venerdì 30 gennaio 2009

AGATA ZENA E IL REGALO DEL PRINCIPE

E poi c’è chi dice che la vita è uno schifo, che è tutta una presa in giro.
Sbagliato: semmai è il genere umano che sta rovinando tutto e così come cresce la netta distinzione tra ricchi e poveri, avidi e miti, così è più marcata la differenza tra chi vive ancora di passioni, del potere dei sentimenti e chi invece cavalca un realismo eccessivo che fa presto a degenerare in disfattismo, nichilismo e distacco da tutto ciò che è umano.
La vita, se la sai riconoscere, ti può addirittura svelare il suo significato, ed è capace di farlo in un giorno solo, nel ristretto giro di lancette di un orologio. Ma forse lo fa solo con chi ne ha accettato le regole e ne sa scernere il buono.
Gente bizzarra, inutile, anacronistica a questo mondo. Ma gente che, pur appartenendo a una minoranza (o proprio perché appartiene a una minoranza, ecco uno dei paradossi dell’umana condizione) non sarà mai sola.
Questa è la storia della vita che si rivela in un solo giorno e ti dice che fai bene ad amare, a vivere perennemente in bilico seguendo il battito pazzo del tuo cuore e le impennate fantastiche del tuo cervello e a non dileggiare mai il sogno. Gli incalliti detrattori del vivere di pulsioni e intenzioni,
di istanze e sogni, potranno non credere che più volte nella vita di un solo uomo ci siano simili intrecci, che i valori per cui vive lo vengano a cercare specialmente possono andare a braccetto anche tra di loro.
Non ho inciampato nell’esistenza di un altro uomo o donna, non ho diviso il destino con un personaggio famoso o con un parente stretto. Io da sempre ho legato gli avvenimenti più belli o più tragici della mia vita con il Genoa.
Non l’ho quasi mai fatto apposta.
E’ successo così.

