venerdì 29 ottobre 2010

CIAO RINO, BUON SESSANTESIMO COMPLEANNO!


Chissà come si vestirebbe oggi Rino Gaetano. Cilindro e bastone sono evergreen che anche a sessant’anni farebbero la loro scena, d’altronde piacevano anche a Petrolini e Buscaglione, due idoli di gioventù del ragazzo di Calabria emigrato a Roma. Già, perché oggi il “fratello figlio unico” della canzone italiana festeggerebbe il suo sessantesimo compleanno. Se un maledetto frontale all’alba sulla Nomentana non se lo fosse portato via, ventinove anni fa, Rino sarebbe ancora lì a ridere di noi, di sé e degli altri e a raccontarci con poetica ironia quello che accadrà tra un paio di decenni. Già perché lui, la società attuale, l’ha già descritta e cantata negli anni Settanta. Vi sembrano versi anacronistici questi? “A te che odi i politici imbrillantinati, che minimizzano i loro reati, disposti a mandar tutto a puttana pur di salvarsi la dignità mondana” o “Beata è la guerra, chi la fa e chi la decanta, ma più beata ancora è la guerra quando è santa”.
E’ così lontana da noi la speculazione edilizia di “Fabbricando case” o l’indifferenza generale di “Nuntereggae più”? Rino forse sapeva di doverci lasciare presto, e ha immaginato per noi il mondo che sarebbe venuto. Graffiando e sorridendo, con uno sguardo agli ultimi ed uno ai poteri forti, guardandoli negli occhi. “Io scriverò sul mondo e sulle sue brutture”, prometteva, e questo ha fatto. Forse riusciremmo a immaginare i suoi vestiti, il ghigno agrodolce, lo sguardo oltre. Ma è alquanto azzardato tracciare un profilo di un ipotetico Gaetano sessantenne. Già negli ultimi mesi di vita aveva palesato una insofferenza per la discografia che lo etichettava come “giullare” sospeso tra ironia, spontaneità e satira di costume. La profonda onestà intellettuale non gli avrebbe fatto certo pubblicare dischi solo “per campare”, non sarebbe mai diventato un artista fotocopia di sé stesso, triste, deluso o sui generis come tanti suoi colleghi, per primo il caro amico Antonello Venditti da cui nel 1980 già prendeva le distanze. C’è chi lo vede “fustigatore”, una sorta di Beppe Grillo in musica, chi uomo di spettacolo alternativo alla Gaber del sud. Secondo l’amico di sempre, Bruno Franceschelli, Rino sarebbe tornato al suo primo amore: il teatro. Probabilmente ha ragione, chi meglio di lui ne conosceva le velleità artistiche e le tensioni umane. Con la società in continuo peggioramento, le canzoni non sarebbero bastate a contenere i suoi strali, i quesiti, gli urli di dolore e gli sberleffi. D’altronde aveva già previsto la P2, le lobby che mettevano d’accordo economia, politica, spettacolo, calcio e mondanità. Magari lo vedremmo girare i palatenda con Paolo Rossi, dividere il palco con Marco Travaglio o Sabina Guzzanti o chissà, starebbe lavorando a un grandioso musical sulla storia d’Italia...ma sono tutte supposizioni, soltanto parole forse inutili. Dettate solo dalla voglia di dire a Rino che, oggi più che mai, ci manca uno come lui che sappia farci ridere d’intelligenza senza prendersi troppo sul serio, che ci faccia guardare avanti senza paura e senza perdere di vista il presente. Quel che resta da fare è prendere un vecchio vinile (molto meglio di un’antologia remixata o di una fiction senza cuore) e mettersi a riascoltarlo. Se poi dovesse materializzarsi davanti a noi un signorino di una certa età, con bombetta e bastone, non avremmo altro da dirgli, se non “Ciao, Rino!”.

lunedì 25 ottobre 2010

I RAGAZZI DELLA SCUOLA CALCIO INCONTRANO GLI ORFANI DI "MAMA ANAKUJA"


