giovedì 15 ottobre 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: MICHAEL FRANTI, "EVERYONE DESERVES MUSIC"


Pregiudizio. Una parola che da sempre accompagna nella carriera artistica e nella vita Michael Franti. Non inganni il cognome di deamicisiana memoria, l’uomo è un mastodonte mulatto a cui da ragazzo era stato vaticinato un futuro da guardia nei Los Angeles Lakers, negli anni in cui Kareem Abdul Jabar estasiava il mondo con il suo “gancio cielo”. Michael invece affronta i primi pregiudizi e si mette a fare hip-hop senza rasarsi i capelli a zero. Anzi, lasciandosi crescere folti dread da rasta. Inevitabilmente il rap degli esordi si tinge di reggae e denuncia. Con gli Spearhead firma il variopinto “Home”, in cui hip-hop, caraibi, soul e basket (“Dream team”) vanno d’accordo. Il seguito (“Chocolate supa highway”) porta Franti e la sua band al successo internazionale, stavolta l’hip-hop è più puro e appena venato da reminiscenze marleyane.
Dopo altri due corposi, impegnati, intelligenti dischi che non gli tolgono l’etichetta di cool rapper, un cameo in un album di Jovanotti e la splendida produzione di “7” della cantante belga-zairese Zap Mama, Michael Franti decide che è ora di levarsi di torno questi noiosi pregiudizi. Per l’America è un giovane cantore della sinistra, si batte per le cause perse e quasi quasi ha simpatie per i musulmani. Per l’Europa è uno dei tanti parlatori del terzo millennio su basi soul. E qui Franti spiazza tutti, perché con il suo ultimo album “Everyone deserve music” l’ex Spearhead fa il salto di qualità. Scrive con maturità ballate nere sospese tra l’illuminazione di Ben Harper (“Love, why did you go away?”) e l’impegno sociale dell’indimenticato Gil Scott-Heron (“Bomb the world”).
In certi frangenti sembra di veder tornare come in una moviola, dagli spari della pistola del padre, Marvin Gaye.
Franti con il suo stile ha scritto un’antologia della miglior musica nera di oggi, evocando anche Lenny Kravitz, Erykah Badu, Stevie Wonder, Curtys Mayfield e altre icone più o meno storiche. Ma ci vuole soprattutto una bella testa da musicista per scrivere canzoni come la title-track o “Never too late”, per arrangiare reggae-non reggae la ritmata “Pray for grace”, per sublimare in rhythm and blues le stesure hip-hop di “What i be” e “We won’t stop”. E siccome negli States non è solo la musica nera ad essere contro, ecco che salta fuori un brano che fonde lo stile Franti con il John Mellencamp degli ultimi anni, ascoltare “Feelin’ free” per credere. Se poi si permette l’ospitata dello spagnolo Sergent Garcia per un divertente salsa-raggamuffin è perché a lui delle etichette non interessa un granchè. Questo geniaccio rubato alla pallacanestro ha dato alle stampe un disco che nel giro di sessanta minuti fa muovere le natiche e ballare, sorridere, riflettere, incazzare, emozionare e ascoltare grande musica. Altro che pregiudizi, ognuno si merita le nuove canzoni di Michael Franti.

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