Al primo gol ho
pensato: “Meglio subito, così ci diamo una svegliata. Le docce fredde salutari
sono quelle delle sette del mattino, quando ti risvegli dal sogno che ti ha
reso invulnerabile, onnipotente e in odore di immortalità. Quelle di
mezzanotte, dei minuti di recupero, servono solo per lenire i dolori,
raffreddare inutili bollori o mitigare lo stato di ubriachezza. Ci siamo
organizzati male, là dietro.
Un esercito strampalato in trincea senza il Caporal Maggiore.
Quel ricciolino strapagato di Enzo Avallone mi sta dimostrando che non è un leader.
Non urla, non da fiducia. Mai una volta che dica a Ficarra e a Fernando Sucre di fare una benedetta diagonale, invece di giocare ala contro questi robot del cazzo.
Lo sceicco del PSG ha un gran fiuto per gli affari del calcio.
Chissà se gli garberebbe lo spaghetto allo scoglio di Forte dei Marmi in compagnia di Urby, Adry e Loty.
E che dire dell’altro capellone, l’Alighieri, che sembra capitato qui per caso, di ritorno dal settimo girone. Ok, ragazzi, anche senza il Trans e Chinesinho possiamo rimettere in piedi la gara. Ci sono ottanta minuti, un arbitro e due guardalinee. Purtroppo c’è anche Fred, lì davanti, e Hulk non riesce a diventare verde”.
Al secondo gol ho pensato: “Allora non abbiamo capito una beata fava! Questi corrono e si scambiano il pallone come facevamo noi con le figurine di Antonio Sciannimanico e Comunardo Niccolai.
Non sbagliano un passaggio, chiamano schemi come fossero l’uno il pastore tedesco dell’altro. “Herkommen, fuss, gib mir!”.
Gene Hackman in panca ha una faccia di muta cera come chi guarda da ultimo, l’ultima partita della sua carriera. Quello senza Trans e Cinesinho si cagava in mano da giorni.
Risatine contenute e riso in bianco, l’unico che aveva accesso alla sua stanza era il cardiologo.
A noi invece ci ha mandato una psicologa racchia che voleva convincerci del fatto che dovevamo far leva sul senso di colpa dell’Olocausto, ci guardava sempre tra l’adduttore e i genitali e alla fine ci ha pure chiesto l’autografo per i nipotini. Tatticamente abbiamo preparato questa partita come un cieco prepara una Saint Honoré.
In compenso fisicamente stiamo messi come Oliver Hardy in bicicletta inseguito dai gendarmi.
Il preparatore atletico per caricarci continuava a ripetere come una macchinetta che Hummels è alto 1.92 e pesa 90 chili. Gli alieni con la maglia del Flamengo corrono, triangolano, ci scartano.
Viene quasi da fare il tifo per loro. Un trentacinquenne autistico fa quel che vuole nella nostra area di rigore ed esulta quasi con una smorfia di disappunto. E’ il suo modo di godere, me lo disse a Roma una modella polacca. Ha battuto un record.
“Dai ragazzi, possiamo ancora recuperare”. Urla Gene.
Certo, possiamo ancora recuperare la nostra roba negli spogliatoi e andare in esilio in Suriname, prima che sia troppo tardi”.
Hulk è ancora alle prese con la trasformazione, ma al massimo gli esce un carta da zucchero.
Gene si risiede, ricomponendo il doppio mento.
Era meglio avere Gnocchi, in panchina, stasera.
Al terzo gol non ho già più voglia di pensare. E’ così evidente che siamo sulla spiaggia di Copacabana a palleggiare con le maracujas, che c’è poco da argomentare. Mancano culi e bikini, ma si sente lo sciabordio delle onde oceaniche, il brusio dei bagnanti, le urla disordinate dei bambini, le risate scomposte delle donne grasse. Il vento a sfogliare le riviste di pettegolezzi che paiono battiti d’ali.
Le nostre ali in campo che paiono personaggi dei fumetti.
E’ sempre più evidente a tutti che Bernard non abbia niente a che fare con Hulk, e che questo giro non avrebbe fatto bella figura nemmeno insieme a Zorro.
Fred dondola tra le armature prussiane stupito e svagato come uno studente di terza media in un museo medievale. Ha lo sguardo di Gianni Cavina e l’aplomb di Marco Predolin.
Hulk ha virato verso il color vinaccia.
