lunedì 7 settembre 2015

AUGURI, COMPAGNO DI VITE


Centoventidue anni.
Un uomo non li vive mica.
Sì, c’era uno in Nepal, mi sembra.
O forse era in Ungheria, ma non si faceva vedere in giro.
A Matsangoni, nell’Africa Equatoriale, Mzee Kaingu è morto che ne aveva 115 e la gente del villaggio non ha più trovato il corpo.
Dicono che è diventato una pianta.
Ecco, centoventidue anni può essere forse solo una pianta, un albero.
Il baobab africano può arrivare anche a mille anni.
E il vitigno che produsse quella bottiglia di Bordeaux datata 1893, è ancora lì.
Vivo.
Qualcosa che c’era prima di te e che se l’uomo stesso non la distrugge, stai sicuro che ci sarà anche dopo.
Annate migliori, stagioni grame.
Natura, fatica, sudore.
Arte, cultura, tradizione.
Cambiano i bouquet, i prodotti, s’insediano insetti nuovi, arrivano terribili pesticidi.
Ma il vino è ancora lo stesso.
E’ sempre la medesima etichetta.
Identico, inconfondibile timbro.
Come il Grifone.
No, non l’animale mitologico.
Lo so, è un vino marchigiano.
Nemmeno quello.
Sto parlando del Genoa, che oggi festeggia 122 anni dalla fondazione.
Sì, il Genoa Cricket and Football Club.
Avete capito bene.
Perché sono robe che tanta gente non comprende.
Che va pure bene, non si può pretendere di capire tutto.
Ma a quel punto, bisognerebbe stare zitti.
Umilmente, con rispetto e dignità.
Prendendosi tempo per provare a intendere, a sapere, ad imparare.
Sempre che gliene freghi qualcosa di te o della questione.
E invece parlano, commentano, ti giudicano.
Oggi è ancora più facile, basta un click.
L’hanno inventato apposta, il click.
Perché non c’è più tanto tempo da dedicare agli altri.
Con un click credono che tu stia pensando a loro, che sia interessato a quel che dicono e a quel che fanno, alle cose in cui credono e a quel che gli piace mostrare di loro.
Il bello è che la faccenda è reciproca, lo puoi fare anche tu e gli altri penseranno lo stesso, in una piacevole e serena accettazione di farsi ognuno i cazzi degli altri e allo stesso tempo non interessarsene minimamente.
Anche per questo non temo critiche.
Men che meno quelle costruttive, prendono troppo tempo e poi c’è il rischio che ti arriva una risposta e devi pure controbattere.
Meglio affidarsi frettolosamente a sentenze di comodo, a qualche luogo comune non proprio banalissimo e al limite prendersi un altrettanto frettoloso vaffanculo.
Con la stessa serena accettazione di un click.
L’ironia invece è sempre bene accetta.
La chiamano “fede”, quindi non è una cosa che uno deve prendere sul serio.
Com’è giusto a volte non prendere sul serio le pulsioni del cuore o quelle della pancia.
Per non parlare del basso ventre.
Ironia sì.
Pregiudizio, sufficienza, snobismo o peggio, velato disprezzo di chi considera snobismo il mio.
Un intellettuale che si interessa di calcio, che fa addirittura il tifo per una squadra.
Fosse stato un ignorante, un decerebrato, capivo.
Ma ci siamo abituati.
L’innamoramento con una squadra di calcio.
Ti additano come un immaturo, un superficiale.
Uno che in fondo non ha tanti problemi nella vita o, peggio, con tutti i pensieri che dovrebbe avere, guarda come perde tempo dietro a una cazzata.
Poi vedi tanti di loro dedicarsi amorevolmente, piangere e sdilinquirsi davanti ad un micino o una cagnetta che hanno il quoziente d’intelligenza poco più basso di Cassano.
E condividono, si indignano, si lanciano in effusioni verbali, virtuali, emotiche ed ematiche anche per gli animaletti degli altri.
Come se io mi mettessi a urlare come un assatanato per un rigore negato all’Udinese, se perdessi la voce seguendo la Spal e mi si gonfiassero gli occhi per la retrocessione del Cesena.