Michela aspetta un figlio, come tutte le donne che hanno deciso di procreare, da quasi nove mesi.
Il termine è fissato per il 5 febbraio. E’ stata una gravidanza tranquilla e Michela è una donna ottimista e a suo modo coraggiosa. Ha deciso di partorire in Africa, benché nella sua breve vita abbia visto soltanto quella che l’uomo è solito chiamare “civiltà”.
La pancia di Michela dice che sarà una bimba, il grifone tatuato sulla schiena e quello tatuato nel cuore di suo marito, dicono che di secondo nome si chiamerà Zena.
In arabo significa “perfetta, raffinata”. Praticamente, la Superba. La mia Genova, quella dei vicoli stretti che ti allargano gli orizzonti guardando l'umana condizione dal basso, quella delle creuze che si lanciano verso il mare, quella di Faber e dei nostri fratelli.
Di primo nome sarà Agata.
Così ha scelto Michela.
Io e lei ci siamo sposati il 3 dicembre, un matrimonio tutto rossoblu in Africa. Tre giorni dopo El Principe ci fece il regalo di nozze che avevamo chiesto. Il gol vincente sotto la Nord nel derby.
Chissà cos’ha in mente il Destino, questa volta.
Ho parlato tanto con Agata, via pancia. Le ho chiesto gentilmente di non nascere di domenica pomeriggio.
L’uno c’è Genoa-Palermo, l’otto Roma-Genoa…
E’ tutto programmato: giovedì 29 gennaio, trasferimento da Malindi a Mombasa (120 km di strada africana) in albergo per attendere serenamente il momento.
Mercoledì 28 gennaio, turno infrasettimanale di campionato: Milan-Genoa.
Mercoledì 28 gennaio, sei del mattino: Agata Zena vuole esserci.
Mercoledì 28 gennaio. E’ colpa mia, non avevo detto ad Agata Zena del turno infrasettimanale.
Michela mi sveglia di soprassalto “Mi si sono rotte le acque”.
“Ss…sei sicura?”
La domanda è idiota. Il letto è un lago, lei è già una madre.
Sa cosa fare, come agire.
Prepara la borsa con le sue cose. Mi dice “chiama il gineocologo”.
Il ginecologo è indiano, è più che altro uno psicologo sta a Mombasa e gli attestati nel suo studio spiegano che è ostetrico e chirurgo. Sospetto che sia anche osteopata e logopedista, manicure e massoterapista nei giorni festivi.
Dall’alto della sua esperienza, scandisce che ci dovrebbe essere tempo a sufficienza per arrivare a Mombasa, da Malindi.
La sua capacità di convincimento e la visione della clinica Tawfiq di Malindi, che si chiama come la nostra macelleria di fiducia, sublimano nella certezza che bisogna sbrigarsi.
La strada da Malindi a Mombasa è meravigliosa.
Attraversa ritagli di foreste, distese di sisal, colline tempestate di baobab e annunci di savana dove la terra rossa d’argilla si confonde con il verde delle piante tropicali, dove la profondità del cielo costringe le nuvole a inventare sfondi credibili per tale meraviglia. E’ una strada splendida, se non la devi percorrere con l’ansia di dover tirare fuori tua figlia dal ventre materno nel mezzo dell’Africa equatoriale.
Le contrazioni cominciano in coincidenza con il sorpasso di un autoarticolato targato Tanzania che sputa pietre sull’asfalto già caldo del primo mattino. Siamo a metà strada e corro veloce. Non riesco a pensare a quel che sta succedendo, mi manca un caffè, forse. Mi concentro alla guida immaginando la formazione che Gasperini manderà in campo a San Siro. Nella partita che forse non riuscirò a vedere. Agata, solo Agata importa in questo momento.
Il Grifone gioca anche senza di me. Lo ha fatto tante volte: quando ebbi l’incidente d’auto e sprofondammo in C, quando non trovai la coincidenza da Nairobi a Liverpool e anche in qualche occasione felice.
Michela inspira profondamente e cerca conforto nel blu del cielo che ti attraversa, nell’aria densa che puoi toccare. Io mi vedo già estrarre la pupetta all’ombra di un baobab, circondato da bambini festanti e mamme che mi offrono latte di cocco per detergere Agata e sciacquare la sua mamma.
Invece arriviamo nel traffico islamico di Mombasa. Tieni duro Miky, ci siamo.
Infatti ci siamo. Dopo aver dribblato i mkokoteni, carretti carichi di patate o carbone trainati da uomini-buoi sudati e ingobbiti, che riescono con predisposizione così poco odierna anche a sorriderti, ci siamo. Dopo aver rischiato di tamponare i matatu, taxi collettivi inzuppati di persone, che inghiottono e sputano mamme colorate di parei, ragazzini vestiti come hip-hopper di Harlem e vecchi villani con galline in mano, ogni duecento metri, inventando le fermate in mezzo alla strada, sui marciapiedi e in testa coda senza preoccuparsi di chi sopraggiunge. Ci siamo.
Il Mombasa Hospital è una costruzione indiana tutta bianca sulla punta marina dell’isola di Mombasa, dove il canale di mare che la separa dalla terraferma incontra la spuma dell’oceano che s’infrange sulla barriera corallina. Qui puoi sentire l’influsso della luna, il lessico privato e il linguaggio popolare dell’Oceano incontrarsi e divenire un solo idioma. Solo un canto della Nord mi fa stare bene come il mare, ma la Nord purtroppo non canta tutti i giorni ininterrottamente.
La stanza di Miky è a pian terreno e sembra la suite di un hotel ai tropici.
A quindici metri c’è lo spettacolo blu più bello del mondo. Se non fai caso (e in Africa non devi farci caso) ai muri scrostati, alle piastrelle anni settanta, alla polvere sul davanzale e a un attendente che si toglie un topazio dal naso mentre saluta riverente al nostro passaggio in corridoio, sembra di stare in paradiso.
Pochi minuti dopo per Miky si aprono le porte dell’inferno del travaglio. Quattro ore di dolori che il cuore di un marito grande e grosso non può sopportare. Le danno un’enorme palla di gomma, come quelle che impazzavano vent’anni fa, sulle quali i bimbi diventavano canguri da rodeo.
Quando ha le contrazioni deve saltarci sopra e nei momenti di quiete tra una doglia e l’altra deve roteare come stesse rimestando un gran paiolo col sedere.
