venerdì 18 dicembre 2009

ARTIGIANO DI PAROLE: TRE RECENSIONI PER TRE FRATELLI


Quando un fratello ha un figlio, specie se è il primo, è un giorno in cui la gioia ha la precedenza su tutto il resto. Ci vuole un po’ di tempo prima di metabolizzare e guardare tuo nipote con occhio critico, distaccato, imparziale. A volte non ci si riesce mai.
La stessa cosa è accaduta per il disco d’esordio di un fratellino che oltretutto è stato missato, prodotto, e per buona parte arrangiato e suonato da un fratellone. Mai potrò essere obbiettivo e lanciarmi in un singolo, neutrale giudizio.
Così meglio essere doppio, anzi triplo.
Perché in tre siamo.
Tre fratelli.

RECENSIONE PER PIERETTO

“L’ARTIGIANO INQUIETO SOSPESO TRA RABBIA E POESIA”

Quando pensi a un artigiano, pensi a uno di quei mestieri quasi dimenticati dall’uomo moderno.
Al mestiere, alla pazienza, all’arte al servizio della quotidiana lotta per il pane, all’umiltà, alla semplicità e alla sincerità della vendita al minuto, alla cura dei particolari, al rispetto delle tradizioni o dell’idea primordiale. Se un cantautore si definisce “Artigiano di parole”, lo farà con la presunzione di chi vuole chiamarsi fuori dalle elette schiere e staccarsi preventivamente le etichette su vestiti finto consunti? Oppure cavalcherà mode “vintage” recuperando suoni e stilemi dei decenni scorsi? O ancora, ci dirà qualcosa contro la mercificazione, la globalizzazione della canzone, sia pure quella d’autore?
Niente di tutto questo, “Artigiano di parole” è un esordio discografico puro e vivo come uno scalpello che incide sul legno, netto e arrabbiato come un martello che batte sul ferro. Morbido e avvolgente nei suoi momenti intimisti come mano che intaglia, ruvido e spietato nelle esplosioni rock a guisa di arnese da fabbro.
Puro e vivo, perché trasuda dell’energia dell’autore, il brianzolo Paolo Pieretto. Trent’anni, da una decina convinto che la musica sia la sua bottega, schietto e sofferto come chi ha fatto l’operaio per pagarsi la vita da cantautore, mica cazzate da biografie di X Factor. E allora ben vengano sette, otto anni per scrivere le canzoni (ma è solo l’arco temporale, spesso sono uscite di getto e “buona la prima”), ben vengano trentasei mesi perché queste diventino album. Perché di un artigiano si valuta l’oggetto finito, non il tempo impiegato o gli strumenti utilizzati.
Il viaggio incomincia con l’invito di “Sei veramente pronto?”, rockeggiante ballata generazionale che attraverso una domanda che ha già in sé la risposta (negativa) analizza l’indolenza dei giovani di oggi, l’incapacità di lottare per un ideale. Ed è una sorta di legenda del disco, perché Pieretto, con questa rara commistione tra candore e cinismo, tra rafano e miele, ci porta attraverso sentieri di campagna che rincorrono storie anche infantili, sogni germogliati di dentro e sublimati in ambizioni, stile di vita, aneliti di libertà, pensieri ricorrenti divenuti prese di posizione nette e violente. Accade in “Supermarket Italia”, brano datato ma mai fuori moda (purtroppo), in cui si scava nelle radici del razzismo italiano, chiamando in causa paure ancestrali e il mai risolto conflitto d’interessi tra peccato e assoluzione che regola la morale cattolica nel nostro Paese. Di questa insofferenza ci sono tracce anche in “A un metro dalle nuvole”, dove l’intimità e la poesia trovano improvvisi lampi di nichilismo e squarci anticlericali (“sotto le tombe dei papi e i loro ori/dio che possano bruciare con tutti quanti i loro dei/per altri mille giubilei”).
L’artigiano vive di inquietudini, senza queste il suo mestiere non si rivelerebbe con gusto e musicalità. Di questa serena e propositiva rassegnazione è fatta “Stanotte”, che invita a riappropriarsi almeno dei sogni, e di sentimenti genuini vive la politica, dell’impossibilità di non farsi domande la sospesa suite “I nostri piccoli passi” per tornare “A un metro dalle nuvole”, che meglio di ogni altro quadro esprime il pensiero dell’autore, con un verso che il più grande Artigiano di tutti, Léo Ferré avrebbe amato con un sorriso (“…gli anarchici sono come i miei capelli/sempre di meno sempre più ribelli/sarà che sono rimasti gli ultimi/ma mi sembrano i più belli/ma mi sembrano i più veri…”) . Oltre al divertimento di “Bambino disobbediente”, che sembra spostare leggermente il tiro ma svela anche il lato ironico di Pieretto, altrove coperto dallo spirito “contro”, ci sono anche episodi minori, forse ingenui o mai ritoccati per troppo amore (Luna Brigante). Ma per un artigiano le canzoni sono figli, e vanno cresciute nel rispetto della propria somiglianza. Guai a imbastardirle. In un esordio discografico si può perdonare qualche caduta di stile, qualche licenza grammaticale di troppo e un linguaggio non sempre omogeneo. L’importante è come Paolo porge le sue creazioni. Senza la supponenza che mostrano oggi molti di quei rari, auto referenziati “artigiani” che si ritengono fenomeni “di nicchia”, ma con la naturale schiettezza di chi racconta di sé e delle proprie sconfitte interiori, per raccontare quelle della gente comune e chiamare a sé, con l’immenso bisogno di accettazione e identificazione, chi condivide lo stesso suo amore per la vita. Di questo amore, profondo e senza limiti per la canzone e per chi a lui ha dato affetto incondizionato, Paolo ci fa partecipi e ci emoziona nella “ghost track” che da il titolo all’intero lavoro. Senza la presunzione di recensori seriali o primedonne della penna, privi della saggezza e della coscienza di un padre, ma avendo conosciuto l’artigiano per quello che è, possiamo dare per certo che mamma Gianna sarebbe stata fiera di questo album, almeno quanto lo era del grande cuore del suo piccolo Artigiano di Parole.


