martedì 31 luglio 2012

FREDDIE IN CAMMINO CON I MIJIKENDA (terza puntata)

Dall’altopiano di Jaribuni si dominano le due grandi vallate dell’entroterra di Kilifi. Quella verde di foreste e colline che ci siamo lasciati alle spalle parlava di villaggi sommersi tra cespugli e rocce preistoriche, di gente antica che ha conosciuto la civiltà con l’avvento delle motorette cinesi e di scuole piazzate in bilico su cocuzzoli d’argilla. L’altra è la spianata che porta a Bamba e il paesaggio diventa più brullo. Qui la terra rossa sta vincendo la millenaria guerra con la verde boscaglia. Odore di legna bruciata si confonde a campi di mais saccheggiati. Quel poco che cresce si mangia in fretta e l’acqua scarseggia mano a mano che ci si addentra. Jaribuni sta nel mezzo, con le sue baracche di ferramenta che espongono sacchi di cemento come oggetti del desiderio e vendono i chiodi anche singolarmente. Da qui si dominano le due vallate e verso la costa si vede l’insenatura ricoperta di mangrovie. E’ il creek di Kilifi, da cui partono rigagnoli di acqua salmastra che aiutano i contadini del fondo valle. Dalla rena arrivano le angurie e poco distante c’è anche qualche vecchio britannico che si è insediato con una farm e coltiva piante da frutto lungo binari di fango carrabili che costeggiano pascoli di vacche, coltivazioni di anacardi e infine rimessaggi di barche, poco prima di Mnarani. Torniamo a Tzitzoni. I camminatori si sono alzati tardi dalle stuoie stese all’ingresso della scuola elementare. Una veloce colazione prima che arrivino gli alunni e scoprano con sorridente sorpresa lo sparuto esercito di nonni e zii vestiti in costume. Il percorso da Tzitzoni a Jaribuni è breve, così decido di percorrerne un tratto con loro. E’ festa di canti e balli, parole che ancora non conosco ma che hanno il suono di cose vere e giuste, di mantra trasmessi per secoli e ormai compresi anche dalle piante ai lati della strada polverosa. Ci scansiamo quando i camion la tagliano veloci e sconnessi, con carichi stivati in altezza che li fanno pendere pericolosamente verso di noi. Ci fermiamo davanti a un tugurio in cemento e fango. Ospita il consiglio degli anziani della kaya dei Kauma. Il tesoriere sembra avere il volto scolpito in una di quelle rocce nere incontrate a Jibana. Poi c’è una mama avvolta in un vestito molto colorato e un giovane che non si stacca un secondo dal suo cellulare. Vive i Mijikenda come una missione, uno dei pochi giovani incontrati fino ad ora. A Jaribuni, lo scopriremo pochi minuti dopo, c’è una forte componente separatista nei giovani. Sono simpatizzanti del MRC, il movimento che vorrebbe la “devolution” dal Kenya e che ha provato a farsi partito politico prima delle elezioni del 2013, per poi invece chiedere ai propri possibili elettori, di non votare. Come sempre, nella piazza del villaggio, ci mettiamo in cerchio e intoniamo (io scimmiotto, perlopiù) i canti tradizionali. Ballare è già più semplice, basta muovere i piedi seguendo i loro passi, che sono quattro: tre avanti e uno indietro. Quando lo faccio, battendo il “due” e il “quattro” con forza per terra come fanno loro, la gente che si sta assiepando intorno, si mette a ridere. Quando poi l’avvocato Mwarandu mi presenta come “giriama bianco” Mbogo Kimera, per un attimo l’ilarità supera il rispetto per le tradizioni. Bisogna riportare tutto al giusto equilibrio tra cultura e divertimento. Ci pensa Mwarandu, intavolando un discorso sulla difesa dei valori Mijikenda che suona anche un po’ politico, anche se molto rispettoso del governo keniota. L’avvocato non è affatto inconsapevole, sa bene che tra la gente di Jaribuni si annidano quelli del MRC. Infatti non tarda la domanda di un giovane, che è una professione di militanza.Mwarandu non ci casca e, nel ribadire la vocazione apolitica