domenica 24 luglio 2011

IL TAPPETO, LA CASA E LA FAMIGLIA: I MIJIKENDA ARRIVANO A KALOLENI


La strada di Mariakani è un tappeto irregolare d’argilla che, al passaggio dei veicoli, deposita la sua polvere arancione su piante, pietre e baracche di legno. Anche la gente ne è ricoperta, impregnata. Statue in lento e perenne movimento, donne incinte con infanti legati in spalla come matrioske di terracotta, bimbi saltellanti e impassibili anziani, con la pelle più aspra del terreno e gli occhi di profondità infinita, cosa normale per chi da decenni si specchia ogni giorno in questo cielo.
Si sale e si scende attraverso le verdi colline d’Africa, come le chiamava Hemingway. Si incontrano autoarticolati sgangherati che trasportano legno o cemento, matatu carichi di pendolari del bisogno, qualche fuoristrada di chi è andato altrove a cercar fortuna e torna a respirare argilla e aria di famiglia. Ai lati del tappeto è un’altra famiglia, la verde casa della Natura. Baobab, palme e acacie si prendono i contorni dell’immenso cielo e lasciano la terra ai campi di mais e ai tetti di palme secche che annunciano le capanne di fango sprofondate nel rosso vivo e schiave della terra come sculture millenarie. Il manto rosso non ti molla, neanche quando ci si infila nella fitta boscaglia, si costeggiano scuole elementari dai prati curati e dagli intonaci che fanno pendant con le divise degli scolaretti. Le radure sono piazze di villaggi dai nomi probabili ma impronunciabili, abitate da motociclette-taxi in perenne attesa di clienti, chioschi di frutta e verdura, piccoli bazar che vendono sapone, sigarette sfuse e farina.
E’la carretera che porta a Kaloleni, dove tutto cominciò.
Il manipolo di eroici mijikenda sta risalendo la Mariakani dalla parte opposta. Arrivano da Mombasa, dopo sei giorni di marcia che ha fatto sanguinare i loro piedi ma ha rinsaldato i loro propositi. Sono stati ricevuti dal Prefetto di Mombasa, che ha donato anche dei soldi per un piatto di carne e un bicchiere di tè caldo. Hanno sfilato per le vie della città portuale con orgoglio e coraggio, incuranti dello slalom ad alta velocità delle berline giapponesi con i vetri oscurati e dei matatu che sono palline impazzite in un flipper mussulmano.
Noi arriviamo da Malindi, in macchina. Loro hanno scavalcato le colline di Mazeras per attraversare la zona in cui nacquero le nove tribù Mijikenda. La leggenda vuole che, dopo l’esodo da Shangwaya, la terra d’origine al confine con la Somalia, i Mijikenda trovassero pace nelle acque fredde di Kaloleni. Quattro fiumi delimitavano una fitta foresta che manteneva un microclima di fresco e umido e garantiva una gran quantità di verdure. Qui, secondo la mitologia orale Mijikenda, l’enorme vaso che si portavano dietro, carico di pozioni magiche e medicamenti (chiamato Ngiriama) si ruppe in nove cocci e ne diedero uno ad ogni capotribù. Ogni coccio conteneva un consiglio. “Vai di là”, “Torna indietro”, “Stai qui vicino”, “buona fortuna!”. Da queste invocazioni le tribù presero i loro nomi: Digo, Kambe, Ribe, Rabai, Duruma, Jibana, Chonyi, Kauma e appunto i Giriama, la “base” del vaso.
Salendo per un tratturo che costeggia la vallata del sisal e affronta improvvisi colli carichi di vegetazione, qui sono posizionati i villaggi che ancora oggi portano il nome delle tribù.
Noi entriamo a Kaloleni, villaggione di pietra viva e fango, di legno e di lamiere. Lo affrontiamo dall’alto. E’ un agglomerato di case e negozietti scoscesi, abbarbicati al monte come scalatori esausti. La via principale che scende a valle è un insieme di calce, terriccio e ghiaia cementificata che crea una serie di gradoni e piccole voragini. Gli ammortizzatori urlano, gli occhi non sanno dove indirizzare la loro meraviglia, l’estasi di tanta disordinata, sporca, incalzante, misera umanità.
Baya il cantautore mi chiama al cellulare.
“Abbiamo appena passato Ribe, siamo sulla strada vecchia che scende da Kaloleni. Ci venite incontro?”
La voglia di incontrare subito la processione dei nostri eroi è tanta, ma anche il vuoto nello stomaco si fa sentire. Forse è più insopportabile perché si contrappone all’anima che trabocca.
Ci troviamo nella piazza di Kaloleni.
Qui è tutto come deve essere, come l’iconografia del terzo mondo impone.
Andirivieni di camion puzzolenti, schiamazzi di venditori ambulanti, gimcane di motorette che sollevano polvere arancione, grossi autobus traboccanti di giovani, madri con neonati fasciati dai loro stessi vestiti, donne anziane come formiche, con carichi che pesano tre volte più delle loro ossa.
E’ un traffico scomposto ma alla moviola, in cui si trova sempre il tempo per muoversi, per interagire, per farsi avvicinare e scambiare due parole.
Con la stessa disordinata flemma parcheggiamo.
Maddalena, la fotografa, è felicemente disorientata. Il suo obbiettivo, ad ogni angolazione, avrebbe pronti almeno venti soggetti diversi.
Chiamo Baya.