RECENSIONE PER CUFONE

“L’EQUILIBRIO E IL PIACERE DI UN ALBUM SENZA TEMPO… NE’ TEMPI”

Franco Cufone. Sound Engineer, musicista, arrangiatore e ora anche produttore. Mago degli editing, con decine di album all’attivo, ha missato tra gli altri Pitura Freska ed Elio e le storie tese, più un novero di artisti minori e di gruppi jazz e fusion, piuttosto che dance e post-punk. Così è perché Cufone si nutre di musica a 360 gradi e cerca di assorbire il buono da ogni genere e proposta. Finalmente con “Artigiano di Parole” questo versatile e imprescindibile “regista” della discografia, artista aggiunto dietro le quinte, si mette in mostra con un lavoro che, grazie anche a Paolo Pieretto, gli somiglia molto. Semplice ma non banale, discreto ma non dimesso, cantautorale ma non di nicchia, rock raffinato ma mai snob. Fondamentalmente un lavoro onesto, dal grande cuore e per nulla invadente, ma affatto anonimo. Marchio di fabbrica, l’editing all’inglese (ma poco pop) che tiene la voce poco più che allo stesso livello degli altri strumenti. Voce che esce nelle ballate lente e che, per chi è abituato alla musica italiana, affoga un po’ tra maree di chitarre e il pienone della sezione ritmica. Il lavoro di Cufone è comunque immenso e fondamentale per “Artigiano di parole”, disco che senza di lui non sarebbe mai uscito in questi termini e con tali risultati.
Peccato per la traccia iniziale, “Sei veramente pronto?” che è un’occasione non persa ma buttata un po’ lì. Il pezzo c’è, la vocalità di Pieretto è al massimo delle sue possibilità, ma l’arrangiamento non cresce e passi per il primo ritornello, nemmeno il secondo lo lancia. Sarebbe bastata una costruzione ritmica diversa, un fender rhodes o comunque un tappeto glorioso di tastiere. Oppure, diversamente, un’esplosione di metallo nelle chitarre. Il brano, che ha un forte potere emotivo, finisce come è iniziato e risulta un po’ piatto. Un’intuizione alla Carlo U. Rossi (l’arrangiatore degli archi di Viva la Vida dei Coldplay) non era sgradita. Il pelo nell’uovo, tuttavia, è proprio all’inizio, poi l’album si snoda tra episodi decisamente ben strutturati (“Echi di luna”, “I nostri piccoli passi”) e arrangiamenti compositi su cui si è osato ma, a mio avviso, non abbastanza (“Supermarket Italia”, “Stanotte”, dove il cantato rimane un po’ a se e quello “Stanotte U. Stanotte” provoca un ingenuo sorriso, sotto il tappetino rock così leggero). C’è da dire che Franco U. Cufone non ha scelto personalmente tutti i musicisti (però si è affidato al solito grande Jantoman per certi fronzoli) e non è colpa sua se a volte la sezione ritmica non è all’altezza della scrittura musicale (con tutto l’amore possibile per Davide U. Livio, contrabbassista reggae di chiara fame), così come non sempre la voce di Pieretto è all’altezza delle evocative atmosfere nelle suite dove c’è raffinatezza a pacchi.
In definitiva, comunque, un bel lavoro e soprattutto un album partorito nei tempi consoni a far rendere in maniera ottimale il buon Cufone l’Africano. Un lavoro finalmente anche suo e portato a termine con gioia, orgoglio e voglia di trasmettere qualcosa, anche solo con uno strumento al posto giusto o un “vestito” musicale particolare. In questo Cufone è un vero “Artigiano del suono”.