Il ginecologo ostetrico chirurgo psicologo parrucchiere di fiducia è un arcangelo indù. Infonde calma come un tè masala, predispone la sala parto e alle 13.30 Michela, esausta, entra.
Non c’è sala d’aspetto davanti alla sala parto, che in inglese si chiama “teatro”. Abbiamo dimenticato troppo in fretta quale incredibile spettacolo sia la vita, fin dal concepimento. Una rappresentazione che ha in se tutti gli stilemi della commedia e del dramma, di un’epica, grottesca, appassionante, a volte cruda e spietata opera le cui repliche quotidiane non dovrebbero mai essere uguali e men che meno noiose. Qui in Africa si vive alla giornata ed è un modo forse estremo di chiudere ogni rappresentazione con un finale che non preveda un seguito. Il prossimo episodio sarà una nuova alba, una nuova corsa, una nuova esperienza.
Mentre Michela entra in barella nel teatro per la “prima” di Agata Zena, penso che il suo primo respiro sarà puro e libero, sarà d’Africa e che farò di tutto perché lo rimanga più a lungo possibile, fino a quando lei amerà questo spettacolo. Ricerco emozioni così grandi, mi rivedo ragazzo, il primo amore, i concerti. Niente. Qualcosa di rossoblu mi ha fatto battere il cuore forte, ma non mi ha mai reso così vulnerabile, così nudo agli occhi della mia stessa vita.
Non c’è una sedia, la sala d’aspetto sono cinque gradini che portano in mare. Proprio così, una porta a vetri sempre aperta e davanti l’oceano.
E’ lì che me ne sto per più di mezzora. Quel che mi passa per la testa è un’altra storia, un romanzo intero, un’altra vita. Anzi, tre vite: la mia, quella di Agata e quella di sua madre.
Il mare da sempre sa come placarmi. Ho imparato a vivere presto senza i genitori, senza città, senza fedi politiche piantate nel petto come una fatica. Riesco a stare senza il mio stadio rosso e blu, senza gli spettacolo e le tournée, da poco senza le sigarette. Ma al mare non potrei mai rinunciare. E’ la mia cura, il mio psicofarmaco perfetto.
Mi dice tutto lui e quando non ce la fa più a raccontare e si placa, arriva lo psicologo travestito da chirurgo con l’aria da ostetrico. Ha lo sguardo da hostess della Kathai Pacific. Sulle prime penso mi voglia fare una messa in piega o lo smalto alle unghie dei piedi. In realtà mi ha guardato in faccia e ha capito che oggi nemmeno l’oceano indiano riesce a regolare i miei nervi con il lento ritmo della marea. “Non è ancora il momento, tra poco riproviamo” mi dice.
Michela sta soffrendo, lo sento.
Io e Acharya parliamo di politica, del Governo keniota, della corruzione, della bellezza dell’arcipelago di Lamu. Vorrei chiedergli se conosce il Genoa.
Poi un’ostetrica che sembra Ella Fitgerald lo chiama. Si riprova.
Agata nasce alle 14.24.
Me lo comunica un’infermiera dal sorriso di sole equatoriale, perpendicolare alle sue mani giunte che ringraziano il cielo. E’ stata dura, durissima. Michela e la bimba stanno bene.
Dopo dieci minuti qualcuno mi toglie dal mare. E’ un dottore indiano che pare faccia solo quello di mestiere, anche se giurerei di averlo visto dietro al bancone di un ferramenta a Nairobi.
Mi chiede se desidero vedere la neonata.
Lo desidero.
La prendo in braccio.
E’ bellissima. E’ mia, E’ nostra.
E’ Agata Zena.
Mi devo sedere. Sto per avere un mancamento. Le guardo la bocca, il naso, le orecchie, le minuscole dita una a una. Una forza che arriva dall’alto mi rimette in sesto.
Acharya dice che ci sono stati problemi, Michela è piena di punti, qui si usa ancora il forcipe quando il neonato non vuole uscire. Siamo negli anni Settanta, ma a me gli anni Settanta piacevano eccome! Agata ha ematomi in testa e la capoccia bislunga. Andrà a posto, ha detto il ginecologo dai mille mestieri.
Dopo un’ora possiamo abbracciarla entrambi.
Ora siamo una famiglia. Una bella famiglia davanti al mare d'Africa. Come ho sempre sognato.
Un’invisibile, misteriosa imbragatura di materiale non identificato, mi ha avvolto da quando ero seduto con in braccio Agata Zena. Ecco cos’era quella forza arrivata dall’alto. Mi ha donato un sorriso ebete.
Michela è sfinita, io ho l’imbragatura.
”Mi spiace non poter vedere la partita” dice con un filo di voce.
“Lo so, amore. E’ che oggi hai avuto parecchio da fare”
“Sì, sono molto stanca. Mandami i messaggini”.
Qualcuno ha prenotato l’albergo per me, grazie amici.
Cala la sera e lascio le mie donne che dormono, Agata è tornata nell’incubatrice.
Prendo la macchina e guido nel traffico islamico, il tramonto colora le moschee di luce irreale e per questo molto più sacra.
Ho soltanto la forza di fermarmi in un sushi pub vicino all’hotel, sulla riva dell’Oceano, a bere una birra.
Devo festeggiare, o no?
Chiedo al cameriere se alle 22.30 trasmettono il campionato italiano.
“Certo, mi dice, Milan-Genoa”. Prenoto un tavolo davanti alla televisione per le 22.
Il resto della serata, dopo una quarantina di telefonate intercontinentali, dovrebbe raccontarla uno dei tanti inglesi presenti nel pub. Musica industriale a volume altissimo e Rai Italia che trasmette la partita. Un uomo grasso che mangia sashimi con le mani e ha un sorriso ebete stampato in faccia. Qualcuno crede sia per il gol di Beckham. Ma il sorriso rimane anche quando nel secondo tempo il Genoa prende le redini dell’incontro, e sarebbe rimasto anche se il Milan ne avesse segnati altri nove. A cinque minuti dalla fine, però, quando si alza dallo sgabello, solleva il bicchiere dell’ennesima birra e urla: “AGATA ZENA! AGATA ZENA!”.
El Principe ha fatto il regalo anche a te.
Succede tutto in un giorno e nessun giorno si può cambiare con uno come questo. Agata Zena è nata a Mombasa il 28 gennaio 2009. Poche ore prima di una grande partita del Genoa.
Lei e i suoi genitori lo ricorderanno per tutta la vita.