“Mangiamo velocemente qualcosa e vi raggiungiamo. Dove siete?”
“Stiamo risalendo la collina, abbiamo passato il villaggio di Ribe, siamo quasi a Kambe”.
Ne so quanto prima, la “Kenya safari map” che sfoglio appena entrato nel ristorante, mi è parzialmente di conforto. Trovo Ribe, Kambe non esiste.
Il Sweet Joint Restaurant è una casupola di legno, ondulina e cemento. Da fuori ha l’aspetto di una chiesetta mormone dell’Oregon, dentro assomiglia alle migliaia di kebaberie, friggitorie e polentoteche della costa keniota. Gli arabi le hanno create e di arabo mantengono ognuna la stessa concezione delle vivande calde in vetrina, della griglia per gli spiedini all’ingresso, dei tavolini in formica e dei cessi inavvicinabili.
Divoriamo sima na cabaji, polenta e cavolo stufato al pomodoro. Ora anche le papille gustative sanno che siamo nell’entroterra del sud del Kenya. E ne godono.
Chiediamo informazioni a un gruppo di ragazzetti che non sanno nemmeno chi fosse la regina Mepoho e prendiamo la vecchia strada per Kambe.
Si scivola nuovamente sul tappeto color papaia.
Se il paradiso fosse arredato a questa maniera, non ci troverei niente di strano.
E’ foresta, sono improvvisi squarci di prateria, sono ordinatissime staccionate con scuole in muratura, piccole aziende agricole povere ma curate, dignitose baracche, campi di mais ordinati, siepi simmetriche. Da una curva d’argilla ci appare lo spettacolo della strada inghiottita da una ripida collina verde, su cui le piante si sono arrampicate con la stessa ingordigia di cielo e di panorama che abbiamo noi proseguendo per la strada.
Baya chiama, ma non lo sento, rapito da tanto splendore africano.
Richiama.
“Dove siete?”
Mi fermo davanti a una scuola elementare.
Decine di ragazzini corrono, saltano e inseguono una palla su un manto smeraldino che sembra mare croato. Mi ci tufferei volentieri. Dico il nome della scuola.
“Ci avete superato, dovete tornare indietro”
Sono qui per loro, per i nostri eroi. Ma rinuncio allo sterrato che conduce a Ribe, Rabai e in qualche altro paesaggio a noi sconosciuto, con il dispiacere provvisorio dell’artista costretto a lasciare un quadro a metà. Un giorno torneremo a dipingere con gli occhi queste miglia di tela d’argilla e foresta.
Gli ultimi Mijikenda sono raggruppati in circolo in una radura dietro la scuola di Kambe.
Poco distante sorge l’ufficio del chief, la massima autorità provinciale.
Sono passati da lui per ricordargli che i Kambe sono una delle nove tribù Mijikenda e che anche la loro cultura rischia di scomparire.
Eccoli. Volti stremati, barbe incolte, odori forti, piaghe tra le dita dei piedi.
Mi stringono la mano, mi abbracciano.
Mzee Mwarandu, il leader dei Madca, mi chiama al centro del cerchio di gente.
Mi presenta alla folla festante e al chief.
“Non ho ancora fatto niente. Ce la metterò tutta per aiutarvi”.
“Hai fatto molto. Tu, mzungu, sei qui” mi sussurra uno degli anziani.
Ora mi accorgo che dietro al cerchio dei camminatori, si è formato un crocicchio di simpatizzanti. Famigliole in abiti borghesi, qualcuno ha anche la camicia, bambini sottratti al pallone e al nascondino. Più defilati appaiono vecchi sorretti da bastoni d’ebano che indossano parei e timidezza, aprendosi in sorrisi sorpresi e sdentati non appena saluto in dialetto giriama.
“Sindadze…sinda…simanya wewe…nambola”
Come va? State bene? Io ottimamente!
E’ l’intercalare di rito ma in effetti mi sento proprio una favola. O “in” una favola.
A tre ore di macchina dalle oasi del turismo italiano, ad anni luce dalla tossica vita occidentale. Nel bel mezzo di un’Africa che non ha ancora perso del tutto la sua verità.
C’è anche un gruppo folkloristico kambe. I capobanda sono due personaggi assolutamente fuori dal comune: uno è bardato come un guerriero Tamil. Ha anche una sciabola, recuperata in chissà quale fondo di anticaglie di Mombasa. La barba folta, il turbante, una fascia in diagonale sul torace.
Il Tremal Naik di Kaloleni è accompagnato da un mganga, uno “stregone buono” locale, ricoperto di piume d’uccello e di bende colorate. Ha lo sguardo soddisfatto di chi da sempre attende il momento per potersi esibire in danze benaugurali e propiziatorie. Che non si prenda troppo sul serio è evidente, dai due caschi di banane legati ai polpacci e dall’imitazione delle All Star ai piedi. Forse ha inscenato questo carnevale per ingraziarsi gli adolescenti. Meglio cabarettista, che stregone, di questi tempi. Una delle tragedie che affliggono i Mijikenda è la caccia al mganga da parte delle nuove generazioni. Giovani bande di ragazzi dediti all’alcool e a droghe pesanti che adorano gli accattivanti idoli del mondo civilizzato ma non riescono a liberarsi dalle ancestrali paure degli anatemi e dei riti tribali. I loro nonni li ammoniscono: “Video ni hakili ya shetani…la televisione è la scatola cranica del diavolo. E la tecnologia il suo intestino. La vita in città è tutta una caccia a cose che tutti desiderano avere, ma di cui nessuno ha veramente bisogno. Se oltre al grano e alla verdura del nostro campo, alle galline e alle capre, avessimo anche un piccolo ospedale per tutto ciò che non si cura con le erbe e un po’ di cemento da mischiare col fango per non far sciogliere la capanna durante le piogge monsoniche, credo che non ci mancherebbe nulla”.
