4 novembre 2009 alle ore 18,30
Sala del Munizioniere, Palazzo Ducale Genova
Incontro spettacolo con il pubblico
“GENOA CLUB MALINDI” Di Freddie del Curatolo
UN LIBRO BENEFICO PER KARIBUNI ONLUS E UN PROGETTO CON IL GENOA CFC
a cura di Liberodiscrivere®
Intervengono Giorgio Cimbrico, Claudio Onofri, Freddie del Curatolo.
Un libro e un’iniziativa benefica che uniscono non solo idealmente, ma in maniera concreta, il “mal d’Africa” con il “mal di Genoa” e la più antica società calcistica italiana con una Onlus che opera in Kenya.
I proventi del libro edito Antonello Cassan editore di “Liberodiscrivere® ”, infatti, andranno a finanziare il progetto di una scuola calcio ideato dalla Onlus Karibuni di Como in collaborazione con il Genoa Cricket & Football Club in favore dei ragazzi del Distretto di Malindi, in Kenya che legherà a doppio filo la società e i tifosi rossoblu alla realtà in cui opera Karibuni e in cui l’autore del libro Freddie del Curatolo vive da anni.
Freddie del Curatolo
GENOA CLUB MALINDI
Cronaca di una stagione indimenticabile tra Africa ed Europa
La squadra più antica d’Italia che torna nell’Olimpo del calcio, un manipolo di tifosi che la seguono con ansia ed entusiasmo dall’Africa, i loro amici kenioti che guardando le partite in tv ne sono conquistati.
Genoa Club Malindi non è soltanto la storia di una passione calcistica, ma anche uno spaccato della vita dei nostri connazionali nel Continente Nero, perché il “mal d’Africa” a volte ricorda la fede incrollabile in un team sportivo, specialmente se si tratta del Genoa, culla della civiltà pallonara così come l’Africa è culla dell’umanità.
Dalle cronache delle partite, vissute via satellite dal Genoa Club Malindi, nella stagione in cui i rossoblu tornano in Europa, la propensione all’avventura e alla libertà, il fatalismo e l’ingenuità del popolo keniota si mescolano con il senso pratico, l’umanità, l’incanto e la voglia di sognare degli italiani che hanno scelto di vivere sulle rive dell’Oceano Indiano.
Scritto da un giornalista, grande tifoso genoano che da qualche anno è tornato a risiedere in Kenya, e basato su una storia vera, Genoa Club Malindi è l’intreccio di due mondi, due stati d’animo, due magie che hanno molti più aspetti in comune di quanto a prima vista possa apparire: il “mal d’Africa” e il “mal di Genoa”.
(dalla prefazione)
Mal d’Africa e Mal di Genoa.
Chi ne è stato colpito non potrà mai fare a meno di veder correre la sua stessa esistenza su binari paralleli, di considerare le tappe fondamentali del suo percorso terreno senza esplorare quella parte della sua anima che chiede di essere soddisfatta in un unico modo, con l’appartenenza.
Essere genoano, appartenere all’Africa.
Sensazioni simili, battiti del cuore come zoccoli di animali gemelli che galoppano selvaggi in una savana di emozioni meravigliose.
L’autore: Freddie del Curatolo, giornalista professionista e scrittore, ha lavorato nelle redazioni dei quotidiani Il Corriere e La Provincia, ha collaborato e collabora con riviste e siti internet, ha pubblicato saggi musicali (tra cui “Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano”, Selene Edizioni e “Vasco Rossi, il Provoc(a)utore”, Edizioni Bevivino) e il libro “Malindi, Italia – guida semiseria all’ultima colonia italiana d’Africa”, Edizioni Liberodiscrivere. Come cantautore nel 2004 ha dato alle stampe l’album “Nel regno degli Animali” che ha meritato il Premio Ivan Graziani-Pigro di Teramo, giungendo in finale al Festival di Mantova 2005 e classificandosi tra le dieci migliori opere prime al Premio Tenco di Sanremo.