dei Madca, ricorda che quello Mijikenda è un processo di pace, perché questa è da sempre la strada del suo popolo e che con il Governo bisogna cercare il confronto, perché una battaglia contro Nairobi sarebbe impossibile per chiunque. I bambini ascoltano, si annoiano, cercano lo sguardo della fotografa che li blandisce con scatti tutti per loro. Sono pochi gli abitanti di Jaribuni che seguono la comitiva verso la kaya. Ci sarebbe il tempo di presentarsi ai mille e cento alunni di una scuola elementare, ma uno dei maestri tratta John a pesci in faccia. “Siete stregoni” è il refrain purtroppo già sentito. Ma il fatto che a pronunciarlo sia un insegnante e non l’uomo della strada, è ancora più grave. John chiede di parlare con il preside, che dopo mezz’ora è pronto a dare ragione ai camminatori Mijikenda, ma lo fa quando ormai i ragazzi sono rientrati in classe, per il ghigno soddisfatto del maestro ignorante. Anche senza i ragazzi, fuori dalla scuola partono canti e balli, tutti sotto un grande albero a ballare scambiandosi segni di pace e divorando una cassa di arance succose che ho trovato in un baracchino poco distante. La comitiva ora scende per un viottolo tortuoso che costeggia il creek e dovrebbe sbucare a Majajani. Noi ci avviamo in macchina e li attendiamo. Sbucheranno tre ore dopo, provati per il percorso scosceso e accidentato. Il mzee più rappresentativo di Majajani è un personaggio da film. Ha gli occhi di Fernandel e la mimica da guitto. Serafico come un mbambakofi secolare, parla con John che traduce tutto. Si rivolge a me, parlando per metafore. Mi vede vestito come un Mijikenda e mi chiede se ho le scarpe giuste per camminare con loro. “L’importante è avere lo stesso passo – rispondo – le scarpe contano poco”. Sembra soddisfatto della risposta. I camminatori arrivano alla spicciolata, sono stanchi e qualcuno ha preso storte o è scivolato sul fango dei sentieri. Balliamo in fretta, poi ci avviamo verso Kilifi con a bordo la giovane Furaha. La ragazza mi ha colpito perché, oltre ad essere formosa e piena di verve, si disimpegna come una ballerina da discoteca malindina, più che come una traditional dancer. “Mi ha mandato qui mia sorella Jumwa – spiega con candore Furaha – lei non può essere con voi perché da poche settimane ha dato alla luce una bambina. Così mi ha chiesto di sostituirla”. Jumwa è una delle migliori danzatrici tradizionali, ci mette l’anima e, pur non essendo una bellezza, sprigiona una grande carica sensuale. Furaha è molto meno passionale. Sarà anche l’età. “Mi ha insegnato tutto mia sorella – ammette – è la prima volta che ho a che fare con i Madca”. Poi aggiunge che l’anno scorso è stata eletta principessa Giriama, “Miss Hando”. Ne parla orgogliosa quasi come fosse una starletta da televisione italica. Le adolescenti carine hanno sogni identici in tutto il mondo, semmai è strano vedere Furaha scarpinare (controvoglia). Aspettiamo un passaggio per lei a Kilifi, al vecchio attracco dei ferry, sotto il grande ponte, che necessiterebbe di manutenzione. Gli altri, esausti, stanno affrontando la strada per Kilifi a due all’ora. C’è chi si ferma per riposare ogni venti minuti, il gruppo si sfilaccia per poi ricompattarsi quando il buio s’inghiotte l’entroterra. Ci trasferiamo a Mtondia, pochi chilometri oltre Kilifi, in direzione Malindi. Qui, in mezzo a due imponenti baobab, come streghe buone medievali, tra sbuffi di polenta e profumi di stufato, Mama Dahabu e Mama Kapucheche stanno preparando sima con carne e mchicha per la truppa. Ma sono le nove e non si vede ancora nessuno. Mi chiama John Mitsanze. Sei dei nostri eroi sono stati ricoverati in ospedale a Kilifi. Temiamo il peggio, lasciamo le cuoche nell’antro magico tra i due enormi baobab e ci precipitiamo alla clinica. Qui, manco a dirlo, li troviamo