giovedì 29 gennaio 2009

AMEDEO BIANCHI "AMEDEO"


Gli americani lo chiamano semplicemente “Amedeo” e si stupiscono che in Italia quel sublime sassofonista che incide i suoi album a Miami, sia noto ai più per le sue prestazioni professionali nell’ambito del pop e per l’annosa collaborazione con Antonello Venditti.
In realtà Amedeo Bianchi è il miglior sassofonista jazz-fusion del nostro paese e, a chi attende sempre con ansia l’ultima fatica dei celebrati Michael Brecker o Brandford Marsalis e guarda con snobismo e pregiudizi jazzisti di casa nostra (“perché la musica del diavolo arriva da là…”), consigliamo di ascoltare “Coming home”, il raffinato nuovo album di Amedeo che è un piccolo gioiello di composizione, arrangiamento ed esecuzione. Gli incorreggibili potranno sempre esclamare “toh, non sembra nemmeno un disco italiano!”, ma “Coming home” lo è eccome, perché accanto ai sax alto, soprano e tenore di Amedeo c’è la sezione ritmica di Piero e Beppe Gemelli, appaiono i fiati di Claudio Pascoli e sparring partner di qualità come Emanuele Ruffinengo, Luca Scarpa, Marco Brioschi, Toti Panzanelli e le coriste Lalla Francia e Alessandra Puglisi. “Something old, something new” e “Morning news” grooveggiano alla Bill Evans, di classe le aperture melodiche della title-track e “Dusty roads”, in “City drive” ecco guizzi cosmopoliti, in “You and me” il gusto per il volo in note di un’artista che ha esplorato il mondo della musica in tutte le sue latitudini e ha ancora voglia di “tornare a casa”. Amedeo, l’italiano.