RECENSIONE PER FREDDIE

“UN ALBUM CHE ANNUVOLISCE DI SGUINCIO TRA I CHIARISCURI”


Partiamo dai testi, che poi è il mio mestiere. Innanzitutto le scarpe non si indossano, ma si calzano. Capisco la licenza poetica, capisco l’amore per i folk singer americani (per loro è normale dire “dress the shoes”, magari “blue” and “suede”, ma quelli avevano Toro Seduto, bellissima persona, per carità, duro e puro, quando da noi Dante era già antiquato) ma per uno che ritiene più importante la marca dei suoi stivali che quella della chitarra, pare il minimo che conosca anche il verbo che se li gestisce. Peccato, perché “I nostri piccoli passi” ha un’atmosfera dolce e coinvolgente, squarciata però da domande che non solo non fregano un cazzo a nessuno (“Quanto distano le stelle più vicine dalle scarpe che indosso”), ma quasi fanno rimpiangere Marzullo perché non sono capaci di darsi una risposta (“Non lo so”) però ci rassicurano con un calcolo quasi matematico (“Certamente molto più della somma dei passi che ogni uomo in una vita muoverà”). Grazie, Pieretto per queste grandi verità, ne avevamo proprio bisogno in tempi balordi come i nostri. Speriamo che in un secondo, in un terzo album tu ci possa regalare altre inconfutabili verità. Posso suggerire “Quanto costano le case a Fiumicino/dalla spiaggia fino al fosso/certamente molto più dei biglietti degli aerei che ogni uomo in una vita comprerà”. Magari il calcolo è anche più interessante…
Passiamo agli errori veri e propri, che nessuna licenza poetica e nemmeno una licenza di caccia per sparare fucilate alla grammatica italiana possono cancellare: il plurale di “chiaroscuro” è indiscutibilmente “chiaroscuri” e non “chiariscuri”. Per carità, la cultura e le basi della lingua italiana sono un optional, ormai. Da ignoranti si può fare carriera politica, si può diventare giornalisti, imprenditori, attori. Evidentemente anche cantautori. E ci sono anche ignoranti che mi emozionano. Però quel che non sopporto è la presunzione (di chi si crede migliore di me) di poter fare a meno delle regole della nostra lingua e poi pretende di criticare un testo di De Gregori o le sospensioni di Vasco. Prima dell’incisione dell’album, avevo già fatto notare questo strafalcione a Pieretto, ma lui col candore tipico di chi ha saldato parti meccaniche per sei ore e può permettersi di mandarti a quel paese, mi spiegò che a quei testi era affezionato e non li avrebbe cambiati per niente al mondo. Le sue canzoni nascono da sole e vengono fuori già con le parole. Già, le sue canzoni son come i fiori nascon da sole son come i sogni. Infatti esistono anche i brutti incubi e i fiori che odorano di merda.
Ma attenzione, pur facendosi beffe della grammatica italiana e sciorinando versi come un ungherese approdato a Lecce durante la seconda guerra mondiale, il metalmeccanico di parole ci regala addirittura un neologismo, che (ma guarda l’umiltà…) mette però tra virgolette. (Quand’ero sole “annuvolivo” per la paura di apparir sereno).
