesca, d’esportazione di crostacei, del suo ecosistema, di viaggiatori e villeggianti vip e della cultura islamica.
Saranno le mani che hanno firmato gli accordi per la costruzione del nuovo porto ad annientare mille anni di storia, a cancellare la parola turismo dal bagnasciuga e dalla barriera corallina, a scrivere freddi numeri con l’inchiostro ricavato dalle raffinerie di greggio, a trasformare i dhow in petroliere?
LAPSET.
Così si chiamerà il porto. Significa “Lamu Port Sud Sudan Ethiopia”. Sarà lo sfogo sul mare di due stati i cui governanti si apprestano a diventare ricchi, affamati e potenti come i loro alleati.
LAPSET, sembra un rossetto, un semplice makeup per un Paese che si specchia nell’egoismo internazionale sventolando il suo Pil in crescita e altre cazzate simili. La verità è che c’è dietro la costruzione di un oleodotto che collegherà il nuovo stato staccatosi dal Sudan del dittatore Bashir, pieno di petrolio, con il mare e che permetterà anche all’Etiopia di non dover pagare fior di tasse all’hub di Port Sudan. Ecco perché Francia e Stati Uniti appoggiano la guerra contro le frange estremiste arabe di Al Shabaab in Somalia, ecco perché per la prima volta tutti i politici somali in esilio si trovano d’accordo con quest’azione contro quel che resta del loro paese. Ecco perché c’è bisogno della pace.
Il petrolio tira ancora parecchio, più della vendita di armi. L’accordo per il porto è già stato firmato, a Juba dai tre ministri dello sviluppo. Sorgerà nella zona est di Lamu, dietro l’attuale porto d’attracco per chi arriva dalla terraferma e viene trasportato sulle isole. I lavori sono già cominciati, le acquisizioni di terreni di chi vive lì da secoli, anche.
Venerdì prossimo, 2 marzo, i Presidenti dei tre stati e i Ministri saranno a Lamu per il via ufficiale ai lavori.
Cosa si può fare allo stato attuale per salvare il salvabile dell’arcipelago, paradiso protetto (per quel che conta) dall’Unesco?
Malindiikenya.net è andata a Lamu per parlare con la gente, le associazioni, i politici, gli imprenditori, gli ambientalisti, per cercare di capire.
(fine prima puntata)

venerdì 3 febbraio 2012

SULLE STRADE DEI BRACCONIERI: TERZA PUNTATA


IL TIR DI SAPONARIA E IL CORRIDOIO PER MOMBASA
Lo chiamano il corridoio.
Ma non è quello con le mattonelle a rombi di una vecchia casa, nobile o di ringhiera che sia, con la padrona anziana che lo asfalta avanti e indietro con le pattine ai piedi.
Questo è un corridoio di polvere e petrolio, di carichi pesanti e pericoli da sorpassare.
E’ la Nairobi-Mombasa. Forse solo il Brennero nei giorni feriali vede transitare così tanti camion. Nel corridoio c’è tutto il Kenya da esportazione su gomma, buona parte dell’Uganda, un po’ di Etiopia e c’è anche la Tanzania lacustre.
Tutti verso l’atrio prima dell’uscio.
Il grande porto d’Africa aspetta. I container ammassati sulla riva del creek hanno assorbito la calma ancestrale del continente. Arrivano a frotte i pachidermi di lamiera e scaricano il proprio ingombrante peso davanti alle gru, enormi giraffe sonnecchianti.
Un cimitero degli elefanti, ironia della sorte.
A Kisii il lavoro è stato completato. Il sovrintendente cinese aveva precedentemente acquistato forniture di pietra saponaria da riempire le toilettes di mezza Shangai.
E’ in mezzo a quell’orgia di porta saponette, cofanetti e soprammobili che si nascondono le zanne in tranci. Nessun controllo serio nel corridoio. Bolla d’accompagnamento, assicurazione, gomme semilisce e via, a sollevare polvere sulla polvere, ad imbiancare le acacie e i maasai che attendono un matatu o qualche altra sventura che se li porti via.
Il corridoio è una manna, un’opportunità, una galera invisibile in cui l’ora d’aria prende la giornata, la percorre e la riempie di piccole occasioni per sopravvivere.
Il tir di saponaria si confonde con altri mille e taglia il corridoio tra sorpassi e frenate, posti di blocco e borghi da far west africano.
Un motel-macelleria, un bar di legno e lamiera, una pompa di benzina. Potrebbe essere new Mexico, se non spuntassero fuori i maasai come qualcosa che non c’entra niente, come in un film di David Lynch.
Il tir scavalca Mtito Andei, poi il crocevia di Voi. Per qualche chilometro magari avrà al suo fianco un collega tanzaniano che arriva da Taveta lungo una strada cattiva e accidentata come il governo in Congo e ha nascosto le zanne in mezzo al tek e a pietre strane.
Sollevano polvere a Mariakani, a Mazeras e riposano gli arti nel traffico d’ingresso a Mombasa, dove il corridoio si restringe fino a sembrare un vicolo cieco, un angiporto.
Il grande atrio di Mombasa.
Sembra quasi uno scherzo del destino che il simbolo della città siano le due grandi zanne incrociate di Moi Avenue. Tusk City, la chiamano. La città delle zanne. Dovrebbero cambiare il nome in Elephant Cemetry, forse.
E’ una piazza d’armi, un territorio da saccheggio pure il Kenya attuale. Quanti di questi traffici, quanto di questo traffico, d’inquinamento che fa arrendere la savana alle porte della città, dipende dal Paese.
Quanta di questa polvere è sollevata per l’Asia e l’Occidente e quanto rimarrà nelle mani di pochi kenioti.
Da nord arriva tè, caffè, ananas e orchidee surgelate. Nella confusione generale cosa vuoi che sia un tir di pietra saponaria.
Soltanto quattrocento elefanti in meno nello Tsavo.
Soltanto quattrocento elefanti morti.
Qualche mese fa un carico sospetto è stato controllato come si deve. Hanno trovato 465 zanne.
Qualcuna, con una spavalderia che fa riflettere sul coinvolgimento di tanti, non era stata nemmeno segata.
Bella, fiera e senza tempo era pronta per salpare alla volta di Singapore. (fine terza puntata)