Emozione e gioia per il secondo appuntamento organizzato da Malindikenya.net e Kenya Football Academy per fare incontrare le realtà giovanili di Malindi sostenute dai "mzungu" con la scuola calcio Karibuni-Genoa. Dopo la Hearts Children Home della settimana scorsa, sabato è stata la volta dell'orfanotrofio Mama Anakuja di Muyeye, gestito dalla mitica "mama" Liliana. I ragazzini di Mama Anakuja hanno passato una giornata insieme ai nostri piccoli calciatori, confrontandosi e assorbendo la filosofia della scuola calcio (educazione+disciplina come fondamenta per lo sport di gruppo), mentre i ragazzi del Genoa Youth ogni volta sono messi di fronte a chi come loro viene aiutato ma non ha la fortuna di avere i genitori. L'allenatore Ben Ouma prima e Freddie del Curatolo poi, hanno spiegato cosa unisce i progetti sociali di Malindi, parlando con il cuore. Dopodichè la sfida! I giovani di Muyeye hanno dato filo da torcere ai forti giovanissimi rossoblu, guidati dal capitano Eugene e dal bomber Janji. A differenza dei precedenti ospiti, che avevano perso 5-0, Mama Anakuja ha finito il primo tempo sul 1-1 per poi cedere nella seconda frazione di gioco, complice una gran punizione di Eugene e un contropiede di Janji (doppietta per lui). Nel ricordo della splendida giornata, alla quale hanno preso parte anche due "tifosi" rossoblu particolari (Geo e Donatella, liguri di Andora, sono genoani ma sostengono da anni Mama Anakuja) la più bella immagine è l'esultanza dei bambini più piccoli, arrivati da Muyeye a sostenere gli amici dell'orfanotrofio, che al gol del pareggio si sono rovesciati in campo esibendosi in festose capriole. Meraviglioso. I sabato pomeriggi sociali proseguiranno nelle prossime settimane. Uno spettacolo educativo e divertente che riempie l'anima di soddisfazione. Come diceva un grande: "Libertà è partecipazione".