Alfredo del Curatolo

mercoledì 28 gennaio 2009

IL GIORNO NON HA MEMORIA

Ci sono tante feste in Kenya: tutte le ricorrenze cristiane e parecchie di quelle musulmane, c'è il giorno dell'Indipendenza come in America, quello della Repubblica come in Italia, il compleanno del primo presidente come in Papuasia, il compleanno del secondo presidente come solo in Kenya.
Dopo essersi eletto presidente, in quello sventurato 30 dicembre di un anno fa, President Reserve Kibaki ha dichiarato il 31 dicembre festa nazionale, "post-election day". Felice intuizione, la gente ne ha approfittato per iniziare a massacrarsi gioiosamente. Ha ragione il nostro futuro premier Silvio, troppe feste fanno male.
Ma il "Giorno della Memoria" a Malindi è cosa sconosciuta. Qui si vive alla giornata, al massimo alla Memoria si può dedicare un'oretta, si potrebbero istituire i "Quarantacinque minuti della Memoria", tra mezzogiorno e un quarto e l'una. Poi tutti a mangiare.
"Lei sa cos'è il Memory Day?"
Lo chiedo al proprietario del chiosco di frutta e verdura.
"Vuoi della rucola? E' arrivata freschissima"
"Memory day?"
"No, non ne ho. Scrivimelo qui che provo ad ordinarlo".
Provo con l'ambulante delle schede telefoniche.
"Memory day?"
"No, ma ho la tariffa sul week-end, se vuoi"
Ottengo un'alzata di spalle e uno sguardo attonito anche dalla guardia giurata di una banca e dal fintovero masai che ha il banchetto di perline nel mezzo del centro commerciale.
L'Africa non ricorda la Shoah, qualcuno ha sentito parlare di Olocausto, ma è una cosa di tanto tempo fa "che riguardava i tedeschi e gli israeliani", mi dice un indiano kenyan-born che ha studiato a Mombasa.
La memoria a Malindi è cattiva e vicina, molto vicina.
E' la memoria del giorno, di ogni giorno fino ad oggi.
Qui in Kenya l'anno scorso si uccidevano in maniera barbara, venti per l'esattezza iol 28 gennaio 2008 e, sotto le mentite spoglie di "pulizia etnica" si scatena la guerra peggiore, quella dei poveri.
Niente docce o fosse collettive, niente camere a gas. Qui girano panga e coltelli, torce e benzina.
Il potere non muove un dito, questa è il vero "stato di pulizia".
Ci hanno provato con la democrazia, con il potere, con il capitalismo. No, non fa per l'Africa, per il Regno in cui da sempre il leone si batte con la gazzella, il leopardo con il facocero e non c'è battaglia. La democrazia ha insegnato al leone come battersi con il leopardo e, quel che è peggio, alla gazzella come uccidere il facocero.
Perchè? A che serve? A chi serve?
Dal Giorno della Memoria in poi siamo abituati a pensare che dietro ogni eccidio, ogni epurazione, ogni guerra, ci siano motivi economici, politici, sociali. In Vietnam per l'oppio e la Cina, in Iraq per il petrolio e il terrorismo, il Venezuela per la cocaina e Chavez (no, questo non ancora…).
In Kenya sembra assurdo ridurre tutto a due africani ricchi e ubriaconi che vogliono comandare, a due lobby tribali di potere che non riescono a fare inciuci come nel resto del mondo.
Eppure è così. D'altronde siamo nella Terra del "Non c'è un perché".
Ieri, "Giorno della Memoria", avremmo ricordato venti innocenti che a poche centinaia di chilometri da casa mia sono stati ammazzati. Siamo in pochi, quaggiù, a portare addosso il peso di così tanti giorni da vivi.

martedì 27 gennaio 2009

QUESITI PROVERBIALI - 6

6
Se l'abito non fa il monaco e non ci sono più le mezze stagioni, come cazzo ci si veste in primavera a Montecarlo?

domenica 25 gennaio 2009

PENSAVO DI LASCIARTI

Lo sai, lo sai, lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te

La tua mente viaggia molto e dal reale resti assente
Tra il passato e il tuo futuro spesso non ci trovo niente
Il tuo sguardo quando guizza è come un tonno in alto mare
se non ti avvicini bene uno squalo può sembrare

Ti stringo forte i polsi e sento il battito del cuore
ha un ritmo irregolare come dice il mio dottore
E gli occhi miei ti cadon sulle spalle e poi sul seno
Pensavo di lasciarti e sono qui che me la meno

Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te
Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te

Hai ordinato un pollo intero poi non hai più avuto fame
L’inquilino del mio piano avrà cibo per il cane
Dovrei dirti che domani ho una convention a Pavia
Perché so che se rimani non ti vedrò più andare via