Al quarto gol ho guardato questa gente. Non sono tutti ricchi, ma quasi. C’è un pensionato con i baffi e le sopracciglia di zucchero filato, gli occhi come canditi e la pelle di croccante. Sembra uscito dalla bancarella di un luna park. Stringe in mano una coppa rimet forse vinta al tirassegno. Piange come se gli avessero scippato l’ultimo desiderio. Ma senza violenza, che non ti puoi nemmeno incazzare.
Uno straniero, giovane aitante e biondo viene da te, ti omaggia di un sorriso di commiserazione, accarezza il croccante e ti leva la coppa rimet dalle mani con dolcezza.
“Dies ist mein, mein Herr”.
Le donne versano lacrime che per una volta non sanno di abusi, soprusi e gaslighting.
Piangono la disperazione di un tradimento solo lontanamente immaginato.
Ce l’avevano in gola dal Cile, questo magone atipico e casalingo.
Un magone senza bacchettone e giogoni di prestigio.
Le lacrime impiastricciano le bandiere verdeoro dipinte sulle gote, gocciolano sulle magliette attillate firmate Neymar, fiottano sugli occhiali come nei facials di Rocco Siffredi alle finte segretarie.
Cerco di concentrarmi altrove, c’è qualche tedesco che esulta, canta e prenota un taxi, dieci minuti prima della fine, che lo porti diretto in albergo.
Penso allora ai sindacalisti di Rio che festeggeranno come per la firma di un contratto nazionale, ai disoccupati e alla brava gente che non ha mai imparato a vivere d’espedienti.
Sono loro ad essere tedeschi dentro questa sera. Brasiariani.
Perché ci credo poco che il balordo delle favelas sia contento. Anzi, gli sale una rabbia che nemmeno quando giocava a quindici anni in terza serie nel campo dell’oratorio di Sao Geraldo ed accoltellò l’arbitro per un calcio d’angolo non concesso. Intanto Gustavo e Fernandinho preferirebbero tamponare un Mercedes Scania con la loro Lamborghini, piuttosto che Kroos e Khedira a centrocampo. Oscar gioca da solo, attendendo la nomination come miglior attore non protagonista e Hulk ha finalmente assunto la colorazione marrone, e inizia ad odorare di concime organico.
Un esercito strampalato in trincea senza il Caporal Maggiore.
Quel ricciolino strapagato di Enzo Avallone mi sta dimostrando che non è un leader.
Non urla, non da fiducia. Mai una volta che dica a Ficarra e a Fernando Sucre di fare una benedetta diagonale, invece di giocare ala contro questi robot del cazzo.
Lo sceicco del PSG ha un gran fiuto per gli affari del calcio.
Chissà se gli garberebbe lo spaghetto allo scoglio di Forte dei Marmi in compagnia di Urby, Adry e Loty.
E che dire dell’altro capellone, l’Alighieri, che sembra capitato qui per caso, di ritorno dal settimo girone. Ok, ragazzi, anche senza il Trans e Chinesinho possiamo rimettere in piedi la gara. Ci sono ottanta minuti, un arbitro e due guardalinee. Purtroppo c’è anche Fred, lì davanti, e Hulk non riesce a diventare verde”.
Al secondo gol ho pensato: “Allora non abbiamo capito una beata fava! Questi corrono e si scambiano il pallone come facevamo noi con le figurine di Antonio Sciannimanico e Comunardo Niccolai.
Non sbagliano un passaggio, chiamano schemi come fossero l’uno il pastore tedesco dell’altro. “Herkommen, fuss, gib mir!”.
Gene Hackman in panca ha una faccia di muta cera come chi guarda da ultimo, l’ultima partita della sua carriera. Quello senza Trans e Cinesinho si cagava in mano da giorni.
Risatine contenute e riso in bianco, l’unico che aveva accesso alla sua stanza era il cardiologo.
A noi invece ci ha mandato una psicologa racchia che voleva convincerci del fatto che dovevamo far leva sul senso di colpa dell’Olocausto, ci guardava sempre tra l’adduttore e i genitali e alla fine ci ha pure chiesto l’autografo per i nipotini. Tatticamente abbiamo preparato questa partita come un cieco prepara una Saint Honoré.
In compenso fisicamente stiamo messi come Oliver Hardy in bicicletta inseguito dai gendarmi.
Il preparatore atletico per caricarci continuava a ripetere come una macchinetta che Hummels è alto 1.92 e pesa 90 chili. Gli alieni con la maglia del Flamengo corrono, triangolano, ci scartano.