sorridenti, seppur mogi mogi. Dissenteria, è la diagnosi comune a tutti. C’è Mzee Charo, che con il suo cappello da farmer ben calcato e la sciarpina rossa, non ha smesso di ballare da Mazeras a Majajani, ci sono due mama che chiedono acqua e riposo, gli elementi essenziali per rinascere. In questa parte di mondo si può rinascere ogni giorno, certi di non perdere il patrimonio accumulato nella vita precedente. Perché molto spesso non si ha nulla da perdere. Basta chiedere di ritrovarsi nello stesso punto ed ecco che un giaciglio, un vestito, una razione di sima…non mancheranno. Paghiamo il conto della clinica, John mi mostra i referti medici. C’è anche un sospetto caso di salmonella. “Lavatevi sempre bene le mani” si raccomanda, una volta tornati sotto i baobab. Acqua, riposo. Domani è un’altra vita, un’altra festa. Sono altri trenta chilometri di storia. (fine terza puntata)

venerdì 27 luglio 2012

FREDDIE, IL "MIJIKENDA BIANCO" IN CAMMINO (seconda puntata)

Gli anziani mijikenda sono alberi. Da settanta, ottant’anni vivono in simbiosi con la Natura. Lo stesso identico ambiente che li ha visti nascere, familiarizzare con erbe, piante e sterpaglie. Li ha riempiti di terra e polvere e poi lavati con acqua argillosa. Li ha nutriti con acqua di cocco e frutta caduta dagli alberi, con il mais pestato del campo di casa e gli spinaci dell’orto. Li ha accuditi nelle case tirate su dal fango della radura e coperti dalle foglie secche del palmeto. Ad ogni stagione sono stati arsi più volte dal sole ed inumiditi dalla rugiada, seccati dal vento e infradiciati dagli acquazzoni. Per questo ancora adesso dormono all’aria aperta, con una stuoia come materasso e un turbante di stracci come cuscino. Non è stato un sonno regolare, il loro. Avevano scelto uno dei luoghi sacri per eccellenza della loro cultura, e si sono ritrovati in un campo di mais. Noi preferiamo una minitenda da trekking da una ventina di euro. Ci svegliamo con le ossa rotte ma siamo stati protetti dal freddo e dall’umidità di una notte d’inverno equatoriale a Kaloleni. L’albero sacro di Mepoho, con la luce del mattino, trasforma i raggi del primo timido sole in fasci di luce irregolari che rendono ancor più palese la situazione che ieri sera ha fatto sobbalzare gli “elders”. Siamo nel bel mezzo di un terreno coltivato a grano. In ogni altra parte del mondo si griderebbe allo scandalo. Questo è allo stesso tempo un sito storico, culturale e religioso. Un po’ come il Taj Mahal in India o il Pantheon a Roma…certo, stiamo parlando di una piccola cultura, di un’etnia africana di due milioni di persone, ma anche nella stessa costa keniota, hanno reso museo le rovine di Gede, cittadina araba senza una storia particolare, se non quella commerciale. Mentre il luogo sacro della cultura Mijikenda, dove la regina Mepoho, la profetessa, nacque e predicò, ai piedi delle lande da cui partì la suddivisione dell’etnia in nove tribù, è lasciato in mano agli eredi del proprietario del terreno che non hanno intenzione di cederlo. “E’ il governo a dover fare la proposta per l’acquisto o l’affitto – spiega John Mitsanze – noi possiamo garantirne la gestione. Dovrebbe essere stipulato un accordo in base al quale i proprietari siano costretti a cedere almeno la parte di terreno in cui è compreso Mbambakofi, l’albero sacro sotto il quale Mepoho predicava”. Ci sediamo tra le radici dell’immenso Mbambakofi e osserviamo il paesaggio intorno: da una parte il manipolo mijikenda che ricompone i propri bagagli e si prepara al secondo giorno di marcia. Le mama preparano il tè con il latte, c’è chi si pulisce i denti con rametti di rovo e chi confabula ridendo. Li avevamo sentiti ridere e scherzare anche nel buio della sera e con le loro voci allegre ci eravamo addormentati. Dall’altra parte del campo, dall’alto si