I giovani non credono ai loro vecchi, vanno in città e vivono di espedienti per potersi permettere un televisore. In pochi mandano soldi alle famiglie. Ricevono in cambio gli anatemi.
Con l’ultimo modello di Nokia in tasca e la motocicletta cinese tra le gambe, hanno deciso di eliminare il problema alla radice. Vanno in giro di notte e ammazzano di botte ogni presunto stregone.
Basta che abbia i capelli bianchi ed è uno di loro. Buon motivo per eliminarlo.
Da un po’ di tempo a questa parte, molti anziani dei villaggi hanno iniziato a tingersi.
Lottare per conservare le proprie tradizioni, per evitare l’esproprio dei terreni sacri, per evitare le uccisioni dei vecchi. Il compito degli ultimi Mijikenda è arduo. C’è bisogno di un appoggio delle istituzioni.
Il chief si accalora. Promette che si spenderà molto, nel prossimo consiglio provinciale a Kilifi.
alla sua gente: “siamo Kambe, facciamo parte anche noi dei Mijikenda. Abbiamo combattuto e siamo morti per salvare le nostre tradizioni. Ce ne siamo andati via da Shangwaya per non farci contaminare e sopraffare dalle tribù somale. Siamo nella nostra terra e non chiediamo nulla più che poterla lavorare, onorare, curare e raccoglierne i frutti.
Il manipolo si rimette in marcia, Tremal Naik e il mganga, con un’altra decina di kambe, si uniscono alla processione. Entrano in Kaloleni, si fermano ad erudire la platea davanti ad un bar arrampicato sulla roccia che reca l’insegna “Kosovo Kiosk”. Sorrido alla coincidenza, che non può che essere tale. Di etnie si parla, di difesa della propria cultura, anche se quella dei Mijikenda ha vocazione pacifica. Kaloleni gemellata con Pristina? Ho il volante in una mano e la telecamera nell’altra, non c’è tempo per salire le scale del bar e chiederlo all’omone dietro il banco.
I camminatori non sono mai abbastanza stanchi per rinunciare a una danza, a un salterello tribale. Sylvia la studiosa ha i piedi che sanguinano, ma accenna sorridendo due passi. Mwana il poeta aizza la folla con alcuni versi. Improvvisamente si siede sullo sgabello antico che porta sempre con sé, e finge di non riuscire più ad alzarsi. E’ una recita. Due ancelle in costume giriama fanno per tirarlo su. Mwana si riabbandona, come svenuto. Poi di colpo si solleva da solo, con un insospettabile colpo di reni. Recita un altro verso, uno slogan, a cui tutti rispondono in coro. Schiocca le dita tre volte e il piccolo popolo si rimette in marcia. Mancano poche centinaia di metri alla “terra promessa”, alla vallata di Mepoho.
Li precediamo.
Sotto un grande carrubo il gruppo delle massaie sta già cuocendo la polenta in un pentolone fumante, poggiato sulla carbonella di un fornello improvvisato con pietre di corallo. Ai saluti di rito e gli abbracci delle mama si aggiungono accenni di danze e canti. La capocuoca è una donna magra e ammantata di fierezza che in gioventù doveva essere molto bella. Ha l’incedere ieratico e ammiccante della cantante Erykah Badu.
Fa un inchino, mi prende la mano e mi invita a godere dell’afrore di mais bollito e unguenti per capelli che esala.
Il sole ha iniziato la sua parabola colorante verso la savana e cambia le tonalità al cielo. Il tramonto in Kenya dura il tempo di una danza, di un racconto dei nonni.
Arriva John, il segretario dell’associazione culturale Mijikenda, e mi mostra il luogo esatto in cui, secondo la leggenda, Mepoho predisse l’arrivo dell’uomo bianco in Kenya e poi sparì, inghiottita dalla stessa terra che l’aveva vista nascere ed essere abbandonata sul greto del fiume.
“Portata dall’acqua”, questo significa in giriama antico il suo nome.
La leggenda della prima grande figura femminile della mitologia Mijikenda parte da qui, dalla collina su cui sto poggiando i miei piedi incerti. Vedo la vallata, dove le nove tribù si divisero.
Alle mie spalle c’è il casino sostenibile di Kaloleni.
L’insostenibile è qui intorno. Invisibile di giorno, si materializza nel buio e odora di bruciato.
“Gente che si vuole appropriare di questi campi, per costruirvi o per coltivare e pascolare a proprio uso e consumo, ha provato già due volte ad incendiare la vallata con i suoi alberi e il terreno sacro – racconta John, con dolore – il terreno appartiene al Governo, sarebbe facile per loro darci la possibilità di recintarlo e i fondi per costruire un museo della storia Mijikenda”.
Siamo qui anche per questo e dobbiamo farcela. Prima che il diavolo o semplicemente un clan di giovani che ignorano la propria storia e le proprie origini, facciano un unico falò del tappeto arancione, della casa verde e di questa piccola, grande famiglia nera.