Ha vissuto in Kenya dal 1990 al 1997 e vi ha fatto ritorno nel 2005.
Ama l’Africa ma appena può fa un salto a Genova.
sabato 24 ottobre 2009
martedì 20 ottobre 2009
FREDDIE SU "VOGLIOVIVERECOSI.COM"
C’è una frase che non dimenticherò mai e che ha dato un senso a molte mie scelte di vita.
Quando l’ascoltai per la prima volta, all’ombra di un mango gigantesco che proteggeva dal caldo equatoriale, mi suonò a guisa di una sentenza, come un precetto che attendeva soltanto la mia saggia accettazione.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Il Capitano mi porse quella frase come fosse un vassoio di ostriche fresche o una bevanda al tamarindo. Gli era uscita con la naturale dolcezza di uno dei tanti frutti meravigliosi della terra in cui mi trovavo per la prima volta, il Kenya.
Il Capitano aveva lasciato la carriera in Marina per approdare in riva all’oceano indiano. Una scelta di vita, aveva aperto una gelateria a Malindi. A quei tempi a Malindi si formava una comunità di italiani che per motivi disparati avevano deciso di cambiare esistenza e abitudini, per non dire identità.
Non era il mio caso. Avevo diciannove anni e mi ero preso il cosiddetto “anno sabbatico”.
In effetti covavo grandi progetti, in vista del mio ritorno in Italia: l’università, il praticantato giornalistico, suonare in giro con una rock band…la vita mi attendeva, il mondo occidentale con le sue lusinghe e solide certezze era la mia bibbia.
Eppure l’Africa mi stregò.
Frugò nella mia anima cercando gli anfratti più puri, riconoscendo la mia voglia di libertà, di avventura e di sensazioni inedite. Portò il mio sguardo all’altezza sconveniente ma reale dell’umana miseria e il mio anno sabbatico, senza quasi che me ne accorgessi… diventarono sette.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Infatti dopo sette stagioni ero un africano fatto e finito. Parlavo il kiswahili, vivevo di turismo gestendo un ristorantino a Malindi ma ero integrato a meraviglia con la popolazione locale. Non si diventa milionari in Africa, se la si ama. Ma ci si sente immensamente ricchi dentro.
Chissà, forse per l’innato bisogno di divulgare che ha lo scrittore, forse per dimostrare a me stesso che anche i progetti di un tempo, se trasformati in sogni e liberati dal peso di obblighi, promesse, aspettative dei genitori, facevano parte dei desideri da avverare, decisi che era ora di tornare.
La voce del Capitano, come un biglietto di viaggio, era valida anche per il percorso inverso.
Così ecco un africano a Milano. Con i suoi ritmi lenti, la sua filosofia agli antipodi rispetto ai valori della maggior parte delle personee alle soglie del Terzo Millennio. Eccolo che non riesce ad attraversare la strada prima che il semaforo diventi rosso, che s’incanta ad osservare individui grigi che corrono, si lamentano, si fanno la guerra. Tutta gente che vorrebbe scappare perché le cose vanno male.
Io invece ho qualcosa da fare…devo proseguire la mia carriera da giornalista, devo pubblicare libri, voglio rimettere in piedi una rock band. Anche se il mal d’Africa è aritmia nel cuore, raschia in gola come le sigarette che ho ripreso a fumare, colora i miei sogni notturni.
Resisto perché ho un obiettivo. E appena posso, mi faccio una vacanza in Kenya.
E’ il 1998. Dopo qualche anno supero l’esame di stato a Roma e divento giornalista professionista. Lavoro in una redazione sul lago di Como. Pubblico saggi e libri musicali. Il primo, il più vissuto, è su Rino Gaetano. Lui aveva scritto “Metà Africa, Metà Europa” in cui cantava “Africa, ma per te che lavori e non ridi / per chi come te più non gioca / questa terra è ancora Europa”.
