sabato 28 novembre 2009

FREDDIE E CUFONE SHOW A MALINDI !


Finalmente Freddie e il suo fido scudiero alla chitarra, Franco Cufone, si ritrovano a Malindi e possono offrire un assaggio dello spettacolo che tanto successo ha riscosso in Italia, anche a chi risiede in Kenya e a chi si trova a Malindi e non lo ha ancora visto. L'occasione è data, luned' 30 novembre alle 20.30, dalla presentazione del nuovo libro di Freddie (edito in Italia da Liberodiscrivere) dal titolo "Genoa Club Malindi", una storia di mal d'Africa e di tifo sportivo, che si intrecciano con storie di vita vera e con l'immarcescibile nonno Kazungu, uno dei personaggi più emblematici partoriti dalla penna dello scrittore ironico e calato nella realtà keniota. Sarà l'occasione per ascoltare qualche canzone "mitica", come "Per colpa di un masai", o anche la nuova "Boda Boda" che ha spopolato su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=WxGygOhiY0E) ma anche per divertirsi con le versioni swahili di classici italiani, come "Una rotonda sul mare" che diventa "Moja roundabout baharini" e "Ancora" di De Crescenzo che si trasforma in "Ngine". E ancora brani dello spettacolo "Malindi,Italia" come "L'isola" e "Doctor Livingstone". Chissà, forse qualcuno si ricorderà di uno storico, strampalato complessino che quindici anni fa riempiva i locali col suo rock "alternativo kabisa". Si chiamavano Freddie & The Askaris, e indovinate chi era il cantante e chi il chitarrista... Lunedì 30 novembre, ore 20.30 da Lorenzo Il Magnifico (Mwembe Resort)

venerdì 20 novembre 2009

NONNO KAZUNGU E I NABABBI

“L’unico modo per diventare
milionario a Malindi
è arrivarci miliardario”
(Mzee Eugenio)


