domenica 27 ottobre 2013
LA FINE DI UNA GRANDE AVVENTURA
Potrebbe essere divertente avere un bambino da portare a zonzo
Che riempia poco a poco i miei pensieri
E io a riempire lui o lei con i miei sogni
Un modo per dire la vita non è stata tutta persa
Terrei quel bastardino lontano dalla scuola e gli farei io da insegnante / lo proteggerei dal veleno della gente
Ma la non contaminazione dell’isolamento potrebbe non essere la migliore idea / non è una gran cosa cercare di divinizzare se stessi
Inizio di una grande avventura
Perché fermarsi a uno, potrei averne dieci, la classica covata da tivù
Coltivare come una razza un piccolo esercito “liberal” nel bosco
Proprio come quei pazzi redneck che vedo al bar
Con la loro tribù di mutanti suinetti consanguinei con gli zoccoli
Insegnare loro come disinnescare una bomba, accendere un fuoco, suonare la chitarra / "E se trovi un cacciatore, sparagli nelle palle"
Mi piacerebbe tentare di essere più progressista di quanto avrei potuto / se ci avessi provato davvero
Inizio di una grande avventura
Agata Zena, Anita...un giorno vi racconterò chi era Lou Reed, perché a 12 anni ne andavo pazzo e balleremo insieme "Sweet Jane" e "Vicious".
sabato 5 ottobre 2013
IL SOGNO DI ASAD
Non riesce a pensare ad altro, non ha salutato Malik.
Dopo l’incendio la loro vita era cambiata, non abitavano più vicini, la famiglia di Malik si era trasferita in un’altra zona dello slum. Si erano salvati tutti, il padre di Malik era riuscito anche a caricarsi sulle spalle un sacco di vestiti e stoviglie prima che la casa crollasse.
Il padre di Asad invece non ce l’aveva fatta, schiacciato dal tetto di lamiera e da un palo che lo puntellava, si proponeva sempre di fissarlo meglio ma la sera arrivava stanco dopo aver camminato tutto il giorno con il peso sulla testa delle merci che trasportava da un punto all’altro della città, legna, pacchi, sacchi di patate. Prima o poi si sarebbe comprato un furgoncino, diceva sempre, e sarebbero diventati ricchi.
Asad si era voltato e aveva visto suo padre tra le fiamme con le braccia alzate nell’illusione di proteggersi dal tetto che gli crollava addosso. Si era sentito strattonare, sua madre lo trascinava via. Correvano, sentivano il caldo dietro di loro come il respiro di un animale feroce che li inseguisse, il fuoco non sarà più veloce del giaguaro, aveva pensato Asad. Correvano e nel fumo distingueva altre persone correre, ombre che apparivano e sparivano, a un certo punto aveva visto Malik con una delle sue sorelline in braccio. La bambina piangeva forte, a tratti Asad non li vedeva ma sentiva la bambina e capiva che Malik stava correndo poco distante da lui, poi il pianto si era affievolito, era diventato un verso come il belato di una pecora lontana, Malik aveva cambiato direzione.
Lo aveva incontrato dopo qualche mese, si erano abbracciati. “ Gioco a calcio”, gli aveva detto Malik, una morsa d’invidia aveva serrato stomaco e gola di Asad.
Avevano giocato insieme appena erano stati in grado di camminare, prima nello spiazzo polveroso davanti alle loro case, con una palla di stracci cucita dalla mamma di Asad, poi con un pallone vero avuto in regalo da un turista, si era sgonfiato presto, non sapevano come gonfiarlo ma lo usavano lo stesso, lo calciavano con forza sollevando solo polvere. Il pallone era finito in un angolo dietro la casa. Malik ne aveva rubato uno in città, in un negozio di italiani, un uomo lo aveva inseguito poi aveva lasciato perdere, Malik era veloce, non gli stava dietro nessuno.
Asad non correva come lui ma aveva un tiro preciso e se decideva che il pallone sarebbe passato sopra la testa di Malik per infilarsi nell’angolo della porta che avevano costruito con qualche bastone e un telo di plastica, ci riusciva, ci si poteva scommettere.
Anche il pallone rubato si era afflosciato presto, il padre di Malik lo aveva portato da un suo amico che gonfiava le gomme delle automobili, quando lo aveva riportato i due bambini avevano urlato di gioia ed erano andati a ripescare il vecchio pallone dietro la casa perché facesse gonfiare anche quello. Avrebbero avuto un pallone ciascuno.