Viene quasi da fare il tifo per loro. Un trentacinquenne autistico fa quel che vuole nella nostra area di rigore ed esulta quasi con una smorfia di disappunto. E’ il suo modo di godere, me lo disse a Roma una modella polacca. Ha battuto un record.
“Dai ragazzi, possiamo ancora recuperare”. Urla Gene.
Certo, possiamo ancora recuperare la nostra roba negli spogliatoi e andare in esilio in Suriname, prima che sia troppo tardi”.
Hulk è ancora alle prese con la trasformazione, ma al massimo gli esce un carta da zucchero.
Gene si risiede, ricomponendo il doppio mento.
Era meglio avere Gnocchi, in panchina, stasera.
Al terzo gol non ho già più voglia di pensare. E’ così evidente che siamo sulla spiaggia di Copacabana a palleggiare con le maracujas, che c’è poco da argomentare. Mancano culi e bikini, ma si sente lo sciabordio delle onde oceaniche, il brusio dei bagnanti, le urla disordinate dei bambini, le risate scomposte delle donne grasse. Il vento a sfogliare le riviste di pettegolezzi che paiono battiti d’ali.
Le nostre ali in campo che paiono personaggi dei fumetti.
E’ sempre più evidente a tutti che Bernard non abbia niente a che fare con Hulk, e che questo giro non avrebbe fatto bella figura nemmeno insieme a Zorro.
Fred dondola tra le armature prussiane stupito e svagato come uno studente di terza media in un museo medievale. Ha lo sguardo di Gianni Cavina e l’aplomb di Marco Predolin.
Hulk ha virato verso il color vinaccia.
Al quarto gol ho guardato questa gente. Non sono tutti ricchi, ma quasi. C’è un pensionato con i baffi e le sopracciglia di zucchero filato, gli occhi come canditi e la pelle di croccante. Sembra uscito dalla bancarella di un luna park. Stringe in mano una coppa rimet forse vinta al tirassegno. Piange come se gli avessero scippato l’ultimo desiderio. Ma senza violenza, che non ti puoi nemmeno incazzare.
Uno straniero, giovane aitante e biondo viene da te, ti omaggia di un sorriso di commiserazione, accarezza il croccante e ti leva la coppa rimet dalle mani con dolcezza.
“Dies ist mein, mein Herr”.
Le donne versano lacrime che per una volta non sanno di abusi, soprusi e gaslighting.
Piangono la disperazione di un tradimento solo lontanamente immaginato.
Ce l’avevano in gola dal Cile, questo magone atipico e casalingo.
Un magone senza bacchettone e giogoni di prestigio.
Le lacrime impiastricciano le bandiere verdeoro dipinte sulle gote, gocciolano sulle magliette attillate firmate Neymar, fiottano sugli occhiali come nei facials di Rocco Siffredi alle finte segretarie.
Cerco di concentrarmi altrove, c’è qualche tedesco che esulta, canta e prenota un taxi, dieci minuti prima della fine, che lo porti diretto in albergo.
Penso allora ai sindacalisti di Rio che festeggeranno come per la firma di un contratto nazionale, ai disoccupati e alla brava gente che non ha mai imparato a vivere d’espedienti.
Sono loro ad essere tedeschi dentro questa sera. Brasiariani.
Perché ci credo poco che il balordo delle favelas sia contento. Anzi, gli sale una rabbia che nemmeno quando giocava a quindici anni in terza serie nel campo dell’oratorio di Sao Geraldo ed accoltellò l’arbitro per un calcio d’angolo non concesso. Intanto Gustavo e Fernandinho preferirebbero tamponare un Mercedes Scania con la loro Lamborghini, piuttosto che Kroos e Khedira a centrocampo. Oscar gioca da solo, attendendo la nomination come miglior attore non protagonista e Hulk ha finalmente assunto la colorazione marrone, e inizia ad odorare di concime organico.
Al quinto gol mi
sono alzato e ho applaudito.
In ogni battito dei palmi delle mani c’era un flashback, un fotogramma nitido di storia.
Mi sono assorto col pensiero della Weltanschauung, rivisto Goethe e salutato Kant e Adorno, mostrato il pugno a Marx e aperto la mano verso Hegel, ho regalato un broncio obliquo allo Sturm Und Drang, ammirato la geometrica incisività di Durer, i ritratti equestri di Franz Kruger, la morbida gommosità del maggiolone Wolkswagen, la copertura dell’osso sacro di Gisele Blundchen, che è pure brasiliana. Ho ascoltato il proto jazz di Johan Sebastian, il rock and roll di Beehetoven e la techno di Wagner, sfumando con le immagini di Fritz Lang e Wim Wenders con sottofondo industrial-pop degli Eisturzende Neubauten.