mercoledì 20 ottobre 2010

FREDDIE BECCIONI: ROMA, L'OSTINATO ARCHITETTO E LA MAREMMA MAIALA


Per chi nella vita si può permettere di sudare per interposto imbecille, di viaggiare completamente spesato e di scaricare anche i vizi, grazie alla contabilità creativa, Roma può valere non solo una partita, ma anche un weekend lungo.
Infatti oltre al sottoscritto, ci puoi incontrare quasi tutti i parlamentari di questa Repubblica delle Papaye (altri direbbero “banane”, ma la differenza è sostanziale: le banane astringono, la papaya è lassativa).
Il vostro Beccioni, fin dal sabato pomeriggio in cui il patetico Baglioni implorava un uccellino di non andarsene affanculo, si è prodotto nell’esercizio di inutilità cosmica che lo ha portato ad assistere a Roma-Genoa.
Anticipo di poco valore, noiosa ed abulica sala d’attesa dell’incontro più importante della stagione: Genoa-Grosseto di Coppa Italia. Perché noi, quest’anno, alla Coppa Italia ci si tiene, eccheccazzo!
Sabato sera di merda, nel traffico della circonvallazione ostiense, nel grigio piscia dei porticati fascisti dove la vita vale un pugno in faccia a una rumena.
Per andare all’Olimpico il Caput Mundi si respira meno della cocaina nell’aria a piazza Argentina.
Solita mezza boccia di Dalwhinnie prima di sedere sugli spalti più lontano del mondo dal campo e poi, com’è andata lo sapete benissimo.
Bruciori di stomaco.
Gasptrite.
Della gara non parlo, d'altronde nel merito ci siete entrati fin troppo voi, cari amici.
Io, se riesco, preferisco entrare da qualche altra parte.
La carrellata dell’inutile prosegue in un’osteria di Testaccio (da Nando er Puzzone), tracannando un ordinario Tarquinia Rosso dei Monti della Tolfa, ideale per l’abbacchio allo scottadito, ma non per sciacquare via il ricordo di Palacio terzino. A Roma non si è mai mangiato male (bevuto sì), ma a fare il turista gastronomico de li mortacci tua, si perde sempre.
Come a fare i turisti del pallone all’Olimpico.
In compenso, nella Capitale, è talmente facile caricare una russa che mi ficco in un localino jazz e tento di portarmi a letto la cameriera, ciociara. Risultato: chiusura alle sei del mattino, lingua in bocca e invito ad andare sulla Nomentana a mangiare i maritozzi caldi da Alfio.
La cameriera però è simpatica, ama Rino Gaetano ed è figlia unica perché è convinta che Leo Messi non possa passare al Frosinone, squadra per cui fa il tifo.
Rino Gaetano era romanista e simpatizzava per il Genoa, la cameriera me lo conferma.
Solo una tifoseria nel mondo non lo sa. E canta le sue canzoni.
Le chiedo di Checco Moriero, ex frusinate e neo allenatore del Grosseto.
Dice che ha smesso.
“Anche lui?”
La riaccompagno a casa. Slinguazzata già più appassionata.
Se domani insisto, finisce che me la cede in prestito blindato.
Ogni tanto mi piacciono le avventure ordinarie.
Il 442 della conquista sessuale.
Risveglio pomeridiano con lingua felpata e molle come il passo di Kharja.
Di inutile, domenica, oltre all’affacciamento Papale, ci sarebbero talmente tante cose da fare che ho scelto la più gasperiniana di tutte.
Colosseo? Ma siamo matti? Banale e frequentato come il 4231, vogliamo farci riconoscere?
Fori Imperiali? Circo Massimo? Palatino? Come siete antichi, roba da catenaccio o al massimo da contropiede…noi innoviamo, ci eleviamo.
Su consiglio di Palma, la cameriera ciociara, ho scelto di andare al Museo Maxxi, un viaggio nell’architettura del secondo novecento.
Giovani ma non giovanissimi soldatini dell’arte al soldo di navigati capitani d’edilizia, finti rivoluzionari architettonici che si vendono e si arrendono al piano regolatore di Terni o Crotone.
Sì, mi piace! Intanto il Dalwinnie 16 anni va giù che è una goduria, guardando ‘sta robaccia postmoderna e ripensando alla partita del giorno prima, e non sento l’esigenza di fare come Ivan Graziani nella canzone Monnalisa, che entrava nottetempo nel Louvre per riportare in Italia la Gioconda ma finiva per tirare sganassoni al custode e massacrare l’opera di Leonardo con le unghie.