Asad era tornato a cercare il suo, dopo l’incendio. Aveva visto il palo bruciato e la lamiera del tetto, li avevano spostati per togliere i resti di suo padre, glielo aveva raccontato sua madre, lei non lo aveva condotto con sé e lui si era arrabbiato. “ Voglio che ti ricordi di lui com’era” gli aveva spiegato lei. Era andato a cercare il pallone senza dirglielo, si era mosso cauto, trattenendo il respiro, nello spazio che fino a pochi giorni prima era la sua casa, i sensi in allerta pronti a riconoscere una percezione famigliare. C’era ancora odore di bruciato. La vista di Asad era impegnata a esaminare ogni dettaglio: un brandello di stoffa agganciato a un pezzo squarciato di lamiera, un cucchiaio annerito e deformato, la plastica bruciata delle buste in cui sua madre teneva le loro cose, troppe per riuscire a scegliere quale salvare, sua madre aveva trascinato lui e non si era preoccupata d’altro, se suo padre non fosse rimasto sotto il tetto avrebbe portato via la loro roba come aveva fatto il padre di Malik.
Il pallone era ridotto a un grumo, lo aveva riconosciuto per quel centimetro quadrato di plastica gialla che era stato risparmiato. Quando avevano deciso di tenerne uno ciascuno, ad Asad era toccato il pallone giallo, Malik aveva tenuto il pallone rubato nel negozio dell’italiano, era il suo trofeo ed era un pallone bianco e nero, come dev’essere un pallone da calcio.
“ Gioco in una squadra, perché non vieni anche tu?” gli aveva detto Malik.
Asad non aveva avuto il coraggio di raccontarlo a sua madre, era già deciso, sarebbero partiti, lei aveva lavorato mesi per pagare il camionista che li avrebbe portati in Etiopia da dove, con un altro camion, sarebbero andati in Libia. Avrebbero lavorato tutti e due, lei avrebbe pulito le case o avrebbe lavorato in un ristorante o in un mercato, diceva, Asad avrebbe potuto fare il lustrascarpe, tre, quattro mesi, poi sarebbero ripartiti con una nave, sarebbero andati in Italia. Lei spiegava e con la punta di un bastoncino disegnava un percorso sulla sabbia, dopo l’incendio avevano preso l’abitudine di andare sulla spiaggia ogni sera. Lei parlava sempre del viaggio, lui ascoltava in silenzio.
La sera prima della partenza avevano mangiato la pizza, lei l’aveva comprata dagli italiani, non l’avevano mai mangiata prima, la mangeremo sempre, diceva lei, senti com’è buona. Allora Asad le aveva detto di Malik, le aveva detto che giocava a calcio in una squadra, che mangiava tutti i giorni insieme ai suoi compagni, che aveva un allenatore e una maglia a due colori, rossa e blu. Gli avrebbero pagato gli studi, forse anche lui sarebbe andato in Italia per fare il calciatore o per frequentare l’università, così diceva Malik.
Asad, mentre mangiava la pizza, avrebbe voluto dire a sua madre “ restiamo qui” , avrebbe voluto chiederle di andare a parlare con la madre di Malik, erano amiche fino a pochi mesi prima, l’incendio aveva cambiato tutto, non si cercavano più. Avrebbe voluto andare anche lui nella squadra con la maglia rossa e blu, se avevano aiutato Malik avrebbero aiutato anche lui, era un giocatore meno veloce ma con un tiro più preciso.
Sua madre aveva ascoltato, poi gli aveva fatto una carezza.
“ Giocherai a calcio anche tu quando saremo in Italia. Te lo prometto” aveva detto.
Non riesce a pensare ad altro, non ha salutato Malik. Non c’è stato tempo, avrebbe voluto abbracciarlo e chiedergli di parlargli ancora della squadra, degli allenamenti e delle partite.
Avrebbe avuto più elementi per fantasticare. Per resistere al caldo, al freddo, alla puzza di sudore, di urina, di escrementi, per resistere ai crampi alle gambe e allo stomaco, durante il viaggio ha disegnato un immaginario campo da calcio, c’erano sempre lui e Malik con le maglie colorate, si allenavano, correvano, avevano perfino le scarpe come i professionisti. C’erano altri ragazzi e l’allenatore, alla fine dell’allenamento si giocava la partita, l’allenatore correva in mezzo a loro e aveva un fischietto, i vincitori ballavano e cantavano abbracciati, c’era acqua per tutti per dissetarsi e poi mangiavano tutti insieme e chi aveva perso si consolava. Lui e Malik giocavano sempre insieme, quando era sul camion che li portava in Libia aveva provato a immaginare una partita in cui giocavano contro, era sicuro che il suo tiro preciso sarebbe stato decisivo e avrebbe fatto vincere la sua squadra contro quella di Malik, lo avrebbe preso un po’ in giro ridendo ma, poi, aveva cambiato idea, era schiacciato contro il corpo di sua madre, dall’altro lato c’era un uomo corpulento, non riusciva quasi a muoversi e respirare, aveva caldo e sete, gli faceva male la gamba destra, lui di sinistro non valeva niente, stava talmente male che aveva cambiato tutto: Malik era nella sua stessa squadra e lo incitava, Asad, al momento giusto e con una palla buona, sarebbe riuscito a tirare anche se aveva male alla gamba.
