Nel gustoso,
olfattivo, poetico e sanguigno mondo del vino, la “verticale” è la degustazione
di diverse annate della medesima etichetta.
Mi piace pensare che “Pensieri verticali”, l’ultima esperienza discografica di Stefano Barotti, sia una verticale ben riuscita.
Una di quelle in cui ogni annata ha qualcosa da dire (perché il vino, come le canzoni, parla racconta e ti chiede di ricordare) e ha un suo preciso accento, un motivo valido e personale per starsene in cantina.
Che “Pensieri verticali” sia frutto di un percorso artistico ben delineato, ormai è fuori di dubbio.
Nato da monovitigno apuano, Stefano ha saputo contaminarsi in maniera naturale con gli amori di gioventù, eliminando già con l’ottimo esordio “Uomini in costruzione” i sulfiti e il fruttato del De Gregori più dylaniano e l’America delle riserve speciali dell’adolescenza, come Neil Young e Jackson Browne e sposando da qualità del folk biodinamico dei coetanei Josh Rouse e Krieg Viesselman.
Ma il songwriting italiano, anche se spesso non ha la naturale sofferenza e la spinta interiore di chi ha per amiche distese di grano o praterie, pietre e cactus, è come certi vigneti toscani che sentono il respiro del mare, la sonnolenza della mezza collina, la vertigine delle alpi Apuane e i saliscendi sincopati della Garfagnana.
Così Stefano, annata dopo annata, ha preso il corpo dal blues, incontrando la chitarra di un’icona italiana come Paolo Bonfanti, la vivacità dal rock del grande Jono Manson e aprendo le note più cupe e i profumi più malinconici alla maniera di Nick Drake.
Se nel “difficult second album” (cit. John Lennon) se ne vedevano i prodromi, con il gusto un po’ mosso di ballate addirittura pop (“L’angelo e il diavolo”, “Tempo di albicocche”) e squisiti affondi nei retrogusti agrodolci di ballate rare nel panorama italiano come “Gli ospiti” e “La neve sugli alberi”, la verticale del Barotti tocca oggi il suo punto più alto.
Perché di “Pensieri verticali”, a chiunque lo abbia assaggiato precedentemente, non può non venire naturale dare per scontato il terroir, il tannino e l’invecchiamento.
Siamo in presenza, e personalmente non avevamo dubbi, della sublimazione.
Bando alle metafore che uva rossa e poesia suscitano, ora si parla di musica e canzoni, di legno, corde e voce ispirata.
Di un compositore di canzoni tra i migliori in circolazione, di un raccontatore capace di salire e scendere dalla fantasia, dai grovigli del cuore e della memoria, dall’ironia e dai dubbi esistenziali, con la stessa abilità con cui s’immerge in maniera spontanea nel folk, nel blues, nella canzone d’autore e addirittura nel pop.
Un artigiano che ha misurato per anni la distanza tra l’uomo e l’artista fino ad azzerarla senza farlo pesare né a se stesso, ne tantomeno a chi lo ascolta, specialmente dal vivo.
Basterebbe una sola canzone, voce e chitarra a chiarire il concetto: “Girasole”. Un gioiello emozionante, una pagina di diario strappata con le unghie (o a morsi, come un cane) e letta in presenza di una melodia solare, aperta, sincera. Con un ritornello che è un urlo che affonda in una spiaggia umida di versilia, davanti a un bagnasciuga di rabbia sopita.
“Abbaio al mondo come un cane, mentre il mondo morde me”.
Cosa avrà fatto il cantautore per meritarsi una foto sul giornale?
Cose che rilasciano splendori e non concedono speranze, come la vita e il tempo che passa. Come le rose d’ottobre.
Mi emoziono particolarmente, ascoltando queste due canzoni e c’è un precedente.
Io non sarò mai poeta e non sono nato sincero e intenso come Barotti, ma in una mia canzone di dieci anni fa, “Pensavo di lasciarti” (provini del Festival di Sanremo, sic!) cantavo “…poi dopo anni d’amore, ci si potrà abbandonare, come d’estate col cane e d’autunno le rose…”.
Tanta vita, tanti eventi, tanti amori e sconvolgimenti, da allora oggi.
E tante buone bottiglie da abbinare a musica e poesia.
Ma “Pensieri verticali” è l’annata strepitosa, quella in cui tutti i sentori e i retrogusti si ritrovano insieme, che sembra inutile e snobistico stare a separarli, giusto per riconoscerne le peculiarità. Perché non sono solo amore e rimpianto i temi poetici di Stefano Barotti (“Rose d’ottobre” è vertice armonico in cui musica e parole si fondono con straordinaria empatia), ci si lascia trasportare dalle cadenze trasognate dell’Uomo Armadillo, inno all’amicizia che s’accompagna bene con il piacere della favola (“L’Arcobaleno rubato”) della letteratura (“Cuore danzante”), dell’ironia (la scoppiettante “Giudizio non ho”) o della commedia all’italiana (“Blues del cuoco”, che parla di gente a noi cara, quelli “nati sotto il segno zodiacale del fornello”, jam session di bei mostri sacri da scolare tutta d’un fiato).
Amicizia, incanto, storie di gente straordinariamente comune, sono i temi del presente, del viaggio osato o intrapreso (“…dal grande Naviglio a Saturno, il tutto nel tempo di un cattivo consiglio”), che si contrappone al sentimento amoroso, statico e sognato (“Povero l’amore, povero se non ha un salto, un tuffo, un gesto d’istinto…”), “La ragazza”), che parla sempre di rimpianti, di ricordi e di attese.
Non c’è più nulla da attendere, è il momento di stappare.
Stefano Barotti è nell’annata giusta e l’etichetta “Pensieri Verticali” è quanto di più vero, appassionato, corposo, armonico e indimenticabile si possa gustare a livello nazionale.