Proprio lì, davanti a una visione simil-Fuksas, penso che la reiterazione del Gasp non è più alto modernariato, ma necessità ostinata di lasciare un segno diverso, un’architettura unica, che possa passare alla storia breve e incolore del Terzo Millennio.
Fanculo all’architettura moderna a Roma. Lasciamo a Cesare quel che è di Cesare.
Il Museo Maxxi starà bene a Rovigo, a Brescia, a Latina. Ma nella Città Eterna è assurdo.
Un po’ come, nella culla del calcio, voler portare metodi applicabili solo da ignoti automi.
Come si può pensare di ridurre il potenziale emozionale di chi indossa la maglia rossoblu al Ferraris, a freddi schemi e catene tattiche? Ci credo che poi quando calcano campi lontani sono impauriti e spaesati.
Che bello non avere un cazzo da fare a Roma.
Mi sento ringiovanito, ho i vent’anni di Zuculini, e la stessa voglia di spaccare…se non il mondo almeno una persona! Invece divento premuroso e gentile, mi presento sotto casa di Palma e la porto fuori a cena nel mejo locale dei Parioli, poi mi porta lei in un postaccio al Fleming e si finisce che la infilo facilmente, come Borriello.
Lunedì sono già in ansia, la grande sfida incombe e parto prestissimo, verso le dieci del mattino, alla volta di Grosseto.
Devo misurare la loro voglia, quanto è sentita la sfida.
Ora di pranzo. Sono al Frantoio di Capalbio. Un luogo storico che se non ci siete stati sono onorevolmente cazzi vostri, ma dove lo trovate un ristorante-pub in piena maremma in cui al tavolo beccate un regista affermato, un buttero, un critico d’arte, un cantautore fallito, una velina, una contadina, un elettricista, un brigante pentito, una nobildonna fiorentina, un bagnino in pensione e Checco Moriero?
Porca miseria! Il proprietario interista Ado, un personaggio da neorealismo puro, mi ingozza di crostini, salamelle di cinghiale e pecorino al forno. Bevo un ottimo Caccia al Piano, cabernet di Bolgheri e chiedo alla velina se mercoledì vuol venire a Genova.
“A vedere il Grosseto?” chiede il buttero.
“Certo!” rispondo di scatto, evitando un rutto da cinghiale.
La contadina annuisce, anche il brigante pentito e il bagnino in pensione.
“Si fa la camionata! Tanto te tu c’hai il suvve!”
“Sì…ma io parto domani…”
“E che ci importa? Si va a vedere Genova!” sbraita la contadina.
Mi hanno fregato. Ma qui succede così, Maremma maiala.
Checco Moriero si schermisce…non pensava di trovare tanti ultras del Grosseto al Frantoio.
“Forza Grifone!” urla l’elettricista alzando il bicchiere.
“Forza Grifone!” ribadisco, e non capisco.
Già…anche il Grosseto, come noi e il Perugia, ha il Grifone come simbolo.
Non l’avevo mai notato.
Moriero agguanta la nobildonna fiorentina (ecco!), saluta ossequiosamente e se ne va.
“Checco! - Gli sfiato – facciamo l’impresa mercoledì?”
Il ricciolone si volta.
“Eh…magari…mi piacerebbe tornare a giocare al Meazza…”
Cazzo! La motivazione!
Fingo la ritirata al cesso e telefono alle mie conoscenze in società.
“Dite al Gasp che deve schierare una formazione decente, Moriero vuole qualificarsi”
“Non ti preoccupare – mi tranquillizzano – Sculli sarà titolare”
Sono calmissimo. Non hanno il Dalwhinnie, ma Ado mi porta sul tavolo una bottiglia di Caol Ila 18. Cavoli suoi.
La velina mi concede almeno la serata (un migliaio di euro compresi un paio di regalini in boutique di Orbetello) e cena alla spettacolare Osteria del Lupacante, le migliori zuppe di tutto l’Argentario.
Martedì pomeriggio, una nutrita spedizione maremmana alla conquista di Marassi, con lo sfigato che se li è caricati tutti in macchina e che li ospiterà in hotel a Nervi, che pensa ancora alla cameriera ciociara.
Cestino da viaggio: lonzetta di cinghiale, stracchino di Sorano, pecorino di Pienza, pane maremmano e Morellino di Scansano “Il Provveditore Riserva”.
Zuculini titolare, tutto il resto conta poco.
Come andrà, lo sapremo presto.
Il resto è architettura moderna nel Tempio, è il poco rispetto della storia, è l’ostinazione più cupa di fronte al fluire delle cose.
Altro che proclami, che ostentato ottimismo, il vero Genoa ad ottobre, il vero Genoa a novembre…il vero Genoa per fare cosa? Vivacchiare nella parte sinistra?
Quello per me è un Genoa finto, non è il vero Genoa.
Meglio la Maremma, che non ha fatto mai mistero di essere maiala.