Nonno Kazungu era un uomo saggio.
Raramente lo si sentiva lamentarsi.
Con pazienza e il raro dono della programmazione, negli anni si era costruito un benessere che investiva tutto il parentado e che gli regalava una vecchiaia confortevole: capanna di cemento misto fango misto sabbia misto argilla misto merda di vacca, pavimento di cemento misto terra misto paglia mattonelle semisbriciolate che erano avanzate al muzungu, veranda misto radura e toilette mistocagandoaddosso. Poi tetto di makuti rivestito di mabati rivestito a sua volta di makuti (“anche l’estetica vuole la sua parte, ma l’importante è che non piova in casa” era il pensiero del nonno), letto rivestito stracci, guardaroba rivestito polvere e arredamento rivestito nudo. Infine optional come sedie a tre gambe, tavolo a due mani, una mensola a testa e un comodino a parete (la stessa mensola travestita); roba di lusso, che pochi potevano vantare.
I suoi reumatismi erano al sicuro, la notte.
Tutto il suo villaggio godeva della capacità amministrativa del vecchio: staccionate fiorite a delimitare il terreno, pentolame resistente, un orto da fare invidia a un qualsiasi agriturismo padano, una squadra di calcio di caprette (riserve comprese), tre mucche da latte (Federica, Fabiola e Angelina, chiamate così in onore di tre famose muzunghe di Malindi che, si diceva, si erano comperate delle tette nuove in Italia di taglia superiore) e un pozzo, la spesa più cara di tutte, finanziata per metà da due italiani che si erano presi a cuore la sorte del nipotino Ray, nato con una grave malformazione alla cornea ma con un gran talento per la musica.
Dopo averlo fatto curare avevano migliorato il suo habitat naturale.
Un anno dopo avevano deciso di chiederne l’affidamento per farlo studiare in conservatorio del Nord Italia.
Insomma, rispetto a molte altre realtà giriama, a Kakoneni sorgeva un villaggio “borghese”.
“Ma se fossi stato ancora più ricco? - elucubrava Kazungu – con la mia testa e il mio altruismo avrei dotato tutta Kakoneni di tetti di mabati, avrei aperto un locale con la televisione via satellite per seguire il Liverpool e alle sei di sera, col sottofondo di My way, mi sarei bevuto un Mojito preparato col Safari Rum, mi sarei comperato un grosso fuoristrada, anzi un pulmino che Tumaini avrebbe usato per portare i bambini nella migliore scuola di Malindi e mio nipote Kitsao sarebbe diventato un premio Nobel.
Le donne del villaggio farebbero la spesa al new market e potremmo mangiare anche il riso pilao, le braciole di maiale e il sailfish affumicato (lo so, è una debolezza, ma ne vado pazzo, con due cipolle e del pomodoro tritato…l’avete mai provato con la polenta?)”. A Furaha comprerei una tastiera nuova con tutti i tasti, anzi: un’orchestra!
Poi si rabbuiava e pensava che magari con tanti soldi in tasca e in testa, avrebbe potuto anche ammattire.
Darsi alle donne di stradast, drogarsi di whisky kikuyu come il Tremebond 7 o il Simba Mbito e rincoglionirsi con le macchinette del poker.
Insomma, finire come i tanti italiani che aveva conosciuto a Malindi, arrivati bilionari e ripartiti, qualche anno dopo, con le tasche vuote e il sedere pieno.
“Essere troppo ricchi può dare alla testa, si perde il contatto con la realtà e con Madre Natura, non si riesce a valutare quel che è giusto e quel che dovrebbe essere giusto (di sbagliato, grazie a Dio, in Natura c’è solo l’uomo). Essere benestanti porta mille problemi in più, finti amici che ti chiedono prestiti, parenti che propongono affari e investimenti, vicini di casa che ti mostrano il figlio sciancato, la moglie orba, il fratello muto, la zia schizofrenica, il cognato monco, la nonna col Parkinson e il cane con la psoriasi.
Lui piange aiuto e tu gli chiedi:
“Ma solo tu sei normale, in famiglia?”
“Sì…perché?”
“Tieni, prendi questi e scappa!” gli dici, mettendogli in mano i soldi del biglietto per Kisumu.
C’è un antico proverbio keniota che recita: “tanto più rigoglioso sarà il tuo shamba, tanto più crederai che la pioggia mai lo allagherà”.
No, l’eccessiva agiatezza non fa per noi giriama, ma credo che a tutti gli uomini, se non ci nascono, crei dei problemi.
E anche se ci nascono!
Mi ricordo il figlio di uno degli uomini più potenti d’Italia, quello della Juventus. Prese una suite in uno dei più bei villaggi turistici della costa, poi però campeggiava nei tuguri più infimi di Maweni o di Shela in compagnia di spacciatori e altri muzungu strafatti come lui. Ah, tagiri…tagiri”.
“Tajiri” si dice in swahili, quando uno è molto ricco.
Non appena tagiri te la mettono in quel posto - diceva sempre il mio boss”.