martedì 19 luglio 2011

IL GIORNO DI CIELO, ARIA E SIGARETTE DEI CARCERATI DI MALINDI


Ti chiedono sapone e sigarette, come nei film.
Chi conosce le carceri di Mtangani, sa bene che non c’è lungometraggio che possa raccontarle, senza lasciarti un senso di spaesamento e nausea. Senza rabbia, senza indignazione.
Impotente schifo e basta.
Perfino le prigioni turche di “Fuga di mezzanotte” erano più poetiche. Ti immagini almeno che le dita callose e irregolari possano appoggiarsi alle sbarre di ferro, che tra la cella e il corridoio passi un po’ d’aria, insieme al secondino che batte sui lucchetti con la spranga. Aria pesante che si sposta, come negli scompartimenti di un treno del meridione quando lasci aperta la porta scorrevole. Uno straccio di branda o due letti a castello, una seggiola cigolante, un micro tavolo o una mensola per gli effetti personali.
A Mtangani, il carcere di Malindi, non c’è niente di tutto questo. I detenuti passano le loro interminabili ore in monoblocchi in muratura, con strettissime feritoie da cui la luce entra a coltellate e tetti di lamiera che cuociono i pensieri. In estate la temperatura raggiunge i cinquanta gradi, quando piove l’acqua invade il pavimento, che è anche il letto. In un angolo, la toilette. Dieci metri quadrati di stanzone, dieci ex uomini dentro.
Logico sorprenderli a ridere, nella pausa dei lavori forzati ma tranquilli allo stadio del Malindi United. Le sigarette, rooster senza filtro, sono state sequestrate dalle guardie.
Dice che devono controllarle.
“Le ha comperate un bianco - proviamo a dirgli – non c’è il filtro”
Con la lana di vetro pestata potrebbero fabbricarsi una lametta.
Anche se qui non usa tagliarsi le vene.
Niente da fare.
Rooster sequestrate.
“Ecco, se ne terranno almeno la metà”, dice Karisa, che parla bene l’italiano e mi conosce.
“Tu avevi un ristorante, ero anche venuto a chiederti lavoro”
“Già…ma io non posso assumere tutti”
“E io dopo ho fatto degli sbagli”
Le guardie lo riprendono. Zitto e lavora.
Abbiamo voluto noi i carcerati per risistemare il campo di gioco alla fine della stagione. Lavori che qualsiasi manovale non specializzato avrebbe potuto svolgere, ma la possibilità di far respirare un po’ di cielo, sprazzi di comunicazione normale e storie del mondo fuori dal monoblocco, era troppo allettante. Grazie alla Karibuni Onlus, che da sempre ci sostiene nei nostri progetti sociali a sfondo sportivo (o viceversa), per qualche giorno Karisa e altri otto prigionieri avranno un pranzo decente e un po’ di latte fresco da bere.
“Tra sei mesi sono fuori” dice in italiano. Vendeva qualcosa di illegale ai turisti in spiaggia.
“Quando esco mi faccio la licenza…”
C’è anche chi non rivedrà il cielo libero, la sua reggia di fango e sterco tanto presto. Gli sguardi sembrano tassametri, ti scavano addosso e vorrebbero commettere l’ultima rapina, scippare la tua libertà e andarsela a godere di nascosto da qualche parte. Giocarsela a donne e birra, comprarci qualche chilo di riso e fagioli per far vivere una settimana speciale a una moglie che aspetta e a figli mai visti crescere.
Avvolgono il filo spinato, la rete che delimitava il campo. Juma ha lo sguardo altrove e la kofia islamica in testa. Afferra un bastone di ferro per sradicare la rete dai pali. La guardia imbraccia il fucile. Lui si guarda intorno. Sa bene che c’è solo una via d’uscita, e non contempla il continuare a vivere. Abbassa lo sguardo e si rimette a lavorare.
Riccardo ha portato per loro antibiotici e unguenti per le piaghe. John Ochieng alza i pantaloni a righe fino al ginocchio e scopre la tibia martoriata. Cicatrici, insetti, rimasugli di scabbia.
Le amicizie pericolose di Mtangani.
Consegniamo le confezioni al medico del carcere.
“Per i detenuti, per favore…”
Domani torneranno, ma non è dato sapere se saranno gli stessi.
Poi c’è il rischio che ci prendano gusto.
Come con il sapone, come con le sigarette.
Guarda come ridono.
Magari poi finisce che riprendono ad amare la vita…