martedì 12 ottobre 2010

UN MINUTO DI SILENZIO


Un minuto di silenzio per i soldati italiani che avevano deciso di guadagnarsi la pagnotta in un modo secondo loro giusto, virile e pieno di indennità e vantaggi che li avrebbe ripagati dei rischi e delle paure.
Un minuto per i morti sul lavoro che non sapevano fare altro e non avevano trovato da fare altro, a quelli che non sapevano che il loro lavoro era pericoloso, a quelli che non sapevano qual'era il loro lavoro, a quelli che ce li avevano mandati, che era per pochi giorni o che era da una vita.
Un minuto di silenzio per le vittime di stupri all'interno delle mura domestiche e nei garage, per i complici, i conniventi, gli innocui e gli innocenti.
Un minuto per chi è stato ammazzato due volte, la seconda da un'intervista, un reportage, una diretta televisiva.
Un minuto di silenzio per le mogli strangolate, le fidanzate uccise a colpi di martello, le madri assassinate col coltello, i padri freddati con un colpo di pistola, i figli a cui è stato negato un matrimonio che volevano solo loro.
Uno per chi è sfruttato dai suoi stessi fratelli e per chi fino all'ultimo credeva di avere un fratello, un parente, un concittadino.
Un minuto di silenzio per i cani investiti per la strada, per gli investitori massacrati, gli animali avvelenati e gli umani ammaestrati. Un minuto di silenzio per gli stranieri malmenati, le vittime di extracomunitari arrapati o ubriachi, per i territori occupati, gli innocenti criminalizzati, i criminali incensurati.
Un minuto di silenzio per i precari licenziati, i lavoratori bistrattati, i dipendenti presi per il culo perfino dai sindacati. Un minuto di silenzio per le vittime della malasanità, della malavita organizzata, delle malattie legalizzate, delle medicine prescritte e dei medici stressati. Un minuto di silenzio per i pensionati dimenticati, gli adolescenti suicidati, gli amanti depredati.
Per i banchi vuoti a scuola le bare senza nome e i volti avvolti da fredde lenzuola.
Un minuto di silenzio per chi subisce soprusi, corruzione, costrizione, pressione. Uno per le guerre di religione.
Per i ricattati morali, i minacciati virtuali, i perseguitati mondiali e i disgraziati reali.
Un minuto per chi è dato in pasto ai giornali, agli squali, o come perle ai maiali.
Un minuto di silenzio per chi muore solo e per chi ha vissuto solo fino a un attimo prima di morire.
Ogni giorno non basterebbe un giorno di silenzio e davanti al silenzio ci sentiremmo tutti disperatamente uguali.
Piccoli, spaventati, egoisti, urlanti esseri umani che aspettano solo il momento in cui qualcuno chiederà un minuto di silenzio anche per loro.
Ecco quello che vale la nostra vita: un minuto.

lunedì 11 ottobre 2010

I GRIFONCINI KENIOTI E IL LORO DERBY INFINITO


Il calcio, a volte, ti fa pensare che tra Africa e Liguria non ci siano poi queste grandi differenze. Anche a Malindi, ad esempio, esiste un derby, e anche qui la squadra avversaria dei Grifoncini kenioti è originaria di un quartiere della città, che si chiama Shela.
La compagine dei giovanissimi di Shela si chiama Myfem e, fino all'anno scorso, era la più quotata realtà giovanile della provincia.
Il primo derby, giocato quindici giorni fa, sembrava aver confermato questa leadership, la Myfem aveva battuto per 3-1 la Karibuni Genoa Malindi, che aveva alle spalle soltanto poche amichevoli e denunciava ancora problemi di adattamento dei ragazzi. Proprio come il Genoa dei più grandi in Italia, tanti volti nuovi che ancora si dovevano conoscere.
Dopo la salutare sconfitta contro il Gede imbottito di fuori quota, e due incoraggianti pareggi, il grande giorno della rivincita è arrivato: mister Ben Ouma ha caricato i ragazzi, all'allenamento è arrivato anche un tifoso genoano di Chiavari in vacanza, Mauro Fogola, con due bimbi che indossano le maglie di Rossi e Criscito.
Così il derby ha inizio: il capitano Eugene prende per mano la squadra e organizza il gioco, Janji è imprendibile sulla fascia (anche se a volte fa un po' troppo di testa sua) e Fahad Abdallah, il centravantino alto e robusto che già i compagni chiamano “Lucatoni”, si fa largo tra le maglie dei “cugini” della Myfem. La partita, comunque è in perfetto equilibrio fino a quando è proprio il capitano Eugene (un talentino con un futuro assicurato, almeno a livello continentale) a realizzare con un preciso diagonale, dopo sponda di Fahad e passaggio di Mwangemi. E' un calcio vero, che emoziona per la sua purezza, l'ingenuità, la voglia di inseguire un sogno che rotola insieme ad un pallone e che a volte si riesce ad avverare, effimero e illuminante come il sorriso di un bambino in Africa dopo un gol, o appagante e duraturo, come la vittoria della partita più difficile da queste parti, quella di una vita dignitosa appena sopra la soglia della povertà.