scorge il disordinato crocevia di Kaloleni. E’ un altro vociare, più frenetico e moderno, rumoroso e mescolato a marmitte e bassi di autoradio, ma altrettanto vivo e sereno. L’albero sembra lo spartiacque tra un passato selvatico, primordiale, pacifico e un presente in cui, almeno qui a Kaloleni, si fa fatica a vedere molti segni positivi della civiltà. Una preghiera Taireni za mulungu… e siamo pronti a partire. Il cielo dell’entroterra minaccia pioggia ma la comitiva non si scompone. Canti e balli, scanditi dal corno giriama, da campanelli che sono cerchi di ferro battuti con un batacchio e da percussioni da viaggio a tracolla dei musicanti, avvolgono la cittadina commerciale che s’inerpica sulle colline di Kambe. La sua via principale ha baracche abbarbicate tra sassi e poco cemento. Vendono corde, semi, vestiti usati, legumi, pentolame, sacchi di farina, taniche vuote, polpettine di patate e samosa, paraffina, pescetti essicati, piatti e tazze di plastica. E’ un mondo di necessità povere e semplici, quello che sfila al nostro fianco. Fino alla piazza alta, nello slargo tra un pub, un ferramenta, il barbiere e due chioschi di pizzicagnoli. Qui viene allestito lo spettacolo di strada più entusiasmante a cui questa gente possa assistere. Un teatro canzone d’altri tempi che racconta storie nella loro parlata, che è la lingua di pochissimi. Termini, forme gergali, locuzioni che affratellano in modo diretto e vero. Filastrocche danzate, balli popolari come rituali di riappacificazione, un senso di già vissuto e di dispiacere che molto di questo sia già finito. Si potrebbe andare avanti così fino a notte fonda, ma sono solo le dieci del mattino. La truppa inforca la grande “carretera” che si mangia la collina dalla parte opposta, per inoltrarsi nella foresta di Jibana. Qui c’è chi non ha mai visto un mzungu in vita sua, bimbi che scappano terrorizzati alla vista dell’obbiettivo della macchina fotografica, donne che si avvolgono per intero in parei colorati, ragazzini che guardano in tralice. Solamente gli anziani non si scompongono. Ci osservano con la dignità che portano appesa alla poca carne e ai peli bianchi della barba che sono un tutt’uno con i capelli. Una dignità che è buona parte del tesoro dell’Africa. Ci si potrebbe nascondere con loro, in questo saliscendi, nelle pieghe verdi di questo lenzuolo ondulato di mondo. Ci fermiamo, li salutiamo. Due parole in dialetto bastano a far crocicchio, a diradare la leggera inquietudine provocata dall’incedere del fuoristrada. Spuntano sorrisi grandi come l’arcobaleno che disegna il contorno delle acacie. Poco distante abbiamo notato una scuola abbandonata che qui chiamano “politecnico”. Insegnavano ai contadini a fabbricarsi sedie e tavoli, alle loro sorelle taglio e cucito. Qui non ce n’era proprio bisogno. Le panchine ricavate da tronchi di palma all’ingresso delle capanne vanno benissimo e nessuno si aspetta tende ricamate alle finestre. Basterebbe saper scrivere e leggere bene e conoscere la propria storia. Siamo a kaya Jibana, nel cuore dell’entroterra della costa keniota. Mille anni fa, qui, non era molto diverso da oggi. Ed era sicuramente meraviglioso. Su un poggio attendiamo i camminatori, proprio quando le nuvole innaffiano la boscaglia con la violenza di un enorme giardiniere che inciampa. Spunta la bandiera keniota dalla collina di fronte. Il popolo impassibile balla sotto la pioggia incessante. C’è una mama che è scivolata e si è fatta male a una caviglia. La carichiamo in macchina e attraverso kaya Chonyi la portiamo a Tzitzoni. Alla scuola elementare, Mama Dahabu, Mama Kapucheche e le altre stanno già predisponendo polenta e verdure per la cena. Avranno da attendere, perché il percorso del secondo giorno di cammino è davvero lungo e la pioggia l’ha reso particolarmente ostico. Arriveranno, esausti, alle nove di sera, dopo aver ballato, erudito e cantato anche a kaya chonyi e in altri tre villaggi sulla strada. E’ più forte di loro. Anzi, è la loro forza. (fine seconda puntata)