A Bengasi lustrava le scarpe e gettava uno sguardo ai bambini che giocavano a pallone per strada. Nessuno era veloce come Malik, nessuno può eguagliare il passo di un ragazzo kenyota.
“Vorresti giocare a calcio? Ti sbagli, devi correre, tu sei un kenyota, appena arrivi in Europa devi andare da qualcuno che ti faccia correre, finisce che ti vediamo alle Olimpiadi “ gli diceva il datore di lavoro di sua madre, lei lavava i pavimenti del magazzino e Asad metteva a posto le scatole con ogni genere di merce, c’erano anche i palloni. Guai a te se ne rubi uno, gli aveva detto sua madre.
Si erano imbarcati di notte, del mare sentiva solo l’odore e il rumore, vedeva corpi, braccia, gambe, teste, schiene di uomini e donne, voci e lamenti, il pianto di un bambino piccolo. Quando l’acqua ha cominciato a scarseggiare e le labbra si sono screpolate, quando al mattino non riusciva quasi più ad aprire gli occhi perché anche gli occhi erano secchi come le labbra, all’ombra di una sciarpa larga e leggera che sua madre teneva sopra le loro teste Asad faceva incominciare la partita. Calcio d’inizio, lui si risparmiava perché non aveva le forze, era Malik a correre dietro al pallone, glielo avrebbe servito e lui avrebbe segnato. Non doveva stancarsi a inizio partita, glielo diceva anche l’allenatore, doveva lasciar fare ai compagni, a ciascuno il suo ruolo, lui era nato per segnare, l’importante era non perdere la posizione, tra lui e Malik sarebbe bastato uno sguardo.
“ Non ho salutato Malik”, finalmente lo dice a qualcuno. Lo racconta a una signora che lo ascolta, che è lì per ascoltarlo, gli ha detto. Asad si decide e racconta del viaggio sul camion, dei mesi in Libia, lui ci sarebbe anche rimasto ma sua madre contava i soldi tutte le sere, lei voleva andare in Italia. Racconta della nave e di quando chiamava sua madre e lei non rispondeva più e dell’uomo che lo teneva stretto mentre la buttavano in mare con la testa fasciata nella sciarpa bianca. Racconta dello sbarco e del medico che lo aveva curato. “Perché sei venuto fin qui ragazzino?” aveva chiesto tanto per attaccare discorso. “ Per giocare a calcio” aveva risposto. Asad racconta di Malik, il suo amico, della squadra di calcio, del pallone giallo bruciato.
“ Giocherai a calcio, te lo prometto” gli dice la signora e sembra una capace di mantenere una promessa. Finisce che se Malik diventa un calciatore e viene in Italia e anch’io sarò un calciatore, potremo giocare finalmente l’uno contro l’altro, pensa Asad stringendo la mano all’assistente sociale.
EMILIA MARASCO per "SOTTO UNA LANTERNA AFRICANA" di FREDDIE DEL CURATOLO E LENI FRAU
venerdì 4 ottobre 2013
LAMPEDUSA: CONTINUATE PURE A SFAMARE L'IGNORANZA (anche la vostra)
Vedendo via satellite le immagini della tragedia di Lampedusa, quella fila di pesci umani e di pesciolini inermi sulla banchisa di uno scoglio ormai straniero per chiunque, il pensiero è andato ai giovanotti, alle madri, ai bambini, agli anziani, ai padri di famiglia, alle adolescenti che ogni giorno mi sfilano accanto nel quartiere popolare in cui vivo a Malindi.
I miei vicini di casa: la mamma di Raphael, che non lavora e con due figli a carico (il piccolo Raphael, quindici mesi e asma da paraffina per fare luce in casa, e lo splendido Julius, sette anni e il muso accigliato di chi è pronto a ricevere una missione importante dall’uomo bianco), l’oste della tavernaccia degli operai con la moglie e gli innumerevoli figli, a cui almeno la zuppa e un po’ di polenta non manca mai. Loro accanto al sorridente, chiassoso popolo che affolla la piazza di Mijikenda, appena dietro l’angolo di casa nostra.