Mi piace pensare che “Pensieri verticali”, l’ultima esperienza discografica di Stefano Barotti, sia una verticale ben riuscita.
Una di quelle in cui ogni annata ha qualcosa da dire (perché il vino, come le canzoni, parla racconta e ti chiede di ricordare) e ha un suo preciso accento, un motivo valido e personale per starsene in cantina.
Che “Pensieri verticali” sia frutto di un percorso artistico ben delineato, ormai è fuori di dubbio.
Nato da monovitigno apuano, Stefano ha saputo contaminarsi in maniera naturale con gli amori di gioventù, eliminando già con l’ottimo esordio “Uomini in costruzione” i sulfiti e il fruttato del De Gregori più dylaniano e l’America delle riserve speciali dell’adolescenza, come Neil Young e Jackson Browne e sposando da qualità del folk biodinamico dei coetanei Josh Rouse e Krieg Viesselman.
Ma il songwriting italiano, anche se spesso non ha la naturale sofferenza e la spinta interiore di chi ha per amiche distese di grano o praterie, pietre e cactus, è come certi vigneti toscani che sentono il respiro del mare, la sonnolenza della mezza collina, la vertigine delle alpi Apuane e i saliscendi sincopati della Garfagnana.
Così Stefano, annata dopo annata, ha preso il corpo dal blues, incontrando la chitarra di un’icona italiana come Paolo Bonfanti, la vivacità dal rock del grande Jono Manson e aprendo le note più cupe e i profumi più malinconici alla maniera di Nick Drake.
Se nel “difficult second album” (cit. John Lennon) se ne vedevano i prodromi, con il gusto un po’ mosso di ballate addirittura pop (“L’angelo e il diavolo”, “Tempo di albicocche”) e squisiti affondi nei retrogusti agrodolci di ballate rare nel panorama italiano come “Gli ospiti” e “La neve sugli alberi”, la verticale del Barotti tocca oggi il suo punto più alto.
Perché di “Pensieri verticali”, a chiunque lo abbia assaggiato precedentemente, non può non venire naturale dare per scontato il terroir, il tannino e l’invecchiamento.
Siamo in presenza, e personalmente non avevamo dubbi, della sublimazione.
Bando alle metafore che uva rossa e poesia suscitano, ora si parla di musica e canzoni, di legno, corde e voce ispirata.
Di un compositore di canzoni tra i migliori in circolazione, di un raccontatore capace di salire e scendere dalla fantasia, dai grovigli del cuore e della memoria, dall’ironia e dai dubbi esistenziali, con la stessa abilità con cui s’immerge in maniera spontanea nel folk, nel blues, nella canzone d’autore e addirittura nel pop.
Un artigiano che ha misurato per anni la distanza tra l’uomo e l’artista fino ad azzerarla senza farlo pesare né a se stesso, ne tantomeno a chi lo ascolta, specialmente dal vivo.
Basterebbe una sola canzone, voce e chitarra a chiarire il concetto: “Girasole”. Un gioiello emozionante, una pagina di diario strappata con le unghie (o a morsi, come un cane) e letta in presenza di una melodia solare, aperta, sincera. Con un ritornello che è un urlo che affonda in una spiaggia umida di versilia, davanti a un bagnasciuga di rabbia sopita.
“Abbaio al mondo come un cane, mentre il mondo morde me”.
Cosa avrà fatto il cantautore per meritarsi una foto sul giornale?
Cose che rilasciano splendori e non concedono speranze, come la vita e il tempo che passa. Come le rose d’ottobre.
Mi emoziono particolarmente, ascoltando queste due canzoni e c’è un precedente.
Io non sarò mai poeta e non sono nato sincero e intenso come Barotti, ma in una mia canzone di dieci anni fa, “Pensavo di lasciarti” (provini del Festival di Sanremo, sic!) cantavo “…poi dopo anni d’amore, ci si potrà abbandonare, come d’estate col cane e d’autunno le rose…”.
Tanta vita, tanti eventi, tanti amori e sconvolgimenti, da allora oggi.
E tante buone bottiglie da abbinare a musica e poesia.
Ma “Pensieri verticali” è l’annata strepitosa, quella in cui tutti i sentori e i retrogusti si ritrovano insieme, che sembra inutile e snobistico stare a separarli, giusto per riconoscerne le peculiarità. Perché non sono solo amore e rimpianto i temi poetici di Stefano Barotti (“Rose d’ottobre” è vertice armonico in cui musica e parole si fondono con straordinaria empatia), ci si lascia trasportare dalle cadenze trasognate dell’Uomo Armadillo, inno all’amicizia che s’accompagna bene con il piacere della favola (“L’Arcobaleno rubato”) della letteratura (“Cuore danzante”), dell’ironia (la scoppiettante “Giudizio non ho”) o della commedia all’italiana (“Blues del cuoco”, che parla di gente a noi cara, quelli “nati sotto il segno zodiacale del fornello”, jam session di bei mostri sacri da scolare tutta d’un fiato).
Amicizia, incanto, storie di gente straordinariamente comune, sono i temi del presente, del viaggio osato o intrapreso (“…dal grande Naviglio a Saturno, il tutto nel tempo di un cattivo consiglio”), che si contrappone al sentimento amoroso, statico e sognato (“Povero l’amore, povero se non ha un salto, un tuffo, un gesto d’istinto…”), “La ragazza”), che parla sempre di rimpianti, di ricordi e di attese.
Non c’è più nulla da attendere, è il momento di stappare.
Stefano Barotti è nell’annata giusta e l’etichetta “Pensieri Verticali” è quanto di più vero, appassionato, corposo, armonico e indimenticabile si possa gustare a livello nazionale.
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