martedì 24 luglio 2012

I MIJIKENDA IN CAMMINO E IO CON LORO (prima puntata)

Sono sempre meno, ma sempre più decisi. Hanno perso per strada fratelli, compagni di viaggio, vicini di capanna. Tutto quel che hanno è una casa e un campo coltivabile, i loro costumi tradizionali e un paio di abiti che noi chiamiamo “civili” ma che a ben guardare sono meno civili dell’hando (la gonnellina con il top delle donne) e del khanga (il pareo avvolto in vita degli uomini). Hanno poco o nulla e oltretutto vedono ogni giorno di più il loro passato cancellato da falsi miti, ignoranza e dall’assenza totale delle istituzioni. Il manipolo di Mijikenda che per il secondo anno di seguito si è messo in marcia per difendere la propria cultura e le tradizioni di un’intera etnia, merita ancora più rispetto e visibilità. E’ una battaglia pacifica, che viene combattuta con due sole armi: piedi e testa. E con munizioni di gioia, positività sparate sulla gente che incontrano sulla strada. Duecentocinquanta chilometri in sette giorni di camminata, toccando otto luoghi sacri della cultura mijikenda. Una cinquantina di piccoli, umili, pacifici eroi cercano di risvegliare il sentimento d’appartenenza di due milioni di persone, gran parte delle quali vivono ancora nella regione costiera del Kenya. Sono perlopiù anziani. Ci sono molte donne, “mama” che hanno alle spalle numerosi figli, decenni di governo del villaggio, del campo coltivato (la “shamba”), delle capanne di fango. Dopo i chilometri quotidiani di una vita, per andare a prendere l’acqua, per procurarsi la legna, per recuperare erbe medicinali, per scambiare i prodotti della terra con altra materia commestibile, ora camminano fino allo stremo per non perdere quanto di più caro è rimasto loro nel cuore. Il tesoro di una vita, l’unico gioiello ereditato dai padri e dai padri dei padri. Quello che le grandi piogge non potranno mai trascinare a valle con l’argilla melmosa, che gli incendi di febbraio non potranno mai ridurre in cenere, ma che solo l’inciviltà dell’uomo potrebbe far scomparire. Le mama, gli anziani, i capotribù, il poeta e i musicanti, le danzatrici con alcuni “professionisti” (l’avvocato Joseph Mwarandu, fondatore dell’associazione culturale MADCA, il curatore di musei John Mitsanze, il tour-leader Samson, l’universitaria Furaha, il maestro Simba, figlio dell’ultimo grande capo Mijikenda, Simba Wanje) si sono ritrovati il 15 giugno a Mombasa. Accolti dal Governatore della costa, che li ha esortati a proteggere le loro tradizioni, sono partiti alla volta della prima “kaya”, il villaggio sacro di una delle nove tribù che compongono l’etnia mijikenda. Chi segue malindikenya.net conosce già la storia di questo popolo: nel dialetto giriama, divenuto l’idioma ufficiale dell’etnia, “midzi” significa popolo e “chenda” è il numero nove. Le nove tribù intorno all’anno mille lasciarono le colline di Shangwaya, non lontano dal confine con la Somalia dove oggi è in gran parte deserto e dove si battaglia con la fame e si conduce un’assurda guerra tra squallidi interessi economici e cieche rivendicazioni integraliste, per cercare un luogo più tranquillo e riparato dagli attacchi di popolazioni guerriere. Attraversando l’entroterra costiero giunsero tra i saliscendi di Kaloleni. Qui ognuna delle tribù si organizzò in un villaggio. Chi nelle piane tra boschi e palmeti, improvvise formazioni di rocce laviche millenarie e fiumiciattoli che confluiscono nel creek di Kilifi. I Digo si spostarono verso Mombasa e da qui proseguirono per Ukunda, i Duruma scelsero la zona di Mazeras, dove le vallate si aprono e oggi passa