Mi sono venuti in mente i loro volti e le voci di tutti quegli italiani, anche amici e conoscenti, che in questi anni in cui mi sono dedicato ai ragazzini del quartiere, dei villaggi di Mnazi Mmoja e di Kaoyeni, della Central Primary School e dello slum di Kisumundogo, mi hanno detto: “ma cosa ti dedichi a fare questa gente che non ha riconoscenza, che sembra non voglia nemmeno essere aiutata, che vive alla giornata, che non ha un governo alle spalle che li supporta e protegge”. A una parente un tempo prossima che mi accusava di dedicarmi a loro per evitare i miei doveri famigliari. Da un po’ di tempo mi sono stancato di ripetere la stessa solfa “dobbiamo aiutarli qui, far crescere in loro la consapevolezza che vivono in un Paese splendido, in un Continente ricco e vario, pieno di contraddizioni e di ancestrali storture ma in cui, a differenza dell’occidente, è ancora possibile prendere in mano la propria vita e migliorarla radicalmente. L’educazione e la cultura sono strumenti essenziali per intraprendere questo cammino possibile.
In molti ancora oggi pensano che il mio stile di vita sia puro egoismo, che io lo faccia per me, per sentirmi a posto con la coscienza o cose del genere.
Bene, è arrivata l’ora di mandarvi tutti affanculo, ma di cuore. Voi forse non siete egoisti, ma con buona probabilità rincoglioniti, idioti e conniventi
Quando decisi nel 2007 di affiancarmi alla Onlus Karibuni, lo feci perché trovai molto sincero,seppure poco condivisibile, secondo le mie idee e la mia formazione, il discorso del suo presidente Gianfranco Ranieri. Mi disse di condividere la Bossi-Fini, di non essere pro-immigrati e che invece era ben contento di aiutare i kenioti in patria, affinché venissero create le premesse per farli stare bene a casa loro.
“Se tutti lo facessero nei paesi del terzo mondo – disse – non avremmo le situazioni disperate che abbiamo nel nostro Paese, da noi verrebbe solamente gente che vuole lavorare, che ha la cultura necessaria per capire e rispettare il nostro Paese e la nostra mentalità”.
Piano piano ho capito che con questo tipo di persone avrei potuto lavorare bene, condividere situazioni di solidarietà attiva con programmi mirati e intelligenti. L’aiuto una tantum e campato in aria dei “buonisti per caso” non serve quasi a nulla, e questi anni d’Africa me lo hanno confermato. Meglio un razionale, quasi cinico percorso sociale come quello di Karibuni.
Oggi il mio approccio è una via di mezzo, nel senso che la mia sensibilità non riesce a farmi astrarre da certe situazioni, ma la decisione di occuparmi particolarmente di educazione e di portare quanti più ragazzi possibile al diploma di scuola superiore è proprio mirato a questo: aiutarli qui, renderli consapevoli e indipendenti, sicuramente non li farà salire su quei barconi, dove si stipavano centinaia di eritrei e somali, gente ingenua, innocente senza la cultura necessaria per capire che qualcuno stava vendendo loro il paradiso e in realtà li consegnava all’inferno.
Vorrei vedere in futuro sempre meno corse al piatto di riso, alla solidarietà con gli sms ai porci dei programmi internazionali, le donazioni di chi ancora sta costruendo i pozzi per l’acqua dove tutto sarebbe già pronto per le irrigazioni, in un Paese che nel sottosuolo ha interi laghi. Gente che costruisce case nei campi profughi ben sapendo che lì dentro si alimenta il mercato delle armi necessario a mantenere intere comunità nella povertà che serve, nell’ignoranza necessaria.
Io continuo nel mio piccolissimo a crescere ragazzini che sicuramente non saliranno su quei barconi, e continuate pure a pensare che lo faccia per stare a posto con la coscienza. Voi invece, divoratori di merda mediatica, indignati del prime time e dell’ultima ora, condivisori di “sciagure evitabili”, sputasentenze nei piatti dove non avete né mangiato voi né tanto meno offerto da mangiare, voi che alzate il cellulare prima ancora della voce, che fate gli Erode del sociale mettendo due spiccioli in mano al primo che capita purché sia più sporco e malmesso di voi...fate almeno il piacere di rispettare non un minuto, ma una vita di silenzio e raccoglimento.
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