Nel 2004 esce il mio album d’esordio “Nel regno degli animali” con cui vinco alcuni premi e arrivo in finale al Festival di Mantova e tra le migliori opere prime al Premio Tenco di Sanremo.
Una carriera da scrittore lanciata, un lavoro sicuro da redattore, la soddisfazione del percorso parallelo da cantautore con un secondo album in gestazione. Un grande amore lacustre e una passione per Genova e il mare di Liguria.
Va tutto bene.
E’ il momento.
Nel luglio del 2005, con la compagna Miky, lascio il lavoro, sciolgo la band, deludo il produttore discografico, prometto di rispettare a distanza i contratti editoriali, e parto.
Mi aspetta un altro ristorantino in riva all’oceano. Ad attendermi è soprattutto l’Africa.
Forse è l’ennesima sfida, forse il senso della mia vita. Ma non è solo questo.
Cosa mi ha spinto a tornare a Malindi?
Come scrivo nel libro dedicato al Mal d’Africa:
Immaginate un luogo in cui il cielo non vi sovrasta, vi attraversa, l’aria non si respira, si assapora. Il tempo scorre, non corre e il sistema nervoso si sistema, non si innervosisce. Un luogo in cui la gente non vi incrocia, vi saluta. Dove tutto è vero, anche le cose spiacevoli, perché tutto è vita! …
… Mal d’Africa è emozionarsi davanti a un tramonto breve sapendo che il giorno dopo, comunque andrà, ce ne sarà uno apparentemente identico ma dalle sfumature inedite. Imparare che non è vero che se non si desidera tutto non si otterrà nulla, che accontentarsi non è sempre una sconfitta e che vivere alla giornata è un buon metodo per aggiornare l’esistenza. Capire la propria diversità e accettare quella degli altri, in un luogo dove nemmeno quel visionario di Gesù avrebbe potuto affermare che gli uomini sono tutti uguali. Mal d’Africa è vivere in sintonia con le fasi lunari, con i fusi locali, in serenità con il ciclo vitale e in equilibrio su un ciclo cinese.
Mal d’Africa è capire di non essere capiti e farsene una ragione, è annoiare la noia, impigrire
la pigrizia, rincoglionire l’intelligenza e assoggettarla ai propri ritmi, imprigionare il pensiero e liberarlo con una cauzione eterna che sarà il cuore a pagare, in comode rate stagionali.
Mal d’Africa è un silenzio pagano, un ruggito religioso, uno stato d’arimo.
Il Mal d’Africa, se è quello vero, è un bene incurabile!
Lo scorso gennaio, Michela ha dato alla luce Agata Zena, la nostra primogenita.
Io continuo a pubblicare libri e dal ristorantino sono tornato al mio lavoro. Sono Ufficio Stampa per l’Associazione Turistica di Malindi e Watamu e gestisco un portale di news e informazioni per chi vuole scoprire l’Africa in vacanza e per chi sogna di lasciare tutto e trasferirsi a Malindi.
A patto, però, che le cose non vadano male…
(scritto per www.voglioviverecosi.com
Quando l’ascoltai per la prima volta, all’ombra di un mango gigantesco che proteggeva dal caldo equatoriale, mi suonò a guisa di una sentenza, come un precetto che attendeva soltanto la mia saggia accettazione.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Il Capitano mi porse quella frase come fosse un vassoio di ostriche fresche o una bevanda al tamarindo. Gli era uscita con la naturale dolcezza di uno dei tanti frutti meravigliosi della terra in cui mi trovavo per la prima volta, il Kenya.
Il Capitano aveva lasciato la carriera in Marina per approdare in riva all’oceano indiano. Una scelta di vita, aveva aperto una gelateria a Malindi. A quei tempi a Malindi si formava una comunità di italiani che per motivi disparati avevano deciso di cambiare esistenza e abitudini, per non dire identità.
Non era il mio caso. Avevo diciannove anni e mi ero preso il cosiddetto “anno sabbatico”.