Ti bacio sulla scapola che so ti fa piacere
Ti aggiro e disinnesco come fa un artificiere
Le mani mie asfaltano percorsi sul tuo corpo
Pensavo di lasciarti ma non posso darmi torto

Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te
Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te

Pensavo di lasciarti perché sono troppo onesto e troppo brutto
Pesavo quei silenzi arrivati troppo presto come segni del tuo lutto
Ma ora sento ancora che non posso rinunciare
A quel tuo modo di mentire mentre fai l’amore

Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te
Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te
Pensavo di lasciarti per questo son nervoso
Pensavo di lasciarti e finisce che ti sposo
Lo sai lo sai lo sai pensavo di lasciarti
Proprio te, proprio te proprio te

Singolo proposto per il Festival di Sanremo 2005

giovedì 22 gennaio 2009

DIO E IL BAR

Un bar di ragazze e coltelli
vive nel cuore di Dio
tra i desideri più belli.
Nel Dio primitivo e triviale
perseguito dalla giustizia
per la sua faccia animale
disposto all'omicidio,
al vizio, alla gazzarra
un Dio che sa suonare la chitarra.
Un bar soldatesco e meticcio
vive nel cuore di Dio
come un antico feticcio.
Ma il bar nella società attuale
è la metafora della vita
nella realtà industriale
reliquia mutilata
dei desideri dl Dio
motore ossesso e pulsante
dove vivo anch'io.
Un bar da città forsennata
Fatima di quartiere
dove l’infermo va a bere.
Un bar metropolita e intenso.
America da morire
perché la vita non ha senso.
Crepuscolo emaciato,
sfascio di ragazzini
pudichi, vuoti e afflitti
come tanti delitti.
Un bar elettronico e largo
vivo nel cuore mio
col Dio sconnesso in letargo.
Il Dio libertario e silente
che un giorno ritornerà
per castigare la mente
perdono per l'angoscia
e per la simmetria
pietà per averle ordinate
nell’anima mia.

(G.Alloisio)

mercoledì 21 gennaio 2009

"FUGHE DI CERVELLI": ANCHE MALINDI E' UNA META

In Italia, da diversi anni, si dibatte e ci si rammarica per le cosiddette “fughe di cervelli”, ovvero la dipartita dal Belpaese di studiosi, scienziati e ricercatori che preferiscono gli Stati Uniti, la Francia o la Germania alle nostre università e ai nostri centri, esasperati dai continui tagli alla ricerca e attratti da fondi e stipendi ben più interessanti. Bene, siamo in grado di dimostrare che anche Malindi ha saputo approfittare dell'esilio volontario di pezzi da novanta.
Ebbene sì, possiamo dire che Malindi è una delle mete predilette dei “cervelli in fuga”.
Fin troppo facile parlare di ricercatori in Africa. Dai tempi del dottor David Livingstone, qualsiasi viaggiatore, avventuriero o turista arrivato in questi luoghi non si è limitato ad esplorare, ma ha trasformato il suo viaggio in una ricerca introspettiva, nella ricerca di un mondo migliore o nella ricerca della felicità e della pace interiore (di cui nemmeno gli scienziati più acclamati hanno svelato il segreto). Anche sulla costa Keniota abbiamo fior di ricercatori. Ma non mancano nemmeno gli scienziati, gli studiosi e chi si cimenta con la vasta gamma di usanze e deviazioni in dotazione al genere umano, fino a sperimentarne di persona le dinamiche e i risultati.
Eccovi alcune tra le più note categorie di “cervelli” che hanno lasciato l'Italia per affinare o migliorare le proprie attitudini.

BIOLOGI


Capire la vita attraverso la Natura, comprendere il linguaggio degli animali e diventare uno di loro per capire nel profondo la vita all'Equatore e quella degli italiani che in questo luogo hanno saputo attingere dal Regno degli Animali: dalla generosità degli avvoltoi, dall'altruismo della iena, dalla dolcezza del ghepardo, dalla bontà dell'ippopotamo e dalla saggezza del facocero. Vivere in prima persona l'esistenza di una pianta, dormendo ubriachi nell'incavo di un baobab, bevendo il mnazi dalla palma. Solo qui un biologo moderno può trovare le risposte essenziali al rapporto tra uomo e natura e tra stato vegetale e stato neuro-vegetativo. Metodo empirico, si direbbe. Non immaginate quanti famosi biologi si celano sotto le mentite spoglie di residenti che conversano per ore con un Frangipane o muovono la testa al ritmo di un varano, quanti insigni luminari sembrano semplicemente dei vecchi fulminati che si muovono con la lentezza del ragno e simulano l'acutezza mentale della rana toro.