sabato 16 luglio 2011

IL CAMMINO DEGLI ULTIMI MIJIKENDA


Sto camminando in mezzo a centoventicinque eroi.
Anacronistici, meravigliosi eroi che tentano, da soli, di salvare la loro cultura e le loro tradizioni. Non si chiamano aborigeni o pellerossa. Anche per questo non hanno alle spalle nemmeno una fondazione, un’associazione, una cavolo di onlus che li sostenga, li accudisca, li preservi.
Non sono ocelot del Paraguay o marmotte siberiane, nessuno, tranne loro stessi, griderebbe alla scomparsa, lieve e morbida come una qualsiasi commistione umana, o “meltin’ pot” come dicono nei paesi in cui delle tradizioni frega poco quasi a tutti.
Camminano a passo spedito, gli ultimi dei Mijikenda, una delle più antiche etnie del Kenya.
Indossano la voce come i loro abiti tradizionali. E’ un canto nudo, vero, senza vergogna quello che si snoda in mezzo al traffico di Malindi, da dove siamo partiti. Sono gospel animisti che parlano di esodo e di speranza, di pace ed unità. Gli stessi che i loro antenati sbriciolavano tra le labbra quando, mille anni fa, abbandonarono le colline di Shangwaya, al confine con la Somalia, per trasferirsi nella regione costiera. Loro, nomadi per forza, cacciati da tutti, con il sogno di diventare un giorno stanziali. I primi furono i somali, con cui litigarono per via delle diverse abitudini sessuali prematrimoniali, poi arrivarono i Galla che ne scuoiarono a migliaia. Giunti sul mare arabi e cinesi li ricacciarono nell’interno, e chi restava veniva fatto schiavo e deportato. Gli inglesi confiscarono i loro terreni e li ridussero a mezzadri, prima ancora che a maggiordomi, giardinieri, cuochi e autisti per due scellini. Una vita dalla brace alla brace, tra esodo e schiavitù. Oggi i rappresentanti di questo popolo africano molto meno sponsorizzato e trendy dei maasai, sono nuovamente in movimento. Per non veder morire mille anni di storia, tramandata oralmente, impressa sulla pelle e scolpita nelle ossa. Il loro leader è l’uomo più piccolo e gracile del gruppo. Joseph Karisa Mwarandu, avvocato cinquantenne che alle tre del pomeriggio, ogni giorno, smette la giacca e la cravatta davanti alla corte di Malindi e indossa i paramenti dei suoi avi, avvolgendo il khanga, pareo tradizionale, ai fianchi e lo sciarpino bianco al collo, che scende sul petto nudo. La figlia è tornata da Nairobi, dove studia legge, per l’occasione. Emmanuel e Sylvia, i più giovani della truppa, vorrebbero imitarla ma non hanno i soldi per continuare a studiare. C’è John il segretario, che tiene l’archivio etnico, c’è Mwana il poeta di bianco vestito. Lo si riconosce per gli occhiali da vista e viene da pensare che tutti i bohemien del mondo sono uguali, un dandy può essere tale anche se nato in una capanna di fango e sterco e non in un castello della Loira. Baya invece è un cantautore impegnato, scrive testi sull’emarginazione di chi protegge le istituzioni e allo stesso tempo combatte le storture radicate nella sua civiltà, come l’omertà riguardo alle molestie sui minori, l’alcolismo e l’uso smodato di nuove droghe, la peste di quel tipo di capitalismo che è arrivato anche qui e che chiamare selvaggio è un’offesa alle verdi colline d’Africa dove lui e la sua gente sono nati. Qui i giovani si ammazzano tra loro per un telefonino, e non lotteranno mai per avere una scuola più attrezzata, un museo con dentro le loro radici, un pronto soccorso a pochi chilometri dal villaggio.
Intorno agli “intellettuali” di questo improbabile manipolo, ci sono gli anziani stregoni, che ancora guariscono la malaria con le foglie e curano l’infertilità con danze e rituali magici. C’è il vecchio Mboko, ricoperto di pelle di facocero e piume di fagiano, c’è Wanje con la barba più lunga dello sguardo, ma più corta del suo passo.
Camminiamo per Malindi. Qui la mescolanza, la multi etnicità è quotidiana. Si respira nei bazar, tra le bancarelle del mercato vecchio, perfino negli hotel della zona turistica. Islamici e cristiani convivono da sempre e non si sono mai accapigliati. Non ci sarebbe motivo, qui sanno tutti che Dio è troppo grande e lontano e se, come dice nonno Kazungu, la religione è una scala, è capace che mettendone assieme molte, anche diverse tra loro, lo si possa raggiungere. Una scala, da sola, non arriva neanche al primo piano di una nuvola. Ma nelle strade affollate di Malindi si sfiorano anche indiani e tedeschi, tanzaniani e somali, concittadini di Briatore e connazionali di Obama.
