mercoledì 11 novembre 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: ENZO JANNACCI, "L'UOMO A META"


“L’argomento certo è scottante, la canzone lo sa”.
Sarzana, 29 gennaio 2003. Sul palco del Jux Tap, tempio della buona musica in Lunigiana, c’è un gruppo di vecchi amici che si divertono a suonare blues per Emergency.
Si chiamano Mauro Pagani, Vittorio De Scalzi dei New Trolls, Franz Di Cioccio (Pfm, è il caso di precisarlo?), Piero Milesi (arrangiatore del De Andrè di Ottocento, di Fossati e altri), il chitarrista blues Paolo Bonfanti e Reinhold Kohl, grande fotografo e bassista per hobby.
Alla fine del concerto, in un’atmosfera da rimpatriata di commilitoni, Pagani chiede un attimo di attenzione. “Vi devo far ascoltare in anteprima qualcosa di speciale”. Partono le note di “Un uomo a metà”, la canzone che dà il titolo all'album di Enzo Jannacci. Pagani lo ha prodotto insieme al figlio Paolo e ha aggiunto pochi ceselli, rispetto al lavoro di creazione, architettura sonora e sublimazione a cui siamo abituati. Mano a mano che il brano procede e la voce sobria scivola su una poesia malinconica e neorealista, gli occhi dell’uomo che ha attraversato i vicoli di mare di De Andrè, ha tenuto in braccio il bambino di Sidùn e ha urlato di dolore con l’africano Baderà Saek nella “Rundinella” di Ranieri, si inumidiscono. Emozione anche sul volto del goliardico Di Cioccio, dello sbarazzino De Scalzi e dello sparuto pubblico di amici, colleghi e addetti ai lavori rimasti a fare notte.
Potrebbe essere questo il miglior biglietto da visita di “Un uomo a metà”, che Enzo Jannacci ha scritto e musicato con il figlio e che speriamo non debba essere catalogato, come ormai troppo spesso accade, come il “testamento spirituale” dell’artista pugliese di padre, comasco di madre ma da sempre emblema della più accorata, vera, a volte scomoda milanesità in note. Lasciamo da parte la retorica e iniziamo col dire che in questo album ci sono due brani da far venire i brividi a chi è ancora capace di provare emozioni con la musica italiana. La title-track è uno dei brani più belli mai scritti da Jannacci (ascoltare il provino voce-piano inserito alla fine del cd) vive nello stesso clima della sofferta “Maria”, in cui l’ex chirurgo suona il pianoforte e la sua voce con la stessa intensità, figlia di una ritrovata vena compositiva e di una consapevolezza tornata a galla dalla nebbia dei Navigli e diradatasi proprio quando iniziava a intravedersi il tramonto. L’inciso recita semplicemente “Maria, cosa vuoi che sia”, ma dai tempi di Luigi Tenco nessuno era riuscito a farlo vivere con una tale sensazione di malessere accondiscendente, di tristezza che non ha “la vergogna di piangersi addosso”. A fare da contrappunto alla struggente, ferita poetica del cantautore c’è il violino di Pagani, che piange e grida dentro e fuori mentre (immaginiamo) gli si inumidiscono le pupille e non ci può ne vuole fare niente. Ma Jannacci è unico, come quelle sbronze di grappa buona che trascinano in discussioni senza senso, ti fanno ridere e piangere, ti portano ad amare e odiare il mondo nel giro di cinque minuti, giusto il tempo di una canzone. Così dopo “Un uomo a metà” si racconta la storia surreale di un sottotenente che sogna di regalare la pace ai poveri come se fosse un sacchetto di arance. E dopo la splendida “Maria” che ha perso tragicamente il primo amore, c’è Gino che ne sogna uno in maniera talmente grottesca da strapparti il sorriso. La misura, la lucidità, arriva con “Una vita difficile” e “Niente domande”, sottolineata dalla fisarmonica di chi conosce Enzo come fosse suo padre. Suo padre che “parla con quel resta del budino”, chiama i soliti buoni amici che guarda caso sono anche musicisti coi fiocchi. Si trasforma in crooner anni Sessanta (“Lungomare”) e si mette a far casino come ai tempi di Cochi e Renato (“Il pesciolone”), ironizza su di sè e sulla società in “Gente d’altri tempi” e piange di guerra in “Lungometraggio” per omaggiare infine Umberto Bindi perché, come canta lui stesso, “non si sbaglia a parlare, se chi muore vivrà”.

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