In effetti covavo grandi progetti, in vista del mio ritorno in Italia: l’università, il praticantato giornalistico, suonare in giro con una rock band…la vita mi attendeva, il mondo occidentale con le sue lusinghe e solide certezze era la mia bibbia.
Eppure l’Africa mi stregò.
Frugò nella mia anima cercando gli anfratti più puri, riconoscendo la mia voglia di libertà, di avventura e di sensazioni inedite. Portò il mio sguardo all’altezza sconveniente ma reale dell’umana miseria e il mio anno sabbatico, senza quasi che me ne accorgessi… diventarono sette.
“E’ troppo facile scappare quando le cose vanno male”.
Infatti dopo sette stagioni ero un africano fatto e finito. Parlavo il kiswahili, vivevo di turismo gestendo un ristorantino a Malindi ma ero integrato a meraviglia con la popolazione locale. Non si diventa milionari in Africa, se la si ama. Ma ci si sente immensamente ricchi dentro.
Chissà, forse per l’innato bisogno di divulgare che ha lo scrittore, forse per dimostrare a me stesso che anche i progetti di un tempo, se trasformati in sogni e liberati dal peso di obblighi, promesse, aspettative dei genitori, facevano parte dei desideri da avverare, decisi che era ora di tornare.
La voce del Capitano, come un biglietto di viaggio, era valida anche per il percorso inverso.
Così ecco un africano a Milano. Con i suoi ritmi lenti, la sua filosofia agli antipodi rispetto ai valori della maggior parte delle personee alle soglie del Terzo Millennio. Eccolo che non riesce ad attraversare la strada prima che il semaforo diventi rosso, che s’incanta ad osservare individui grigi che corrono, si lamentano, si fanno la guerra. Tutta gente che vorrebbe scappare perché le cose vanno male.
Io invece ho qualcosa da fare…devo proseguire la mia carriera da giornalista, devo pubblicare libri, voglio rimettere in piedi una rock band. Anche se il mal d’Africa è aritmia nel cuore, raschia in gola come le sigarette che ho ripreso a fumare, colora i miei sogni notturni.
Resisto perché ho un obiettivo. E appena posso, mi faccio una vacanza in Kenya.
E’ il 1998. Dopo qualche anno supero l’esame di stato a Roma e divento giornalista professionista. Lavoro in una redazione sul lago di Como. Pubblico saggi e libri musicali. Il primo, il più vissuto, è su Rino Gaetano. Lui aveva scritto “Metà Africa, Metà Europa” in cui cantava “Africa, ma per te che lavori e non ridi / per chi come te più non gioca / questa terra è ancora Europa”.
Nel 2004 esce il mio album d’esordio “Nel regno degli animali” con cui vinco alcuni premi e arrivo in finale al Festival di Mantova e tra le migliori opere prime al Premio Tenco di Sanremo.
Una carriera da scrittore lanciata, un lavoro sicuro da redattore, la soddisfazione del percorso parallelo da cantautore con un secondo album in gestazione. Un grande amore lacustre e una passione per Genova e il mare di Liguria.
Va tutto bene.
E’ il momento.
Nel luglio del 2005, con la compagna Miky, lascio il lavoro, sciolgo la band, deludo il produttore discografico, prometto di rispettare a distanza i contratti editoriali, e parto.
Mi aspetta un altro ristorantino in riva all’oceano. Ad attendermi è soprattutto l’Africa.
Forse è l’ennesima sfida, forse il senso della mia vita. Ma non è solo questo.
Cosa mi ha spinto a tornare a Malindi?