La gente, in sorridente disordine, si mette ai lati delle strade e sorride al corteo che canta. Guardano le donne, meravigliose brutture bardate di rosso e di viola, agitare i loro seni fasciati e i loro fondoschiena sporgenti. Poi si fissano sull’uomo bianco, lo additano e ridono.
Molti mi salutano, mi chiamano per nome. Altri chiedono informazioni. “Non è uno sciroccato. Forse, sì. A giorni alterni”.
I miasmi del mercato vecchio, in cui l’ananas macerato al sole si confonde con i piccoli pesci di barriera corallina essicati e la miscela delle apecar, inebriano l’incedere irregolare del corteo, che s’ingrossa di simpatizzanti, ubriachi, buoni a nulla, studenti e donne che stavano facendo la spesa con in tasca le monete sufficienti per un chilo di spinaci e quattro pomodori.
“Dove andate?”
“A Kaloleni, passando da Mombasa”
Centoquaranta chilometri. Per arrivare nel luogo simbolo della cultura Mijikenda. La Kaya (vuol dire Casa, ce ne sono solo tre con la C maiuscola in Kenya) dove la regina Mepoho, a metà del milleottocento, fece il suo vaticinio sull’arrivo dei colonialisti e secondo la leggenda scomparve, nascosta dal fumo di un baobab incenerito da un fulmine, nelle viscere della terra.
“Verrà un popolo con la pelle e i capelli chiari, userà per muoversi strani veicoli per cielo, per mare e per terra. Saranno gli uomini, non le donne, a governare quella società. Quel giorno per il nostro popolo sarà la fine”.
Oggi la Kaya è minacciata dagli speculatori. Un fazzoletto di savana in mezzo al nulla è al soldo di piccoli proprietari terrieri senza scrupoli né storia. Gli squatter lo occupano, i pastori lo reclamano, gli affaristi lo bruciano. E’ il simbolo di quel che sta accadendo alla loro cultura, alla tradizione orale che nessuno trascrive, che non si riesce neanche a mettere in gabbia, nella prigione dignitosa d’un museo.
Gli ultimi dei Mijikenda sono in viaggio per fare la loro storia. E la stanno facendo.
Usciamo da Malindi, prendiamo la strada dell’aeroporto. Volti contadini, visi duri d’ebano e provati da fatiche ancestrali osservano l’atterraggio di quello che ancora oggi nella lingua madre swahili si chiama “ndege”, uccello. Perché tutto in principio era natura, e tutto tornerà ad esserlo.
Marciano fieri, i miei amici. Abbiamo già fatto tante cose insieme e tante ne faremo. Sto raccogliendo le loro storie, le leggende tramandate di padre in padre più giovane e raramente in figlio o nipote. Non sono un maratoneta, non ho il fisico, e non mi prendo meriti che mai potranno essere miei. Salgo in macchina e li seguo fino quasi a Gede, dove all’ombra di un grande baobab improvvisano un comizio per la gente del luogo che non sapeva di questa manifestazione.
Intorno è solo cielo, boscaglia e una striscia d’asfalto. Giovani che si sporcano le mani con il carburatore di un elefante di lamiera in avaria e la bocca con la parola “cultura”.
“Calciar, calciar” pronunciano alla maniera dei rasta giamaicani. “Loro difendono la nostra calciar. Siamo tutti mijikenda”. Poi ti chiedono qualche spicciolo per un tè, per un pacchetto di sigarette.
“Non è meglio che li dia a loro per la calciar?”
“Dalli anche a loro, mzungu. Ma anche a me per le sigarette”.
Altre anime uscite dal verde oltre la carreggiata vorrebbero unirsi al corteo, ma dicono di avere da fare. Altri precedono per qualche chilometro con la loro motocicletta il serpente umano che si è rimesso in viaggio. In serata arriveranno a Tezo, dopo quaranta chilometri a passo di diaspora. “La prima giornata è sempre la più dura” mi dice Baya al telefono. “Domani erudiremo Kilifi, il capoluogo, e dopodomani saremo a Mombasa. Sfileremo nella grande città”.
Martedì, dopo cinque giorni di camminata di pace e unità, di speranza e gioia, raggiungeranno Kaloleni. E io sarò lì ad attenderli, e a raccontarne l’orgoglio.