Una delle peculiarità degli italiani che sono sbarcati a Malindi, negli ultimi trent’anni, è quella di aver rappresentato tutti i ceti sociali; dal multimiliardario al povero in canna.
Molti sono arrivati all’Equatore con la tessera del benessere, magari dopo aver venduto un’azienda quotata in borsa o riscuotendo gli affitti di intere palazzine in Italia, alcuni ritirano alla Barclays pensioni statali inferiori solo allo stipendio dei ministri a Nairobi, altri hanno speculato con l’edilizia o la compravendita di terreni e oggi si possono permettere una vita agiata all’occidentale: villa con piscina, almeno dieci persone di servitù, chef di livello, attività in perdita per far vedere che te lo puoi permettere. Questi sono gli status dell’italiano sulla costa keniota.
Ma in Kenya non ci sono solo i ricchi. Nel tempo sono sbarcati tanti uomini piccoli. Sono coloro che hanno intravisto in questo angolo di paradiso la possibilità di riscattare una vita grigia, una mediocrità più o meno felice e meritata in Italia.
La parola “nababbo”, deriva dall’arabo nawab e si riferisce ai governatori mussulmani in India. I primi erano proconsoli mandati in avanscoperta che si autoproclamavano principi e sultani di quelle lande, sostenendo appunto una vita sfarzosa ai danni delle genti che andavano (a regola) a convertire ed aiutare.
Quante volte si è sentito dire che tanti italiani sulle rive dell’oceano indiano fanno la vita “da nababbi”. Magari c’è anche qualcuno che prende alla lettera l’antico significato della parola ed oltre a riempirsi la giornata di piaceri, aiuta e converte la popolazione indigena.
Non basta più la villa con piscina…che ne dite se nello status ci infiliamo anche un orfanotrofio? Fa tanto eco-chic…
Nonno Kazungu lo ripete spesso ai suoi: anche se non è facile crederci, non esiste un solo tipo di muzungu, le loro risorse non sono infinite e anche la base di partenza può essere diametralmente opposta.
Altrimenti come ci spiegheremmo che c’è chi risiede in faraoniche residenze con ruscelli, cascatelle, saloni immensi old colonial dove prendere il tè e giardini verdi new brianzol in cui perdersi, e allo stesso tempo ci sono connazionali che abitano in miniappartamenti di concezione arabindiana talmente angusti, sporchi e malmessi che perfino gli scarafaggi guardano gli annunci sul Nation per cercarsi un altro posto dove andare ad abitare?
Spesso quest’ultima categoria di persone viene a Malindi proprio perché attratta dalle storie della prima categoria.
In Italia è impensabile che un impiegato di Trenitalia in mobilità possa incontrare in un bar e parlare del più o del meno con l’azionista di maggioranza di una beauty farm che ha ancorato lo yacht a Portofino. A Malindi basta recarsi al Casino, o in un ristorante italiano, per stringere la mano a un vip. Si può fare la corte alla stessa ragazza che la sera prima è uscita a braccetto con il proprietario di un resort da favola e ci si trova su un isolotto di sabbia che affiora al largo di Watamu a giocare a pallavolo con Flavio Briatore e Elisabetta Gregoraci.
Questo sì che è benessere!
Avere una fidanzata bella come Naomi Campbell, una villetta a due passi dal mare col giardino in cui grigliare aragoste, fare una puntata ai tavoli verdi o un safarino ogni tanto con il proprio fuoristrada…quanto può costare un’esistenza del genere?
Poco, rispetto agli standard italiani…se immaginate il prezzo di una villa a Positano, San Teodoro, Forte del Marmi o Santa Margherita Ligure, quello di una escort ucraina bella come Eva Herzigova che vi faccia da fidanzata e il prezzo dei crostacei al mercato del pesce.
In Kenya si può essere ricchi anche se non lo si è.
Quindi è vero che esistono i due tipi d’italiano di cui sopra, il nababbo e l’indoarabizzato. Ma è altrettanto vero che a volte possono essere la stessa persona, che arrivò in Kenya con sogni di grandeur e in poco tempo si è vista costretta a ridimensionare il tutto. Dalla megavilla a un miniloculo, dalla piscina con le cascate a una doccia che perde, dalla sorella di Naomi Campbell alla cugina di Whoopy Goldberg.
Ma si può sempre raccontare la stessa storia a chi vive lontano, in Italia, e riceve cartoline digitali via e-mail che odorano di spiagge esotiche, sole mare, relax e piacere.
Le risposte arrivano puntuali. Ci vorrebbero immagini di freddo, stress, traffico, smog, nebbia, rogne e malinconia a commentarle.
“Quasi quasi vengo a trovarti in Africa, amico mio…”
“Dài, che acquistiamo insieme una villa con piscina!”
“Ma tu non ce l’hai già?”
“…ma ne prendiamo una più grande, no?”
Perché all’Equatore, a differenza del mondo occidentale, si può sempre ricominciare…
E’ una questione di principio.
Principio d’imitazione.