Come scrivo nel libro dedicato al Mal d’Africa:
Immaginate un luogo in cui il cielo non vi sovrasta, vi attraversa, l’aria non si respira, si assapora. Il tempo scorre, non corre e il sistema nervoso si sistema, non si innervosisce. Un luogo in cui la gente non vi incrocia, vi saluta. Dove tutto è vero, anche le cose spiacevoli, perché tutto è vita! …
… Mal d’Africa è emozionarsi davanti a un tramonto breve sapendo che il giorno dopo, comunque andrà, ce ne sarà uno apparentemente identico ma dalle sfumature inedite. Imparare che non è vero che se non si desidera tutto non si otterrà nulla, che accontentarsi non è sempre una sconfitta e che vivere alla giornata è un buon metodo per aggiornare l’esistenza. Capire la propria diversità e accettare quella degli altri, in un luogo dove nemmeno quel visionario di Gesù avrebbe potuto affermare che gli uomini sono tutti uguali. Mal d’Africa è vivere in sintonia con le fasi lunari, con i fusi locali, in serenità con il ciclo vitale e in equilibrio su un ciclo cinese.
Mal d’Africa è capire di non essere capiti e farsene una ragione, è annoiare la noia, impigrire
la pigrizia, rincoglionire l’intelligenza e assoggettarla ai propri ritmi, imprigionare il pensiero e liberarlo con una cauzione eterna che sarà il cuore a pagare, in comode rate stagionali.
Mal d’Africa è un silenzio pagano, un ruggito religioso, uno stato d’arimo.
Il Mal d’Africa, se è quello vero, è un bene incurabile!
Lo scorso gennaio, Michela ha dato alla luce Agata Zena, la nostra primogenita.
Io continuo a pubblicare libri e dal ristorantino sono tornato al mio lavoro. Sono Ufficio Stampa per l’Associazione Turistica di Malindi e Watamu e gestisco un portale di news e informazioni per chi vuole scoprire l’Africa in vacanza e per chi sogna di lasciare tutto e trasferirsi a Malindi.
A patto, però, che le cose non vadano male…
(scritto per www.voglioviverecosi.com
lunedì 19 ottobre 2009
SAMOSA DI CARNE
(Parodia malindina di "Sapore di Sale" di Gino Paoli)
Samosa di carne, samosa piccante
Che ho nella bocca, che ho sulle labbra
Sono qui al ristorante e mi vien da ruttare
Vicino a te, vicino a te
Samosa di carne, samosa bastarda
Quel gusto un po’ andato di spezie scadute
Ne ho mangiata una sola, l’ho mangiata per gola
Ed è una fortuna che sia ancora qui
Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…
Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?
Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…
Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?
Samosa di carne, samosa piccante
Che ho nella bocca, che ho sulle labbra
Sono qui al ristorante e mi vien da ruttare
Vicino a te, vicino a te
Samosa di carne, samosa bastarda
Quel gusto un po’ andato di spezie scadute
Ne ho mangiata una sola, l’ho mangiata per gola
Ed è una fortuna che sia ancora qui
Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…
Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?
Il tempo di berci una tusker ghiacciata
E nel mio intestino una guerra è scattata
Mi lancio nel bagno e cominci a star male
E rimani da sola con il tuo ginger ale…
Poi torno vicino e ti vedo cadere
Per quella samosa, non profumo di rosa
E mentre ti bacio, samosa di carne
Samosa avariata, samosa perché?
venerdì 16 ottobre 2009
IL CIELO PIANGE
Il cielo piange in Africa.