mercoledì 13 luglio 2011

BENTORNATI TURISTI, SI RICOMINCIA...


Altro giro, altra corsa. In uno dei pochi luoghi del mondo dove non importa che non ci siano più le mezze stagioni, perché qui di stagioni da sempre se ne alternano soltanto due, stanno per tornare i nostri amici turisti.
Ne sentivamo la mancanza, davvero! E non solo perché le nostre tasche sono vuotine, come spesso accade dopo le piogge. Abbiamo proprio voglia di vedere il loro pellame, che sembra uscito da italici caseifici, da nebbie invernali dense come stracchini e dai grigiori dello smog.
Ma no, dai che non è vero, lo so che vi siete allenati con i raggi Uva, lo so che da voi i lettini dei centri d'abbronzatura sono più frequentati di quelli dello psicanalista (anche se a giudicare da come vanno le cose lassù, dovrebbe essere il contrario).
Ci divertiremo per l’ennesima volta a scoprire i loro occhi spalancati sulla natura africana, le mucose del naso che respirano roba vera, il passo e il gesticolare che si fa più tranquillo.
E a dirgli: “Siete in vacanza, e per giunta in Africa, rilassatevi!”
Avremo i turisti di primo pelo, che hanno paura degli scarafaggi in bagno ma amano i granchietti sulla sabbia, quelli che sanno già tutto e sono convinti che Vasco da Gama fosse un cantante rock e Naomi Campbell sia nativa di queste parti. Arriveranno i “turisti del sorriso”, quelli che si commuovono a vedere un bimbo che salta e ride, pur non possedendo nulla, ignorando che si tratta di un giovane acrobata e che la risata è uno spasmo della fame. Sbarcheranno i turisti fai da te, che prenderanno per buone tutte le storie che racconterà loro il primo beach-boy conosciuto sulla spiaggia. Al loro ritorno diranno che il Safari è un po’ un’ammazzata, perché in 15 su un matatu non si sta comodi, l’autista corre come un pazzo e il pranzo al sacco non valeva il panino Camogli dell’Autogrill di Roncobilaccio. Però avranno trovato un amico africano di cui si possono fidare come fosse un fratello.
Ah, vacanzieri italiani, come vi vogliamo bene. Quelli che si mettono il braccialetto all-inclusive e con il cavolo che ne vogliono sapere di uscire in un Paese che sicuramente è colluso con Al-Qaeda, dove i coccodrilli girano in centro senza guinzaglio e la gente è ostile come nel centro Katanga.
Ma anche quelli che appena vedono un italiano a piede libero lo assalgono di domande:
“Ma vivi qui? Ma sei felice? Che bell’idea hai avuto! Con 600 euro al mese posso avere una villa con giardino, piscina, servitù, fuoristrada, partner focoso?” Ma certo caro! Dai a me i primi seicento euro che ti faccio fumare una sigarettina buona buona, poi avrai quello che desideri. Certe visioni…e non ci sarà bisogno nemmeno del partner focoso!
Deliziosi turisti, che chiameranno la spiaggia di Mayungu “Sardegna 2” e Che Chale “Spiaggia dorata” (ma ho sentito anche Spiaggia dello Scialle…sarà perché tira vento?), faranno la foto davanti alla barriera corallina con i pescatori locali e gli insegneranno a gridare “Italia Uno!” Con il pollicione in primo piano. Ci sarà chi apostroferà i beach boys con i loro nomi di battesimo: Antonio, Giuseppe, Pasquale…o con i soprannomi che davano loro le mamme al villaggio da bambini: Toblerone, Mestolo l’Ottavo Nano, Katanzaro, Baggio, Ramazzotti. E giù a ridere.
Perché nonostante il Kenya abbia tanti problemi (per dirvene due o tre, recentemente il Governo si è intascato 36 milioni di euro dati dal Regno Unito per l’istruzione elementare obbligatoria e non si sa dove siano finiti (!), l’inflazione galoppa e i ricchi si arricchiscono, la siccità record mette in ginocchio pastori e agricoltori), a Malindi conviene sempre sorridere perché come si sa, “the show must go on”.
Sinceramente io vi aspetto, turisti…perché tengo famiglia. Ma soprattutto perché ogni volta che tornate, tra cento di quelli sopracitati, ce n’è sempre uno che ha voglia e tempo di gettare lo sguardo oltre, di “farsi un giro nella parte selvaggia”, di entrare in una scuola o nella nostra accademia di calcio che toglie i ragazzi dalla strada e non semplicemente in un orfanotrofio come fosse uno zoo equo-solidale a vedere questi animaletti umani con gli occhi grandi e rimpinzarli di caramelle.
Io vi aspetto, perché fino a quando anche uno solo di voi mi darà la soddisfazione di capire questo posto, il mio scrivere e farmi sentire da qui, avrà un senso.
Karibu wageni! Benvenuti turisti!