martedì 17 novembre 2009

L'UOMO DEL GALANA RIVER

A me Serse Cosmi ricorda Karisa.
Sarà per quel cappellino della Ken Gen, la società elettrica nazionale, calcato sulla testa tonda e bitorzoluta come fosse quello dei Baltimore Orioles, sarà per la faringe tonante come un subwoofer o chissà per quale altro motivo. Anche perché Karisa di calcio non ha mai capito un accidente.
Oddio, per la vita che fa non è fondamentale. L’entusiasmo che ha è più importante delle sue attitudini, la capacità di convincere gli altri che i suoi metodi sono vincenti è diventata un marchio di fabbrica. Per intenderci, Karisa è uno che sta un pomeriggio al bar senza bere nemmeno una tusker, che non sai se la gente gli è amica, lo rispetta o pensa che sia un coglione.
Il villaggio in cui è nato si appoggia dolcemente su un lento declivio argilloso che va al Galana, il grande fiume della Savana. Durante la stagione delle piogge non ci va solo il declivio, ma anche mezzo villaggio, con i coccodrilli ad attenderlo fiduciosi, come un anniversario di nozze, il ricordo di un banchetto indimenticabile. Ogni volta le capanne vengono ricostruite nello stesso punto, nonostante in Kenya non esista la speculazione edilizia e non si sia ancora rivelato Bertolaso.
E’ che gli altri spazi sono occupati dai campi coltivati. Mais, pomodori e spinaci sono la vita di ogni giorno, quindi ben più importanti della morte di un giorno all’anno. Così, tanti anni fa, se n’è andato anche il padre di Karisa. Lui passava ore sul fiume a pensare a cosa avrebbe fatto da grande, perché il lavoro del babbo, nella fabbrica di cemento di Bamburi, proprio non gli piaceva.
Così Karisa, sulle rive del Galana River, ha iniziato a parlare con i coccodrilli che si sono mangiati suo padre. Sarà stato per il tono di voce unico in tutta la Savana, certo più animale che umano o per i discorsi violenti e diretti come l’agguato d’un leone, ma a poco a poco Karisa è riuscito ad addomesticare i coccodrilli.
Qualcosa gli diceva che il risultato raggiunto non avrebbe rappresentato soltanto un modo per non pensare alla precarietà della vita, ma che poteva diventare uno stile di vita, e anche un mestiere.
La voce si sparse in poco tempo. Dopo qualche anno Karisa aveva sotto di se una decina di coccodrilli che rispondevano alle sue sollecitazioni, come se invece di essere in un angolo sperduto di foresta all’equatore fossero nell’arena umida e polverosa di un circo finto-esotico in una vigilia di Natale della bassa padana.
Così la “Snake and Crocodile Farm” di Malindi lo ha voluto come attrazione principale per i suoi spettacoli pomeridiani. Centinaia di turisti ogni giorno hanno assistito per anni alle evoluzioni dei coccodrilli e hanno fotografato la sua mano nelle fauci aperte, il rodeo cavalcando il più ribelle, fino ai giochi estremi.
Karisa mi ricorda Serse Cosmi, e non solo fisicamente.
Sarà che da quei coccodrilli selvaggi e irascibili non ti saresti mai aspettato nulla di buono, figuriamoci lo spettacolo. Sarà perché è la sua anarchia intellettuale e logistica a spiazzare, e il suo carisma ad aver convinto gli anfibi a stare al gioco.
Nessuno conosce il segreto di Karisa, così come in pochi provano ad analizzare le doti di Cosmi.
C’è chi dice che di nascosto faccia bere loro il vino di palma prima delle esibizioni, che ormai i suoi cocchi sono “palm-wine-addicted”, ma negli spettacoli africani non c’è l’antidoping.
Karisa ha voluto fare il grande salto. Attratto dalla popolarità, più che dal guadagno, si è trasferito al grande “Croco-Park” di Mombasa. Gli hanno dato nuovi coccodrilli, si è portato dietro solo il vecchio Bango, quello che sembra ridere sempre. Pubblico più vasto, una piazza calda, turisti da tutto il mondo. I primi mesi sembrava che i nuovi amici rispondessero alla grande, poi lui è rimasto attratto dalla vita notturna della grande Mombasa, dalle mille attrazioni della costa. Forse si è sentito appagato dall’essere un personaggio e ha trascurato i suoi amati coccodrilli.
Chissà, se quando ha perso il lavoro si è reso conto che erano stati proprio loro a dare un senso alla sua vita, e non viceversa. Che il timido e pensieroso ragazzo che passava interi pomeriggi sulle rive del Galana o al bar senza bere non aveva sogni che non avessero squame, denti aguzzi e lunghe code. Per un po’ di tempo di Karisa si sono perse le tracce. Qualche spettacolo qua e là, a Kilifi, Diani, brevi performance anche al Nord.
Il suo villaggio è tracimato per metà lo scorso giugno, ma lui non era lì. E’ arrivato subito dopo e si è messo a rifare di fango e sterco la capanna che da tanti anni non ospita che qualche parente.
Tra una fatica e l’altra, è tornato sulle rive dell’amato e odiato Galana. I coccodrilli sono sempre lì e con i più giovani ancora riesce qualche trucco. Dai, che si fa la squadra e si ritorna a Malindi…
Domenica andrò a trovare Karisa. Sono certo che lo troverò in forma, pieno d’entusiasmo. Parlerà del passato come di una grande occasione vissuta, di un pulmino che lo ha raccolto in Savana e gli ha fatto girare il Paese, come di una fortuna inestimabile di cui ancora, quando si sporge, riesce a sentire il profumo. Lo farà senza rimpianto ma, io lo so, sotto i bassi naturali del suo vocione e negli angoli di argilla degli occhi, salirà un’ombra di malinconia.