Lacrime antiche sui baobab centenari
Lacrime nuove sui dimenticati
Sui diseredati dai loro stessi fratelli
Sugli sguardi che non hanno brace
Sui sorrisi che non sono fuoco
Eppure qualcuno li ha spenti
Acqua che non riesce a purificare
Che non lava, non monda e
che non riesce ad andare al mare
Il cielo piange in Africa
Tornerà la voglia di ridere
(parole raccattate in strada a Malindi e tradotte a modo mio)
Lacrime antiche sui baobab centenari
Lacrime nuove sui dimenticati
Sui diseredati dai loro stessi fratelli
Sugli sguardi che non hanno brace
Sui sorrisi che non sono fuoco
Eppure qualcuno li ha spenti
Acqua che non riesce a purificare
Che non lava, non monda e
che non riesce ad andare al mare
Il cielo piange in Africa
Tornerà la voglia di ridere
(parole raccattate in strada a Malindi e tradotte a modo mio)
giovedì 15 ottobre 2009
GLI ALBUM DEL DECENNIO: MICHAEL FRANTI, "EVERYONE DESERVES MUSIC"
Pregiudizio. Una parola che da sempre accompagna nella carriera artistica e nella vita Michael Franti. Non inganni il cognome di deamicisiana memoria, l’uomo è un mastodonte mulatto a cui da ragazzo era stato vaticinato un futuro da guardia nei Los Angeles Lakers, negli anni in cui Kareem Abdul Jabar estasiava il mondo con il suo “gancio cielo”. Michael invece affronta i primi pregiudizi e si mette a fare hip-hop senza rasarsi i capelli a zero. Anzi, lasciandosi crescere folti dread da rasta. Inevitabilmente il rap degli esordi si tinge di reggae e denuncia. Con gli Spearhead firma il variopinto “Home”, in cui hip-hop, caraibi, soul e basket (“Dream team”) vanno d’accordo. Il seguito (“Chocolate supa highway”) porta Franti e la sua band al successo internazionale, stavolta l’hip-hop è più puro e appena venato da reminiscenze marleyane.
Dopo altri due corposi, impegnati, intelligenti dischi che non gli tolgono l’etichetta di cool rapper, un cameo in un album di Jovanotti e la splendida produzione di “7” della cantante belga-zairese Zap Mama, Michael Franti decide che è ora di levarsi di torno questi noiosi pregiudizi. Per l’America è un giovane cantore della sinistra, si batte per le cause perse e quasi quasi ha simpatie per i musulmani. Per l’Europa è uno dei tanti parlatori del terzo millennio su basi soul. E qui Franti spiazza tutti, perché con il suo ultimo album “Everyone deserve music” l’ex Spearhead fa il salto di qualità. Scrive con maturità ballate nere sospese tra l’illuminazione di Ben Harper (“Love, why did you go away?”) e l’impegno sociale dell’indimenticato Gil Scott-Heron (“Bomb the world”).
In certi frangenti sembra di veder tornare come in una moviola, dagli spari della pistola del padre, Marvin Gaye.
Franti con il suo stile ha scritto un’antologia della miglior musica nera di oggi, evocando anche Lenny Kravitz, Erykah Badu, Stevie Wonder, Curtys Mayfield e altre icone più o meno storiche. Ma ci vuole soprattutto una bella testa da musicista per scrivere canzoni come la title-track o “Never too late”, per arrangiare reggae-non reggae la ritmata “Pray for grace”, per sublimare in rhythm and blues le stesure hip-hop di “What i be” e “We won’t stop”. E siccome negli States non è solo la musica nera ad essere contro, ecco che salta fuori un brano che fonde lo stile Franti con il John Mellencamp degli ultimi anni, ascoltare “Feelin’ free” per credere. Se poi si permette l’ospitata dello spagnolo Sergent Garcia per un divertente salsa-raggamuffin è perché a lui delle etichette non interessa un granchè. Questo geniaccio rubato alla pallacanestro ha dato alle stampe un disco che nel giro di sessanta minuti fa muovere le natiche e ballare, sorridere, riflettere, incazzare, emozionare e ascoltare grande musica. Altro che pregiudizi, ognuno si merita le nuove canzoni di Michael Franti.
giovedì 1 ottobre 2009
COMO, CHE DIVENTA IMPORTANTE QUANDO L'ABBANDONI (per "Leitmotiv")
Pur essendo nato a Milano e avendo vissuto parecchi anni a Como, mi sono sempre considerato un uomo di mare. Sarà per l’infanzia ligure, sarà per l’affezione alla scuola cantautorale genovese, il tifo per la squadra di calcio più antica e gloriosa d’Italia. In realtà del mare ho sempre amato gli infiniti spazi, l’apertura totale dell’orizzonte ottico. In Liguria, l’apparente chiusura e ritrosia della gente, nasconde in realtà una naturale visione “oltre”, un abitudine alle distanze anche mentali.