Ce l’ho messa tutta, stringendo le palpebre, ma quella scritta “Arbeicht Macht Frei” non se ne andava, nemmeno se mi concentravo su quel coglione di Beppekrillen o sul dubbio gusto della Bauhaus.
No, non riuscirò mai a farmi piacere i tedeschi, anche se li sto applaudendo.
Non potrò mai perdonarli. Sono troppo prevedibili, anche nella loro superiorità.
Guardali lì adesso, guarda il grugno idiota, sprezzante e finto umile di Moeller, guarda come insistono con il pressing. Vorrei gridargli “Sitzen, Fuss!” ma non mi crederebbero. Come scrisse Gunther Grass, i tedeschi non sono mai troppo audaci per essere dispiaciuti.
In ogni battito dei palmi delle mani c’era un flashback, un fotogramma nitido di storia.
Mi sono assorto col pensiero della Weltanschauung, rivisto Goethe e salutato Kant e Adorno, mostrato il pugno a Marx e aperto la mano verso Hegel, ho regalato un broncio obliquo allo Sturm Und Drang, ammirato la geometrica incisività di Durer, i ritratti equestri di Franz Kruger, la morbida gommosità del maggiolone Wolkswagen, la copertura dell’osso sacro di Gisele Blundchen, che è pure brasiliana. Ho ascoltato il proto jazz di Johan Sebastian, il rock and roll di Beehetoven e la techno di Wagner, sfumando con le immagini di Fritz Lang e Wim Wenders con sottofondo industrial-pop degli Eisturzende Neubauten.
Ce l’ho messa tutta, stringendo le palpebre, ma quella scritta “Arbeicht Macht Frei” non se ne andava, nemmeno se mi concentravo su quel coglione di Beppekrillen o sul dubbio gusto della Bauhaus.
No, non riuscirò mai a farmi piacere i tedeschi, anche se li sto applaudendo.
Non potrò mai perdonarli. Sono troppo prevedibili, anche nella loro superiorità.
Guardali lì adesso, guarda il grugno idiota, sprezzante e finto umile di Moeller, guarda come insistono con il pressing. Vorrei gridargli “Sitzen, Fuss!” ma non mi crederebbero. Come scrisse Gunther Grass, i tedeschi non sono mai troppo audaci per essere dispiaciuti.
Al sesto e al
settimo gol, e alla bandiera in regalo ai bimbi tristi di Belo Horizonte, mi
sono messo a ridere. Ho riso di gusto, senza timore di essere considerato
pazzo, non come l’Oscar verdeoro, ma come l’Oskar del “Tamburo di latta”. Ho
pensato alla figura di merda intergalattica, alle urla gutturali dei
telecronisti, ai corsi e ricorsi storici, a chi invece di suicidarsi già stava
cercando l’indirizzo della sorella di Fred a Minas Gerais, a Gene con il plaid
scozzese sulle ginocchia che guarda la finale in televisione, a Enzo Avallone
accolto a Parigi come a Genova abbiamo accolto Burdisso, a Fernando Sucre che
per calmarsi mangerà una gallina cruda e farà le facce brutte per due ore
davanti allo specchio, a Ficarra che strabuzzerà gli occhi all’offerta dei
Vanzina per il nuovo cinepanettone.
A Hulk che inevitabilmente seccherà, annusato dai cani.
Come nella vita, c’è sempre un finale che ti aspetti ma che mai ti sarebbe venuto in mente quando tutto cominciò. Alla fine è come uscire da uno stadio, comunque sia andata, che le lacrime siano di commozione o di dolore, l’importante è prenderla con ironia, perché in ogni caso hai assistito a qualcosa di unico, e di irripetibile.
A Hulk che inevitabilmente seccherà, annusato dai cani.
Come nella vita, c’è sempre un finale che ti aspetti ma che mai ti sarebbe venuto in mente quando tutto cominciò. Alla fine è come uscire da uno stadio, comunque sia andata, che le lacrime siano di commozione o di dolore, l’importante è prenderla con ironia, perché in ogni caso hai assistito a qualcosa di unico, e di irripetibile.