martedì 5 ottobre 2010

FREDDIE BECCIONI: ROSARIO, IL PONTETTO E LA SCOMPARSA DI PIERFLAVIO


La notizia della misteriosa scomparsa di Pierflavio ha colto tutti di sorpresa.
Tutti tranne me, che me ne vado allo stadio fischiettando, in sella al suo motorino.
Zia Esterina non è riuscita a stendere come si deve la pasta delle lasagne e quella rumenta di suo marito ha fatto un pesto di merda. Ero convinto che non gli importasse molto di quel figlio uscito storto come un torcetto biellese in una scatola di crumiri di Casale.
Da una settimana non da notizie di sé.
La fidanzata, con cui ormai si vedeva per interposto i-phone solo su Facebook, crede sia in un campo di addestramento militare del Movimento Cinque Stelle, l’amico brocker gode perché non gli ha chiesto indietro gli introvabili vinili di musica "prog" degli anni Settanta, la compagnia del pub irlandese giura che non è né al Matteotti di Rapallo né al O’Donaghy di Dublino.
Mi rimane solo il Pontetto.
Ci passo poco prima dell’inizio della partita, sperando di non essere riconosciuto dai miei detrattori. Lo faccio solo per fare un favore ai due vecchi che mi hanno sempre trattato come un figlio. Mio fratello è figlio unico.
Mi hanno chiesto quasi piangendo di indagare su dove potrebbe essere finito.
Qualche idea ce l’avrei. Un vecchio ragazzo mai cresciuto come lui, deve essere nascosto non troppo lontano da qui. Non è il tipo da lasciare la sua Zena, e non ha abbastanza fantasia per superare gli angusti confini della tv via satellite.
Sicuramente è deluso e amareggiato, come un mister qualsiasi dopo una sconfitta per 5-0, quando non può nemmeno appellarsi alla sfortuna, all’arbitro o alla gastroenterite di due titolari.
Mio cugino aveva avuto la prima botta a giugno con la conferma di Gasperson, poi la Tessera del Tifoso, il mancato trasferimento di Sculli. Infine la bestemmia di Berlusconi, l’altro giorno, deve averlo messo definitivamente kappaò.
C’è gente abbrutita al Pontetto, tra omoni che sembra ce la mettano tutta per non arrivare a fine mese, altri che “Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna” e ragazzotte che ridono sempre come se non sapessero di essere concittadine di Paolo Villaggio.
Si imbenzinano di birra alla spina da due lire e ruttano in faccia al Grifone sentenze sulla presidenza, sul Gaspensiero e sulla maggioranza dei tifosi rossoblu, che hanno solo il demerito di crederci. Alla fine anche i maschi, qui al Pontetto, hanno il sorriso stampato, come si volessero bene tra di loro. Tiro fuori la bottiglietta da mezzo litro di acqua minerale San Benedetto, che ho riempito di Dalwhinnie, e trinco senza pietà.
Mi arriva anche una canna di straforo. Darei nell’occhio se la rifiutassi.
Faccio un'espressione gaia tipo imbecille stralunato arrivato ieri dal Kenya.
Uno spinello, pensa te. L’ultimo me l’aveva offerto Morgan a un concerto in Abruzzo, quando cantava De Andrè alla maniera dei Marillion.
Cerco, origliando i discorsi dei pontificatori del Pontetto, di intuire qualcosa. Ci deve essere stata una migrazione, perché non manca solo Pierflavio, si dice che hanno dato forfait dopo decine di anni anche intellettuali zapatisti, emigranti del riso non cinese, ex punk-rocker calvi, storici della resistenza di Ponte Carrega e operosi topi di grifoteca.
La tessera del tifoso nella mano destra, “Noi genoani” nella sinistra, faccio il mio ingresso trionfale nella Nord.
E’ il primo anno che ci metto piede, ho sempre amato vedere le sue coreografie dai distinti o dalla tribuna succhiando una caramella, ma quest’anno mi sembra vivibile e meno coreografica. Daltronde siamo il Grifone, mica Nureyev... Che bellezza! Non sono obbligato a fare nessun coro, non ci sono occhiatacce nei miei confronti, ho rincontrato anche due miei compagni di liceo, che ai tempi tifavano Juventus.