per Grifoni In Rete (www.grifoni.org)

sabato 14 novembre 2009

KENYA 2050

Il viaggio era stato abbastanza disagevole: le hostess robot della Pterodattil Travel erano andate in corto circuito, una dopo l'altra, un paio d'ore dopo il decollo.
Soliti inconventienti dei viaggi lowest-cost.
Dapprima avevano iniziato a servire il the e il caffè bollente, con il solito getto dal dito indice della mano (destra caffè, sinistra the), addosso ai passeggeri invece che nelle tazze.
Poi a una di loro si è invertito il programma dello sparecchiamento veloce con quello dell'intrattenimento erotico per i clienti della Superfirst class.
Ne aveva fatto le spese un pensionato in astinenza da viagra, che a momenti ci restava secco, mentre dalla testa dell'aereo si sentiva una erre moscia reclamare: "mettiti quella forchetta nel culo, brutto ammasso di lamiere". Certo che se vuoi i servizi della superfirst, non dovresti viaggiare con i charter. E' come andare a mangiare il sushi al fast food.
"Mi dia un Mac Samurai, per favore..."
Mentre le cuffie digitali proiettavano nella mente l'ultimo James Bond, "Operazione Granita" in cui l'agente segreto è alle prese con lo scioglimento del Polo Nord, due stewart meccanici si inseguivano tra le poltrone, armate di scopettone strappando tutte le mascherine per l'ossigeno e parlando contemporaneamente sette lingue in stile "L'Esorcista".
Alla fine per i viaggiatori era stato quasi un sollievo vederli cadere con fragore di metalli e qualche ronzio di resa. Il volo era proseguito tra spuntini self-service e le assicurazioni del comandante quattordicenne John Katana Baraghelli:

"Benvenuti su "Pterodattil Commander", l'aerogame di realtà reale. Oggi abbiamo scelto la rotta C, stiamo giocando a livello di difficoltà medio e all'altezza del Sudan riceveremo un bonus di 30 mila chilometri che porterà il Comandante di questo velivolo in sesta posizione nella graduatoria mondiale Online dei piloti di charter. Ci scusiamo per l'inconveniente delle hostess robot, al ritorno vedremo di rimediare proponendo un concorso a premi con la possibilità di un viaggio sulla scialuppa-shuttle sopra le piramidi d'Egitto, con scalo nell'oasi virtuale di Luxor".