FISICI NUCLEARI

Non si tratta di ricercatori alle prime armi, spesso sono attempati studiosi che amano mettere in pratica anni di teorie mai applicate. Testoni nucleari alla ricerca di altri “fisici”, nel senso di figure esplosive, di vere e proprie bombe. Spesso trovano i fisici che gli interessano e cercano di unirsi a loro in improbabili fusioni a caldo, non senza problemi. Infatti spesso i fondi a loro destinati non sono sufficienti e ogni tanto il risultato degli esperimenti non è soddisfacente, a volte prendono certe testate nucleari contro il muro... Spesso la ricerca ricomincia da capo. C'è chi si è arreso e ha scelto fisici non proprio nucleari, lasciando i centri di ricerca (ve ne sono due molto noti, in centro, aperti solo di sera) per studioli a casa propria. Ma c'è anche chi della ricerca ha fatto un vero e proprio stile di vita, tanto che la considera più importante delle scoperte stesse.

PSICANALISTI

Arrivare in un luogo, perdipiù di un altro continente, e capire tutto dopo due giorni. Si tratta di cervelli superiori, persone dotate di una capacità di analisi e sintesi fuori dal comune (e in fatti sono ben lontani dal loro comune di origine). Arrivati a Malindi da poche ore, già stringono amicizia con personaggi locali che sono pronti (gratuitamente, s'intende...) a consigliare loro le migliori occasioni, l'albergo in cui soggiornare, le boutique meno care, i connazionali da frequentare, come cavarsi in fretta dagli impacci in cui loro stessi li hanno cacciati. Allo stesso modo dopo una settimana sono pronti ad acquistare terreni a prezzi che un italiano residente da vent'anni non spunterebbe nemmeno pregando in dialetto yemenita, troveranno la fidanzata che almeno venti connazionali sognavano di possedere e usciranno in un solo giorno dalla stazione di polizia, entrandoci però un paio di volte al mese. Dopo sole due settimane, gli psicanalisti in fuga potranno erudire loro stessi i neofiti di Malindi, sarà lo stesso rafiki locale con cui aveva stretto amicizia, a portarglieli...

INGEGNERI

Ci sono cervelli che vanno in fuga senza sapere di esserlo, poi arrivano in un luogo magico che, come per incanto, esalta le loro inaspettate potenzialità. E' il caso di camionisti, parrucchieri, giocatori d'azzardo, postini e fabbri che arrivati in Kenya hanno l'illuminazione: “ma io sono un costruttore edile!”. Altro che geometri o architetti, ma quali ingegneri! Questi cervelloni sono in grado di progettare, costruire e arredare la villa dei tuoi sogni in un batter d'occhio e in un buttar di soldi, e te la consegnano cancello in mano (le chiavi qui non si usano e le inferriate si staccano facilmente...). Menti italiane sopraffine qui trovano mani pronte a mettere in pratica le loro geniali intuizioni. Grazie a loro, gli studi sposano la pratica, i progetti diventano materia.
Incredibile, una sola persona riunisce in sè almeno quattro diverse specializzazioni: geometra, architetto, ingegnere e paraculo! Che cervelli!

Mimetizzati, incantati o in simbiosi con questo mondo, i “cervelli in fuga” dall'Italia costituiscono ormai una minoranza, sono inoffensivi e per loro stessa volontà (questa è la grandezza massima dello studioso) si sono trasformati in cavie per permettere a nuovi geni in arrivo di non fare i loro errori di percorso. Anche per questo noi ce li coccoliamo come si fa con una specie protetta, con esemplari rari che hanno scelto, alla fine, di fuggire addirittura dal loro stesso cervello.

martedì 20 gennaio 2009

lunedì 12 gennaio 2009

QUESITI PROVERBIALI - 4

4
Se can che abbaia non morde e chi va con lo zoppo impara a zoppicare, cane zoppo impara a mordere, se non abbaia?

domenica 11 gennaio 2009

NUBI FRAGILI

Ombre vaghe nell’infinito scuro
E novità di marzo

Tuono e lampo, scommesse contro Dio
Noi siamo nuvole nubi fragili
E siamo nuvole
Siamo in pochi ma hai provato mai a contarci?