A Como c’è il lago. Scenario d’incanto, non c’è che dire. Ma costretto, recluso tra alte montagne che offrono piccola porzione di cielo e non lasciano mai intravvedere la linea dell’infinito.
La chiusura della gente qui non è una scelta, ma un limite. Non ci vuole coraggio ad andar per lago, come invece per chi s’imbarca in un porto di mare. Qui chi ha coraggio ha preso la via delle montagne e spesso non torna.
Personalmente, a Como ho legato la mia carriera professionale. Sono arrivato che ero soltanto uno scrittorucolo praticante e sono diventato un giornalista fatto e finito. Nella quiete di Palanzo prima, di via Giovio e Maslianico poi, ho scritto una decina di libri e composto l’album musicale d’esordio che tante soddisfazioni mi ha dato. Le migliori opere nascono sempre da grandi depressioni, diceva qualcuno. Non posso negare che il territorio Lariano umanamente mi abbia lasciato poco e abbia rovistato in me utilizzando strumenti da lento scasso come la noia, l’incomunicabilità, la delusione.
Se ti lasci andare, sei perduto. Il lago ti ricopre il cuore di patine algose e arrugginisce i meccanismi del sistema nervoso con la sua umidità. Eppure tutto ciò può trasformarsi in forza centrifuga, può sublimare in arte. Quando la tua condizione fa a botte con il mai domo amore per la vita, ecco che la vera natura esce allo scoperto. Allora posso dire che a Como sono diventato saggio, sono diventato uomo. Ho conosciuto la donna che sarebbe poi divenuta mia moglie, ho lavorato a progetti interessanti. Cose che magari, davanti al “mio” golfo del Tigullio, non avrei fatto, rapito dall’ipotetica via di fuga.
Ecco cosa succede. A Como ti senti braccato, per questo reagisci!
Perché la Città Murata è affascinante, è storia ma non così palese come quella romana o come il rinascimento fiorentino. E’ storia oscura, misteriosa, da provincia dell’impero o da colonia di villeggiatura di nobiltà in odore di caduta. Il centro storico di Como nasconde segreti che potrebbero catturarti, se qui la storia non si fosse suicidata per troppo pudore. A Como è difficile scavare, è quasi impossibile farsi raccontare. Sembra che ognuno nasconda chissà quali collezioni di ossa in cantina, quando invece basterebbe vergognarsi un po’ meno.
Ho conosciuto e intervistato uomini di cultura, scienziati e artisti vari che hanno lasciato il Lario in giovane età e ora ammettono di capirlo e amarlo di più. “Torno ogni due anni per un paio di settimane – mi ha confidato un imprenditore che abita a Miami – e non immagina quanto mi faccia piacere. Ma guai a fermarmi più a lungo”. Ho trovato qualcosa in comune, negli sguardi e nelle parole di queste persone. Non vorrei sbagliarmi, ma tutti loro in un certo qual modo ringraziano Como di avergli fatto conoscere i propri limiti e di aver dato loro la forza di andare via, di guardare oltre il lago e le montagne.
Io che non sono di comasca progenie, i miei limiti già li frequentavo e sono andato e tornato tante volte da molti luoghi, ma mai mi sono fermato sette anni in una stessa città. In quegli anni mi sono accontentato dei pochi amici che ho incontrato e che lo rimarranno e dei pochi segreti che sono riuscito a carpire a questa cittadina. Non c’era altro da fare, dopo aver scavato e scavato, che tornare al mare. Ringraziando eternamente Como, che me ne ha fatto apprezzare sfumature dimenticate. Ora so come riconoscere la noia, la depressione, l’incomunicabilità, anche davanti all’orizzonte infinito. Dall’Africa, mio nuovo approdo da quattro anni a questa parte, un rispettoso saluto e un grazie.