L'alba sul Kilimanjaro innevato fu uno spettacolo che ci colse impreparati. Ah, questo vecchio pazzo mondo!
Tutto quel bianco accecante e il fucsia striato del cielo fecero stropicciare gli occhi di chi si risvegliava e modulare flebili suoni di stupore.
Indirizzai il finestrino ottico in direzione delle pendici della grande montagna e attivai lo zoom.
Vidi cervi, daini, lo stambecco reale, l'orso bianco e le tracce dello Yeti Masai. Per chi fosse riuscito a fotografarlo, c'era in premio una fotocamera digitale da 98 megapixel.
La neve ricopriva in parte anche il parco dell'Amboseli. Mi avevano detto che ci sarebbe stato pericolo di ghiacciate, andando a Malindi in gennaio, ma io avevo scelto questo viaggio per vedere gli animali più rari: l'arrivo della lince maculata in savana, il leone da spiaggia, la giraffa domestica, i bambini somali obesi, l'imprenditore onesto di Nairobi e le altre specie mutanti del terzo millennio africano.
A me della tanto decantata Atlantide dell'Oceano Indiano dall'enorme cielo-soffitto di corallo, non importava un granchè.
Sbarcammo all'aeroporto di Mombasa alle sette. Il rullotrasporto si era bloccato, quindi fummo costretti a camminare con i bagagli, recuperati con la case-card dal ventre dell'aereo, per duecento metri lungo un bracciotunnel con temperatura inferiore allo zero.
L'inverno africano non scherza per niente.
Nelle capsule-dogana invece il riscaldamento funzionava a palla. Come al solito i raggi infrarossi mi spogliarono, mi esaminarono e trovarono qualcosa che non andava.
Una boccetta di collirio e la lima per le unghie.
Si accese una luce blu ad intermittenza e partì un suono arabeggiante di sirena.
Mi sentivo all'interno di un jukebox. Arrivò l'ufficiale di dogana, un uomo di colore mingherlino che si muoveva su un monopattino elettrico con il visore a cristalli liquidi.
Mooolto lentamente.
Comunicò attraverso il monitor, senza aprire la capsulona in cui ero prigioniero.
"La boccetta è contro le regole, non si possono trasportare corpi liquidi" mi disse in italiano, con vago accento brianzolo.
"Ma non è un alcolico, è una medicina"
"Nemmeno le medicine, se sono liquide, furbetti!"
"Sorry - feci io - non lo sapevo. E poi non esiste il collirio in polvere"
"Impossibile che lei non lo sapesse – disse l'ufficiale, ancora nella mia lingua e con inflessione sempre più lombarda – anche i pirla come te ne sono al corrente, il collirio te lo puoi comperare a Mombasa".
"Questo è speciale, è per proteggere dalle polveri semi-sottili. Poi ormai la boccetta passata, non è più pericolosa"
L'ufficiale tornò professionale.
"Vero signore, ma c'è questo coltellino"
"E' una lima per le unghie"
"Coltellino"
"Lima per le unghie"
"Può ferire"
"Le unghie..."
"Quanto mi dai?"
"Tienitela"
"Sicuro?"
"Sicuro"
"Ti trattengo anche la boccetta"
"Venti euro"
"Buona permanenza in Kenya"
"Grazie"
E' bello constatare che, malgrado questo pianeta sia irrimediabilmente nella merda, certi valori fondamentali di cui gli esseri umani sono meravigliosi latori, non si perderanno mai.
"Mi raccomando, si copra che fa freddo!"
La capsulona si aprì e io finalmente guadagnai l'uscita dell'aeroporto, pronto a vivere una delle ultime avventure della mia vita.

