mercoledì 18 marzo 2015

LA MATURITA' DEL FANTASMA


Uno spettro si aggira per l’Europa.
Niente paura, le ideologie sono sepolte da un pezzo, Porto Alegre muore e anche Fidel Castro non sta tanto bene.
L’unico fantasma che aleggia su di noi con la forza propulsiva di un precetto e le traiettorie imprevedibili dell’anarchia, con il dogmatico carisma di una fede e il diabolico candore della passione, è quello del Rock and Roll.
La sua presenza è la carezza di una sciabola, è polvere e materia, violino e chitarra distorta.
Ha cento facce ed ognuna ne ha altre cento, che spesso somigliano alle cento di un’altra faccia ancora.
Ecco perché è il Re dei Fantasmi e chi lo evoca non lo conosce mai abbastanza.
Ecco perché non puoi che salutare con godimento “The ghost King”, la quinta prova discografica della band romagnola “Miami and The Groovers”.
Passo dopo passo, concerto dopo concerto (e ne hanno all’attivo centinaia), canzone dopo canzone, i “Miami” hanno conosciuto molte di quelle facce: i volti solari, sofferti, angosciosi, appassionati, energici, romantici, polemici, bastardi, ironici, complessi, umili e gloriosi della musica rock.
Nel 2015 Lorenzo Semprini e soci presentano la loro personale visione del fantasma, con una maturità compositiva e d’arrangiamenti che sorprende, perché figlia di un’altra epoca.
Quando il mondo della musica e dell’arte in generale ti attendeva, ti masticava e non aveva fretta di sputarti. Aspettava il tuo momento migliore, l’affinamento nella buona rovere dei suoni, delle armonie e del ritmo, per celebrarti come era giusto.
Oggi non c’è tempo di veder crescere una realtà musicale, per gustarne a pieno l’invecchiamento. Dopo due o tre album, quattro o cinque stagioni, dalla cantina passi direttamente al sottobosco, e sottobosco non ha più un accezione positiva, perché del retrogusto non gliene fotte più un cazzo a nessuno.
Allora mi piace ascoltare “Hey you” e sorprendermi a saltellare, palpeggiandomi i polpastrelli al ritmo delle pennate asciutte e precise di una chitarra che rimanda alla migliore rock-wave inglese, quella dei Graham Parker, del Joe Jackson di I’m the man, di Elvis Costello.
Una “fighting song” di quando i tempi partorivano canzoni senza tempo.
Ma i fantasmi non vanno in guerra, pur avendo il ghigno e la panoplia per mostrare di che pasta sono fatti.
E in “The ghost king” ce n’è davvero per tutti i gusti!
“The King is dead” è l’energia selvaggia del Midwest americano, dove la lezione di band storiche come Del Fuegos e Del Lords si fa sentire, “Don’t” aggiunge la ruvidezza del grunge e una tastierina retrò all’impianto energetico che scatena una bella potenza sonora.
Questa è la maturità assoluta di una delle migliori band anglofone del panorama italiano.
Spalancare valvolari e calmierare distorsori senza ferite ma senza nemmeno leccate, picchiare su cassa e rullante con la precisa e scaltra cattiveria del Kenny Aronoff di “The lonesome jubilee”, portandosi dietro il resto della band senza che si senta mai il trambusto di una carovana.
La chitarra di Beppe Ardito e la batteria di Marco Ferri fanno la parte del drago rosso e dell’artefatto di cristallo in un fantasy (toh, proprio uno di quelli della saga di R.A. Salvatore dal titolo “The Ghost King”…) e nei brani tirati la voce di Semprini arriva potente a bersaglio.
Il basso tavolta timido esce con brillantezza quando i mostri sono a bada, piano e tastiere hanno il pregio della misura e sanno uscire al momento giusto dalla foresta incantata di suoni così netti e tosti che ogni altra allegoria se ne va a farsi benedire.
Quando pensi di sorbirti una gloriosa ora di muro di suono, palle e catene (e mai “ball and chain”), ecco che la foresta si apre in un’infinita campagna americana e appaiono una fisarmonica e un violino da dieci e lode ad illuminare il fantasma da dentro il lenzuolo.
La luce si fa dapprima opalescente con la quasi balcanica “Hallelujah Man”, che si spinge verso i motel in cui Tom Waits trovava l’ispirazione per scrivere Strange Weather, poi diventa felice abbaglio con “Heaven and Hell”, dove i Pogues incontrano Joe Strummer e, perché no, l’Emilia Romagna partigiana, infine si fa fioca e si ritira nelle tenebre, negli scantinati dove Nick Cave, Leonard Cohen e Mark Lanegan fumano e bevono, nella notturna “We can rise”, ballata circolare che ti punge l’anima, anche se forse è il terreno meno adatto all’espressività più folk-rock che crepuscolare di Semprini.
C’è il tempo di ricompattarsi, sulla strada della grande maturità di stile, quella che porta al presente dei “New Basement Tapes”, all’espressività colta dei Mumford e alla rurale eleganza degli Old Crow Medicine Show: “Waiting for my train” è roba bella che non ti stanca.
Non possono mancare le “clever songs”, i singoli precisi, perfetti, occhieggianti e radiofonici.
Io scelgo “On the rox”, ispirata alla biografia di John Belushi, uno dei fantasmi indimenticabili da troppi anni in qualche firmamento, a fianco della Musa Ispiratrice dell’arte, e l’ottima confezione di “The other room”, che mostra le ganasce pop del fantasma e non ti fa mancare un-ingrediente-uno dei cavalli di battaglia vincenti da boyband in blu jeans e giacca sdrucita.
Altri “ghostbusters”  sarebbero capaci di fare i paraculi e snocciolarti tutto un album del genere (o de-genere) , ma i Miami amano troppo la sincerità del rock e cosa racconterebbero al pubblico nei loro imperdibili live?
Ecco perché dico che oggi la maturità è una scelta e forse la maniera più completa, raffinata e sincera per essere ancora contro, per essere ancora terribilmente rock.
Viva i fantasmi!

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