Per il periodico LEITMOTIV
A Como c’è il lago. Scenario d’incanto, non c’è che dire. Ma costretto, recluso tra alte montagne che offrono piccola porzione di cielo e non lasciano mai intravvedere la linea dell’infinito.
La chiusura della gente qui non è una scelta, ma un limite. Non ci vuole coraggio ad andar per lago, come invece per chi s’imbarca in un porto di mare. Qui chi ha coraggio ha preso la via delle montagne e spesso non torna.
Personalmente, a Como ho legato la mia carriera professionale. Sono arrivato che ero soltanto uno scrittorucolo praticante e sono diventato un giornalista fatto e finito. Nella quiete di Palanzo prima, di via Giovio e Maslianico poi, ho scritto una decina di libri e composto l’album musicale d’esordio che tante soddisfazioni mi ha dato. Le migliori opere nascono sempre da grandi depressioni, diceva qualcuno. Non posso negare che il territorio Lariano umanamente mi abbia lasciato poco e abbia rovistato in me utilizzando strumenti da lento scasso come la noia, l’incomunicabilità, la delusione.
Se ti lasci andare, sei perduto. Il lago ti ricopre il cuore di patine algose e arrugginisce i meccanismi del sistema nervoso con la sua umidità. Eppure tutto ciò può trasformarsi in forza centrifuga, può sublimare in arte. Quando la tua condizione fa a botte con il mai domo amore per la vita, ecco che la vera natura esce allo scoperto. Allora posso dire che a Como sono diventato saggio, sono diventato uomo. Ho conosciuto la donna che sarebbe poi divenuta mia moglie, ho lavorato a progetti interessanti. Cose che magari, davanti al “mio” golfo del Tigullio, non avrei fatto, rapito dall’ipotetica via di fuga.
Ecco cosa succede. A Como ti senti braccato, per questo reagisci!
Perché la Città Murata è affascinante, è storia ma non così palese come quella romana o come il rinascimento fiorentino. E’ storia oscura, misteriosa, da provincia dell’impero o da colonia di villeggiatura di nobiltà in odore di caduta. Il centro storico di Como nasconde segreti che potrebbero catturarti, se qui la storia non si fosse suicidata per troppo pudore. A Como è difficile scavare, è quasi impossibile farsi raccontare. Sembra che ognuno nasconda chissà quali collezioni di ossa in cantina, quando invece basterebbe vergognarsi un po’ meno.
Ho conosciuto e intervistato uomini di cultura, scienziati e artisti vari che hanno lasciato il Lario in giovane età e ora ammettono di capirlo e amarlo di più. “Torno ogni due anni per un paio di settimane – mi ha confidato un imprenditore che abita a Miami – e non immagina quanto mi faccia piacere. Ma guai a fermarmi più a lungo”. Ho trovato qualcosa in comune, negli sguardi e nelle parole di queste persone. Non vorrei sbagliarmi, ma tutti loro in un certo qual modo ringraziano Como di avergli fatto conoscere i propri limiti e di aver dato loro la forza di andare via, di guardare oltre il lago e le montagne.
Io che non sono di comasca progenie, i miei limiti già li frequentavo e sono andato e tornato tante volte da molti luoghi, ma mai mi sono fermato sette anni in una stessa città. In quegli anni mi sono accontentato dei pochi amici che ho incontrato e che lo rimarranno e dei pochi segreti che sono riuscito a carpire a questa cittadina. Non c’era altro da fare, dopo aver scavato e scavato, che tornare al mare. Ringraziando eternamente Como, che me ne ha fatto apprezzare sfumature dimenticate. Ora so come riconoscere la noia, la depressione, l’incomunicabilità, anche davanti all’orizzonte infinito. Dall’Africa, mio nuovo approdo da quattro anni a questa parte, un rispettoso saluto e un grazie.
Per il periodico LEITMOTIV
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