mercoledì 11 novembre 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: ENZO JANNACCI, "L'UOMO A META"


“L’argomento certo è scottante, la canzone lo sa”.
Sarzana, 29 gennaio 2003. Sul palco del Jux Tap, tempio della buona musica in Lunigiana, c’è un gruppo di vecchi amici che si divertono a suonare blues per Emergency.
Si chiamano Mauro Pagani, Vittorio De Scalzi dei New Trolls, Franz Di Cioccio (Pfm, è il caso di precisarlo?), Piero Milesi (arrangiatore del De Andrè di Ottocento, di Fossati e altri), il chitarrista blues Paolo Bonfanti e Reinhold Kohl, grande fotografo e bassista per hobby.
Alla fine del concerto, in un’atmosfera da rimpatriata di commilitoni, Pagani chiede un attimo di attenzione. “Vi devo far ascoltare in anteprima qualcosa di speciale”. Partono le note di “Un uomo a metà”, la canzone che dà il titolo all'album di Enzo Jannacci. Pagani lo ha prodotto insieme al figlio Paolo e ha aggiunto pochi ceselli, rispetto al lavoro di creazione, architettura sonora e sublimazione a cui siamo abituati. Mano a mano che il brano procede e la voce sobria scivola su una poesia malinconica e neorealista, gli occhi dell’uomo che ha attraversato i vicoli di mare di De Andrè, ha tenuto in braccio il bambino di Sidùn e ha urlato di dolore con l’africano Baderà Saek nella “Rundinella” di Ranieri, si inumidiscono. Emozione anche sul volto del goliardico Di Cioccio, dello sbarazzino De Scalzi e dello sparuto pubblico di amici, colleghi e addetti ai lavori rimasti a fare notte.
Potrebbe essere questo il miglior biglietto da visita di “Un uomo a metà”, che Enzo Jannacci ha scritto e musicato con il figlio e che speriamo non debba essere catalogato, come ormai troppo spesso accade, come il “testamento spirituale” dell’artista pugliese di padre, comasco di madre ma da sempre emblema della più accorata, vera, a volte scomoda milanesità in note. Lasciamo da parte la retorica e iniziamo col dire che in questo album ci sono due brani da far venire i brividi a chi è ancora capace di provare emozioni con la musica italiana. La title-track è uno dei brani più belli mai scritti da Jannacci (ascoltare il provino voce-piano inserito alla fine del cd) vive nello stesso clima della sofferta “Maria”, in cui l’ex chirurgo suona il pianoforte e la sua voce con la stessa intensità, figlia di una ritrovata vena compositiva e di una consapevolezza tornata a galla dalla nebbia dei Navigli e diradatasi proprio quando iniziava a intravedersi il tramonto. L’inciso recita semplicemente “Maria, cosa vuoi che sia”, ma dai tempi di Luigi Tenco nessuno era riuscito a farlo vivere con una tale sensazione di malessere accondiscendente, di tristezza che non ha “la vergogna di piangersi addosso”. A fare da contrappunto alla struggente, ferita poetica del cantautore c’è il violino di Pagani, che piange e grida dentro e fuori mentre (immaginiamo) gli si inumidiscono le pupille e non ci può ne vuole fare niente. Ma Jannacci è unico, come quelle sbronze di grappa buona che trascinano in discussioni senza senso, ti fanno ridere e piangere, ti portano ad amare e odiare il mondo nel giro di cinque minuti, giusto il tempo di una canzone. Così dopo “Un uomo a metà” si racconta la storia surreale di un sottotenente che sogna di regalare la pace ai poveri come se fosse un sacchetto di arance. E dopo la splendida “Maria” che ha perso tragicamente il primo amore, c’è Gino che ne sogna uno in maniera talmente grottesca da strapparti il sorriso. La misura, la lucidità, arriva con “Una vita difficile” e “Niente domande”, sottolineata dalla fisarmonica di chi conosce Enzo come fosse suo padre. Suo padre che “parla con quel resta del budino”, chiama i soliti buoni amici che guarda caso sono anche musicisti coi fiocchi. Si trasforma in crooner anni Sessanta (“Lungomare”) e si mette a far casino come ai tempi di Cochi e Renato (“Il pesciolone”), ironizza su di sè e sulla società in “Gente d’altri tempi” e piange di guerra in “Lungometraggio” per omaggiare infine Umberto Bindi perché, come canta lui stesso, “non si sbaglia a parlare, se chi muore vivrà”.