Ma che bella forma verbale! Peccato che esista già un verbo che esprime questo concetto, che è anche riflessivo e ci sta bene in metrica: rannuvolare. E non c’è bisogno di usare il pronome, quindi “Quand’ero sole rannuvolavo” sarebbe stato perfetto. Però, quant’è bello inventare parole, e poi la canzone è nata così, mentre cantava in uno spiazzo antistante la cooperativa di Cernusco Lombardone…quindi…d’altronde se Bob Dylan “down in the street beside the Duluth general store” avesse scritto “When i was sun, i inclouded myself” oggi saremmo tutti lì a cantarla, soffiando su sbilenche armoniche e aggiustandoci la tesa del panama.
Ah, che bello essere un “hobo” di Paese…
Per il resto, a parte il fatto che mi piacerebbe vedere una lacrima in salita (“Di notte ci inseguiamo come lacrime in discesa”) magari vincere il Gran Premio della Montagna, voglio tranquillizzare il ragazzo: è da qualche anno che un’idea non spaventa più nemmeno un bambino del Darfur e chiunque sarebbe pronto a dimostrare al Neil Young di Casatenovo che un pugno in pieno viso fa più male di qualsivoglia pensiero espresso, o anche con la moka. “Perché un’idea” è un testo che poteva apparire superato anche se scritto nel 1969 e magari Bennato, il Re dei luoghi comuni e idolo nostrano del tornitore di parole, ci avrebbe marciato benino fino a metà dei Settanta. (“Perché un’idea fa più paura di una guerra sanguinaria…”).
Va bene il disco d’esordio, va bene riesumare brani scritti schiacciando gli ultimi brufoli della pubertà, ma metterli su disco e pretendere di farli ascoltare agli amici…Per fortuna che tutto si appiana, che il cuore torna ai suoi battiti regolari quando appare una luna “di sguincio”. Ah, ecco! Allora sì che siamo in mezzo alla Poesia…una bella luna brianzola di sguincio ci mancava. (“Luna di sguincio, luna che dormi”). Peccato non ci sia anche una stella balenga, un ciful di vento, un caldo dell’ostia e un cielo del menga…
Sembra che dovremo attenderci un secondo disco, perché l’artigiano scrive, scrive, scrive…con eroica propensione alla strage d’innocenti. Allora non è vero che “gli eroi son tutti morti”. No, infatti non è vero. C’è n’è uno in circolazione a cui auguriamo una lunga e serena esistenza.
E’ la compagna del Pieretto, persona adorabile e saggia che deve sorbirsi probabilmente un giorno su due una nuova composizione sgrammaticata, zeppa di neologismi e di idee che vanno oltre i divieti delle leggi e i silenzi dei giornali. Fino a quando, perché come la pazienza anche l’eroismo ha un limite, lo prenderà per mano e gli sussurrerà soavemente: “Vieni Paolo, vestiamoci di stelle, andiamo ad ammirare una luna di sguincio, lasciamo un sasso ad ogni minimo passaggio e restiamo a guardare il cielo riflesso nei nostri occhi al cielo. Però, mi raccomando, lascia stare la chitarra e per una volta trombami, santo Iddio!”

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