l’autostrada Mombasa-Nairobi. Le altre tribù elessero a foreste sacra (le kaya, appunto) villaggi molto vicini tra loro. In una manciata di chilometri si sale sul crinale di Ribe, nella piana di kaya Chonyi, nella foresta di Jibana, sulle colline di Rabai, nel bosco di Kambe alle pendici della cittadina di Kaloleni. Poi, scendendo verso il creek, s’incontra la kaya dei Kauma, poco distante dal villaggio di Jaribuni. Il traffico di Mombasa incontra a suon di clacson e fumo nero di marmitte instabili il passaggio della sfilata in costume dei Mijikenda. In testa al gruppo c’è una mama che regge la bandiera keniota, mentre un ragazzo vestito in abiti normali ne fa sventolare una identica nelle retrovie. Qualcuno al passaggio del plotone urla “mchawi!”, stregoni cattivi. E’ il primo segnale della poca coscienza dei loro stessi consanguinei. “I Digo sono stati i primi a prendere le distanze dalle tradizioni Mijikenda – mi spiega Mwarandu – così come fecero mille anni fa quando se ne andarono oltre Mombasa. E’ insito nella loro natura. Così oggi si mescolano alle razze della grande città, e questo è anche giusto, ma invece di mostrare le peculiarità della loro provenienza, hanno assorbito la civiltà e il progresso nel nome del business, del denaro, della globalizzazione”. E’ comodo pensare che chi difende una cultura indigena millenaria, voglia anche difendere i rituali animisti che ancora sopravvivono qui, dove l’evoluzione è arrivata (con inganno, coercizione, schiavitù e violenza) solo due secoli fa. I Mijikenda ancora oggi sono in grado di curarsi con le erbe, praticando una medicina che è in auge nei salotti bene delle metropoli occidentali ma che non piace per niente alle multinazionali che scaricano tonnellate di medicinali fuorilegge in Africa, hanno amministrazioni parallele e parlamenti nei loro villaggi che non hanno mafia e corruzione come fondamenta del loro ordinamento, ma buon senso e rispetto delle opinioni di tutti. Non a caso il Consiglio degli Anziani di una circoscrizione, viene consultato anche dalle autorità distrettuali, dalle associazioni benefiche, da chiunque voglia avere a che fare con le zone ad alta concentrazione di Mijikenda. Esiste anche la stregoneria, e tutti ci credono. Tanto che gli stregoni sono personaggi molto potenti. Un anatema contro malviventi o chi palesemente non rispetta le regole della comunità, fa paura anche agli stessi giovani che si vogliono staccare dagli usi e costumi dei padri, in nome degli dei che noi conosciamo da tempo. “Si muore più facilmente in coda in un ospedale di Mombasa aspettando la cura giusta, piuttosto che a Kaloleni, dopo un consulto con lo stregone guaritore” dice Simba. Vaglielo a spiegare ai tassisti in motocicletta assiepati agli angoli delle strade, che delle usanze degli avi si tengono solo il vino di palma, consumato però non fresco nel relax di un tramonto nella kaya, ma superalcolico e fermentato nella fagocitante miseria suburbana. Vallo a raccontare a chi vive di espedienti intorno al mercato nuovo, sniffando colla e maledicendo il governo, convinci tu le bande di slum che abbrustoliscono sogni e speranze sotto la lamiera di baracche che presto verranno spazzate via dall’edilizia, da quello stesso progresso che si mangia la cultura dei padri. Le nuove generazioni si nutrono della stessa droga e non solo si dimenticano la cura, ma arrivano anche a denigrarla e a combatterla. “I nostri anziani vivono ogni giorno con la paura di essere picchiati se non ammazzati – racconta Emmanuel Munyaya, giovane (e non è un caso, è stato eletto apposta) presidente dei Madca – io stesso che ne ho difesi alcuni, e ho cercato di denunciare le baby gang che vogliono eliminare i presunti stregoni, sono minacciato e ho messo la mia vita e quella della mia famiglia a repentaglio”. Sotto i