giovedì 7 luglio 2011

MUKOMBERO, IL GINGERONE DEL PIACERE KENIOTA


Ci mancava pure il viagra al ginger. Ora l'economia del Kenya può davvero avere un'erezione e il settore turistico nel suo ventaglio di proposte per le vacanze a tutto tondo (savana, mare, escursioni montane, laghi, deserti, sociale, etno, equo, bio e chi più ne ha più ne inventi) può aggiungere che qui si trova un rimedio naturale e già ricercatissimo contro l'impotenza maschile. Si tratta del "Mukombero", un ginger chiaro e pizzicorino che a nord del Paese, ma da qualche settimana anche a Nairobi e Mombasa, si vende a pochi scellini (centesimi di euro) la "dose" e che promette performance degne di un Rocco Siffredi equatoriale. Dietro alla solita possibile bio-bufala, da segnalare la soddisfazione dei rinoceronti, il cui corno per anni è stato definito afrodisiaco e ancora viene cercato da qualche idiota bracconiere assassino al soldo di aziende cinesi. Il ginger non ammazza nessuno, nel té è perfino piacevole, la moglie può grattugiarlo nelle vivande senza che il marito abbia a vergognarsi delle sue tristezze a letto e l'amante focoso può farne incetta (masticarlo completamente produce gli effetti migliori) e presentarsi al cospetto della partner canticchiando "donna donna lo sai chi c'è, è arrivato il Mukombero!". Semmai a stupire è il fatto che i primi ad impazzire per l'eccitante naturale siano stati gli stessi kenioti, di cui ignoravamo tali problemi. Con tutti quelli ancestrali che già hanno, lo stress di una veloce civilizzazione evidentemente ha aggiunto pure questa. Oltretutto, con i loro "carichi eccezionali", la morbidità è ancora più imbarazzante. Il venditore di mukombero Boz Romora, intervistato dall'agenzia Agiafro, ammette "Ne sto vendendo tantissimo, la domanda supera l'offerta ma i prezzi rimangono bassi (20-40 scellini). Anch'io lo consumo e posso garantirvi che se le mie performance sessuali continuano a questo ritmo, le mie due mogli non avranno bisogno di soddisfare le loro esigenze altrove". Attendiamo ora che i ricercatori della Pfizer (casa produttrice della pillolina azzurra) se ne escano con gli effetti collaterali del gingerone del piacere. Altrimenti, con buona pace delle multinazionali, ci daremo tutti alla coltivazione...immaginando un nuovo tipo di turismo di cui c'è già pronto lo slogan: "Il Kenya tira...eccome se tira!"

lunedì 4 luglio 2011

ADDIO TORRE PEDRERA (dedicata a Silvia, Misoado)


Addio Torre Pedrera
la prima volta non mi sembrasti vera
ma solo un'appendice da balera
della Romagna pensionata e vacanziera.
Così piatta e sconsolatamente austera
come una grigia anomalia della riviera
di una tristezza garbata e giornaliera
che in confronto Bellaria è Formentera.
Addio Torre Pedrera
l'aperitivo con due arachidi a mezzasera
l'alta marea ed il suo pesce di scogliera
l'hotel in perenne ricerca d'una cameriera.
Sei stata approdo di una libera carriera
poi timida goletta in mezzo alla bufera
rifugio e alcova della vita bandolera
di poche solide amicizie pur foriera.
Addio Torre Pedrera
di averti conosciuto sono quasi fiera
mi insegnasti l'umiltà di chi non spera
niente più della promessa di una sera
Vado, perché ho scelto di non aver bandiera
ogni patria è gabbia e un po' galera
ma io non nacqui bestia o prigioniera
è il mio destino esser libera e straniera.