E’ la mia pianta, quella che da ragazzo mi ha fatto sentire una delle migliaia di gocce di pioggia che la innaffiavano con lo stesso ardore, dei granelli di polline che l’aiutavano a far germogliare i fiori.
Corpuscoli in trasferta a Liverpool, a Sassari, a Oviedo, a Giulianova, a Odense.
Rugiada piangente a Firenze, con il Cosenza.
Foglie secche a Treviso, petali strappati a Cogliate e trasformati in fiori di plastica che il polline non sa più dove cazzo andare a posarsi.
Di questo vorrei parlare, di come ogni pianta meriti di veder nascere i propri fiori, di come ogni sentimento, ogni passione sia buona, se dal tuo cuore può nascerne qualcosa di vero, onesto, semplice, umano.
Di tutte le belle persone che ho incontrato, ho conosciuto senza click, ho frequentato e ho avuto il privilegio di chiamare “amico”. 
Ma che importa, a chi serve sapere queste cose, in un mondo di indaffarati che non ascoltano e hanno affidato le loro sorti a chi ha già le migliori soluzioni per mandare tutto a puttane. 
E allora va bene.
Il calcio è malato, è pompato, è dopato, è truccato, è al soldo dei media.
Dovrei ragionare così.
Invece la domenica mi ritrovo lì, davanti ai miei fiori.
Per  molti sono io l’eterno infante, quello che giustifica i violenti, i poco equilibrati.
Gli unici che spalano il fango delle alluvioni altrui, invece di restare a concionare con l’iphone in mano, per intenderci.
Stiamo tornando alle posizioni fisse, alle poche idee ma in compenso confuse, all’integralismo come risposta agli estremismi.
Click.
Vaffanculo.
In tutto questo bordello dovrei vergognarmi di esternare amore per una maglia che mi fa battere il cuore?
Probabilmente, di questi tempi, non mi vergognerei nemmeno se il cuore me lo facesse battere Bono Vox con il tupé biondo.
Siamo così diversi e sconosciuti l’uno all’altro che sembriamo proprio tutti uguali.
E non dovrei sentirmi libero di pensare al Vecchio Balordo, alla sua storia, alle emozioni che mi ha donato, al piacere di vedere una palla di cuoio sospinta in fondo alla rete da un milionario poco più che ventenne che sgomma al semaforo con la sua Porsche Panamera, solo perché indossa la casacca rossoblu?
Segnalatemi nel novero dei malati di leggerezza, prenotate pure un posto per me nel girone dei rincoglioniti.
Confortatevi, siamo sempre meno.
Oggi la passione a gratis è un bene che non fa comodo a nessuno.
Cosa importa, abbiamo il cuore, la pancia e curiamo con amore la nostra pianta.
Io, se fossi una pianta, sarei sicuramente la vite.
Tanto per parlare di integralisti, un amico vegano e animalista convinto mi chiedeva perché continuo imperterrito a bere vino, più dell’acqua.
Gli risposi quel che mi hanno insegnato in Africa.
“Dovresti saperlo, anche gli animali mangiano e bevono sempre la stessa cosa, per tutta la vita”
“Infatti un cane e un gatto vivono 15 anni” mi ha risposto.
“Vivono meno perché li abbiamo addomesticati. Un elefante vive anche 80 anni”
“In ogni caso la vita media di un animale è 20 anni”
“Vedi, amico, quel ignori e che invece uno come te dovrebbe sapere, è che gli animali non muoiono dopo quindici o vent’anni da quando sono nati, ma da quando hanno smesso di essere cuccioli, e diventano adulti”.
Ecco, mi va bene così.
Datemi dell’eterno bambino, ditemi pure che sono infantile.
La mia vita vera da animale non è ancora cominciata.
Quella nell’eterno vigneto arriverà quando sarà il tempo.

E ti faccio gli auguri, caro Genoa.

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