loro piedi nudi, nella camminata del primo giorno che li vede attraversare i sobborghi sporchi e degradati della città portuale, alla sporcizia immorale si aggiunge un senso di instabilità che abrade più delle buche dell’asfalto. Insieme alla cultura e alla tradizione, ci sono da salvare vite umane, esistenze di uomini semplici e antichi, di decani impassibili come baobab e saggi come l’acqua dei ruscelli incorrotti delle colline che da sempre trasporta e purifica le stesse cose. Un giorno di cammino per purificarsi dall’inciviltà della civiltà. Kaya Duruma è una via di mezzo tra i Digo ormai persi (“i loro capi si sono addirittura rifiutati di partecipare agli ultimi meeting intertribali” ammette il segretario dei Madca John Mitsanze, che a Mombasa ci vive e lavora) e le “sette sorelle” delle colline, Ribe, Rabai, Kambe, Kauma, Chonyi, Jibana e ovviamente i Giriama, la tribù più numerosa, quella che a Malindi frequentiamo e ben conosciamo. A Mazeras c’è un altro gruppo di persone, importanti e coinvolte nella camminata di pace e sopravvivenza almeno quanto chi ci mette i piedi. Si tratta delle mama che predispongono la cena e preparano il luogo in cui il manipolo si fermerà per dormire. Coordinano il tutto Mama Dahabu, un’energica signora di Matsangoni che è capace di trattare con i negozianti il prezzo di ogni singolo mazzo di spinaci locali (“sukuma wiki”) e di insaporire un piatto di polenta e fagioli con latte di cocco e melanzane gialle di Kombeni. Con lei c’è Mama Kapucheche, che un tempo ballava e cantava come poche giriama ma che pinguedine e salute consigliano di tenere le ginocchia a riposo. Dall’Aretha Franklin Mijikenda che era, si è alacremente trasformata in aiuto cuoca, ma non disdegna qualche improvvisa canzone tradizionale e ha sempre un sorriso per tutti. Accanto a loro, qualche neo mamma con i pargoletti al seguito e gli anziani che non possono camminare ma non rinuncerebbero per niente al mondo ad essere sul campo. Hanno messo da parte i loro risparmi e si pagano la tratta del matatu per attendere i camminatori alla sera e farsi raccontare la tappa. Lungo la strada che porta a Mazeras ogni villaggio, ogni assembramento di gente e negozi, ogni crocevia, ha visto il popolo in cammino fermarsi, mettersi in circolo e cantare. Fino a quando si forma un altro circolo alle loro spalle e un crocicchio sempre più imponente diventa pubblico. Ecco allora che scatta quella che Mwarandu chiama “Elimu”, l’erudizione. Nel nome della pace, della mescolanza di razze e culture e in difesa della propria, vengono raccontati i problemi e le verità dei Mijikenda. Dietro ai fantasmi della stregoneria, c’è il pensiero così salvifico e attuale di un’etnia che per centinaia d’anni è stata pacifica, in cui erano le donne a comandare, che non costruiva armi da guerra e aveva monili da caccia che spesso facevano sorridere persino le loro prede. Meglio ingegnarsi per creare trappole, che passare la vita a costruire pericolose lance. Meglio diventare vegetariani, che rischiare la vita per uccidere uno gnu. L’uomo d’altronde non è mica nato carnivoro. Il poeta Kazungu Wa Hawerisa intrattiene il pubblico con le sue liriche in giriama. Sonetti che pescano nell’attualità (le bombe nelle chiese a Garissa, le elezioni, il Governo lontano dalle esigenze dei cittadini) e nella storia (le profezie veritiere, le preghiere dei padri). Per finire l’improvvisata festa di paese con un’invocazione a un dio che può essere quello cristiano ma anche quello mussulmano, ma in realtà per ognuno di loro è lo spirito dei padri e delle madri, la forza del ricordo e del percorso millenario, sempre a piedi, fatto da un intero popolo. Forse è proprio Dio, quel che i camminatori Mijikenda stanno cercando di difendere. Taireni, za mulungu. Alombwayeni mulungu. (prima puntata)