Genoa-Bari sta per cominciare in una quasi-atmosfera: lo stadio è quasi gremito, la squadra in campo è quasi quella che vorrei, il terreno di gioco è quasi impraticabile, io sono quasi perso.
Respiro aria nuova e ancora erba di casa loro. Fischi a Ventura, ovazione al Gaspallecoperte.
L’hashish non fa un bell’effetto agli alcolizzati, nei primi venti minuti mi sembra di vedere un Genoa stranamente sbilanciato in avanti, pur subendo il gioco del Bari e lo trovo tecnicamente impossibile.
Finisco il Dalwhinnie ma sciaguratamente mi arriva un’altra zaffata di Pakistan in faccia.
Poi passiamo in vantaggio e cresce il mio stato confusionale, perché finalmente ora il Bari gioca in contropiede come se stesse vincendo lui, e questo lo trovo assolutamente incredibile! Ahaha, ma che succede? Mi diverto! Appoggio anche la mano sulla spalla del mio vicino che mi guarda come fossi Lele Mora. E non è nemmeno attraente come Fabrizio Corona!
Sono davvero fuori, ragazzi, disarmonico e scoordinato nei movimenti e nei pensieri, come un armadio a muro in un trullo. L’unico vantaggio è che solo ora (sarà la droga o la Nord?) comprendo appieno il gioco di Gasperini! L’effetto sballo però continua, infatti sono convinto di vedere che, dopo aver pareggiato ed essere rimasti noi in dieci uomini, il Bari arretri ancor di più il baricentro, roba da fumetti! Ahahaha come sto messo…noi in dieci senza un giocatore nel suo ruolo originario che mettiamo sotto il Bari in superiorità numerica, fisica e con la razionalità di chi gioca da sempre un 442 con le ali alte. Dio bonino, Mimmo mi sembra meglio di Dani Alves, Rafinha mi fa godere, Mesto sembra più allucinato di me, Chico pare stia giocando un’altra partita ma non la gioca male e soprattutto si vince quando finalmente si rompe Veloso ed entra Milanetto. La Nord esplode in pieno recupero, e io mi faccio anche due gocce di pipì sotto dall’entusiasmo! Che viaggio mi sono fatto! Il grande cuore del Genoa mi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, le magagne e le privazioni che non ho mai avuto. Ma meglio una dimenticanza preventiva che un ricordo fasullo, no? Io vivo nel presente, mica voglio fare il nostalgico, mica mi voglio perdere questo spettacolo per una questione di principio! Grifone sempre e comunque!
Mentre sfilo davanti al Little Club, mi si avvicina uno veramente losco, col giubbotto di pelle e i capelloni brizzolati annodati alla peggio.
Un cazzo di apache metropolitano.
“Tu sei Beccioni?”
Merda. Pensavo di averla scampata.
Questo non è il presente, è il passato prossimo che m’insegue.
Coraggio.
“Sì, caro, in persona…”
“Bella la canzone…e anche tu, come metafora non sei male”
Vaffanculo. Secondo me tu non hai mai assaggiato il Caroni.
Metafora sarà tua sorella e se me la porti qui, ti faccio vedere anche la metà dentro.
Sorriso di circostanza.
”Grazie fratello! Alla prossima…”
Fa per andarsene e ci provo.
“Ascolta…sai per caso che fine ha fatto mio cugino Pierflavio?”
Allunga il passo, come non avesse sentito.
Poi si gira e sorride.
Agita una mano.
“Rosaaarioooo!!!” mi urla con l’espressione dell’oritteropo nella stagione della riproduzione.
“Nooo, Pierflavioooo!” dico io.
“Ahahahaaaa!”
Ma che cazzo ti ridi, anacronistico!
La prossima volta bevo anch’io le birrette del cazzo del Pontetto, mi sparo tre cannoni uno in fila all’altro ed entro allo stadio convinto di assistere a Genoa-Montevarchi.
Sembra comunque che faccia bene allo spirito.
Altro che le camel, altro che ‘sto cazzo di whisky.
Magari è la vecchia remissività che si trasforma in nuova resistenza.
Che cazzo bisogna fare per inventarsi la propria felicità, domenica per domenica…
Fanculo!
Brindiamo alla vittoria del Grifone e allo Spirito!
Quello perduto di Pierflavio e quello allegro dell’amico del capellone.
Rosario.