martedì 3 novembre 2009

GENOA CLUB MALINDI E LA ZAMPATA DEL LEOPARDO (per Settimana Sport)


Alla fine di Genoa-Lille, dalla tribuna del Ferraris, ho osato una telefonata intercontinentale a Malindi, Kenya. Volevo che il mio amico Kazungu avvertisse l’indomani i bambini della scuola elementare di Mida, piccola oasi di civiltà e speranza in mezzo alla natura selvaggia, che il loro “leopardo” aveva dato la zampata vincente allo scadere e che il loro maestro Freddie aveva esultato. Vivo dieci mesi all’anno con loro, con i piccoli kenioti che sognano di poter imitare un domani le gesta dei campioni di football. Prima di partire per l’Italia, per presentare il libro “Genoa Club Malindi” che il Genoa Cfc ha unito a un progetto di solidarietà, con gli scolari abbiamo fatto un gioco: ho detto loro di abbinare ogni giocatore del Genoa ad un animale della loro savana. Ho spiegato i ruoli e le caratteristiche di ogni giocatore, dopo aver tenuto la mia lezioncina sul “mal d’Africa” e il “mal di Genoa” che è riportata anche nel libro. Ebbene, i bimbi di Mida mi hanno stupito per l’ennesima volta; non solo hanno dato ad ogni calciatore un nome da animale ma, dopo averli disegnati, hanno scritto anche dei consigli per loro. “Sculli, tu sei il leopardo agile e veloce” ha scritto Karembo, “Biava, fai come il Gerenuk, una giraffa non molto alta che però salta molto alto”. Sculli era molto emozionato, martedì scorso quando a Villa Rostan gli ho consegnato il disegno. E il leopardo che c’è in lui ci tiene ancora in Europa, dopo la splendida e rocambolesca partita con il Lille. L’operazione di solidarietà che prende spunto dal libro “Genoa Club Malindi” va aldilà di queste simpatiche e un po’ magiche coincidenze. Infatti la Karibuni Onlus, che ha creato la scuola-gioiello di Mida e tante altre belle iniziative in Kenya, ha proposto il libro alla società rossoblu e il progetto che sogno da tempo: mettere in piedi una scuola calcio del Genoa in Africa. Un sogno che si realizzerà presto, grazie al presidente Preziosi e alla stessa Onlus. Inizieremo con 25 bambini, un campo da calcio e servizi. E’ un progetto abbinato all’educazione e alla sanità e migliorerà, attraverso premi e borse di studio, la vita dei ragazzi e delle loro famiglie. Chi ama il Genoa e sogna l’Africa o di fare qualcosa di tangibile per chi è meno fortunato di noi, sappia che da oggi ha un referente con il cuore da grifone laggiù. Comprando una copia di questo libro (Freddie del Curatolo, “Genoa Club Malindi”, edizioni Liberodiscrivere, € 10) si contribuisce a finanziare il progetto, ma tramite www.karibuni.org si può fare ancora di più. Il libro a Genova è in vendita presso i Genoa Store, online tramite la Fondazione Genoa o il sito dei Grifoni in rete (www.grifoni.org). Presto l’Associazione Club Genoani organizzerà anche una domenica di vendita dei libri e di raccolta fondi fuori dal Ferraris. Il Kenya si è già tinto di rossoblu, ora bisogna costruire il solido e duraturo ponte che colleghi Genova a Malindi. Per dare un calcio alla miseria e fare un goal di solidarietà.
Freddie del Curatolo