Per chi tiene ancora le catene legate al reale
È vero che volare non è più di moda
che a pensare non ci si guadagna mai
Ma perché ricorrere agli estremi quando è così semplice innalzare
Sentimenti quotidiani come odio intolleranza dispiacere
Avvolgendoli nel bianco puro delle nuvole
Nubi fragili
Noi siamo nuvole nubi fragili

Specchio di un ibrido pensiero lanciato verso il cielo
sicuramente siamo lo sguardo che si chiude
lapidi del volo
siamo fermi quando giù tutto si muove
e gonfie vele in scia del vento
per chi osserva da sempre immobile nel tempo
siamo il filtro il gas il bianco il segreto denso
i disegni di un momento
lo spazio chiuso dallo spazio stesso
siamo l’anima che si guarda dentro
noi siamo nuvole
nubi fragili

venerdì 9 gennaio 2009

QUESITI PROVERBIALI - 3

3
Se chi dorme non piglia pesci e i sogni son desideri, il pescatore desidera dormire?

lunedì 5 gennaio 2009

domenica 4 gennaio 2009

RECENSIONE: AMPARANOIA "ENCHILAO"


A vederla dal vivo, Amparo Sanchez sembra la copia Sivigliana di Ani Di Franco e invece è una Manu Chao al femminile. Arriva il disco della maturità per la ragazza e il suo gruppo Amparanoia, partito anni fa dalla salsa e dal reggae per approdare attraverso il bel secondo album “Feras” all’hip-hop e al son cubano e giungere infine alla sublimazione con un disco che è fatto soprattutto di canzoni latino-occitane (e non solo di espedienti e ammicchi come il Chao più recente).
Testi eccellenti e musica languida della ragazza spagnola con origini messicane. Si sente l’ispirazione proletaria di gruppi d’oltreoceano come i Los De Abajo, sparisce d’incanto ogni tentazione ballerina al sapore di funky e ska e spunta, tra l’esperanto mediterraneo, anche una canzone in simil-italiano. Ora Amparo gioca a fare la cantautrice ispirata e il piacevole risultato si chiama “Enchilao”. Si parte con “Dolor, dolor” che fa il verso alla canzone popolare ispanica per poi appoggiarsi su accordi morbidi e sfuggire a richiami banali. Ricalca gli stessi temi “Si fuera”, mentre già con “Dile” la chitarrista e autrice guarda al Maghreb e ai ghirigori flamenchi, amore e impegno civile si mescolano in testi ora sofferti e malinconici, ora improvvisamente gioiosi e liberatori. Il reggae degli esordi fa capolino in “Camaleon”, ma è un cupo richiamo al minimalismo del cantore clandestino, (la contaminazione è nella “part two” e nel dub “Ragga3mil”), evocato soprattutto nella title-track. L’interpretazione di Amparo è lucida e non concede nulla alle macchiette conosciute, non un birignao, non una furberia mutuata dal più celebre menestrello di Barcellona. Spunta una tromba nella rude “Iluminando”, melodie d’altri tempi (“Don’t leave me now” è soave con il chitarrino vintage, “Dos Gardenias” è una cover ispirata e rumbera) e due concessioni turistiche: un balcanismo in levare (“Balkan postal) alla Bregovic e un trip-hop alla maniera di Meg dei 99 Posse cantato in un improbabile italiano (sincero, pericolosso, sinestra…). Se non proprio Siviglia, meglio l’America Latina, Amparo.

Alfredo del Curatolo

sabato 3 gennaio 2009

QUESITI PROVERBIALI 1

Benvenuti alla rubrica: "Quesiti proverbiali".
Il preoccupante incremento dell'utilizzo di luoghi comuni nel mondo, ci suggerisce di trattare anche i proverbi come fossero equazioni matematiche. Che trovare risposta alle incognite generate possa essere una soluzione per risolvere i problemi dell'era moderna?

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Se l'erba del vicino è sempre più verde e non si può far di tutta l'erba un fascio, il mio vicino è un verde o un fascista?