Sconfitte
d’altri tempi.
Quando già lo sapevamo che sbarcare sui Navigli e respirare i primi accenni di nebbia voleva dire partite spigolose e rigide come la temperatura lontano dal mare ed emozioni meno che all’interno dei tendoni dei circhi che sostavano nei prati bianchi e caliginosi ai bordi della vigevanese. Calcio d’altri tempi che l’anarchia del vivere senza nemici invisibili, ma con passioni ben definite e odi dai volti conosciuti, ci faceva amare a dispetto della differenza di qualità tra noi e le squadre meneghine e nonostante le nostre ataviche magagne tra presidenti avidi e meschini e spogliatoi sull’orlo di crisi di nervi.
Quelle partite spesso finivano 1-0 per gli avversari e ci lasciavano un retrogusto di Amaro Cora o 18 Isolabella, che se ne andava piano piano quando dalla Valle Scrivia innevata si scorgevano le raffinerie di Busalla. L’odore di nafta bruciata ci riaccoglieva con abbracci a sbuffo e calore di consuetudine, facendo svanire il volto terùn di Anastasi.
D’altri tempi però c’è solo il risultato, il contorno è rimasto in una trattoria di Porta Cicca, tra le pieghe della verza della cassoeula e la panatura di una cotoletta.
Oggi la poesia è un sms, la trasferta una tessera magnetica, un Camogli in autogrill e quasi ti sorprendi d’ascoltare il grido “Genoa Genoa” rimbombare all’interno di San Siro. E anche un rotondo, pieno “Inter Inter Vaffanculo”.
Oggi abbiamo il Vate del bel calcio che cercava di convertire Zanetti trasformandolo in centrale di difesa, mica anodini caporali come Marchioro o Giorgi, vediamo sovrapposizioni di mezzali e trequartisti che diventano terzini e si scambiano l’avversario da marcare al limite della propria area, procediamo in quella che ci viene prospettata come la partita perfetta del calcio finzione da terzo millennio, in cui bloccheremo l’avversario, inaridiremo le sue fonti di gioco, lo stordiremo con il pressing e forse, intorno al 55°, riusciremo a fare un tiro in porta.
Il tiro in porta invece lo fanno loro ed è una roba da riderne al bar, come avrebbe detto Beppe Viola.
Oggi non ci sono più le sconfitte di una volta, ci sono partite in cui si osa e gare piuttosto di merda.
Inter-Genoa del 5 dicembre appartiene abbastanza alla seconda categoria.
Sarà l’aria umida e pungente dell’orzata milanese che ti trasporta in una dimensione senza spazio e senza tempo, ma già dalle prime fasi della partita gli spiriti dell’antico cuoio vorrebbero rivivere gli anni della manifesta inferiorità che ci portava a salvezze all’ultima giornata o a retrocessioni annunciate.
In panchina distinti signori in paltò come Gigi Simoni o anodini caporali di cui sopra. Ma in campo c’era sempre qualcuno che sputava sangue esente dai controlli antidoping.
Si giocava contro armate tetragone che potevano disporre di bocche da cannone, e noi si cercava di chiudere ogni varco e di picchiare negli angolo quel tanto che bastava a spostare le efelidi a qualche signorinello dal dribbling fulmineo.
Qui c’è la faccina da serial killer da troppa playstation di Ljajic, il muso paesano e spaesato di Jovetic e il nervosismo di Palacio che non si ritrova da tempo e dovrebbe invece rallegrarsi vedendo il suo passato in Perotti terzino. Venti minuti in affanno, con Figueras che difende come la Kamchatka con un solo carrarmato contro la Cina da tre. Poi la diligente sartoria Gasperini prende le misure ai nerazzurri e li limita, ma di tiri nello specchio nemmeno a parlarne sottovoce.
Ricordo uno 0-0 con l’Ambrosiana in cui Silvano Martina prese 9 in pagella sulla Gazzetta.
Oggi Silvano Perin non ha molto lavoro e fa il suo su un diagonale del serial killer serbo.
Figueras dietro è una bambola di pezza, Tino leggermente più aggressivo e pronto delle ultime sconfortanti prestazioni, il General combatte ma ha a che fare con una coppia di muscolari che pensa bene di tentare il suicidio a craniate. Melo fuori causa e Medel un po’ rintronato riescono a regalarci un buon inizio di secondo tempo, con supremazia al centro.
La prima delle sue parate non difficili di Handanovic è sul laterale portoghese, mentre Lazovic non riesce più a scartare nemmeno una Valda alla liquirizia.
Nella desolazione di una nebbia che non scende a sospendere nemmeno i giudizi, il serial inventa qualcosa che fa svanire all’istante il ricordo di Martina e assimila Perin all’amico Padelli.
Generazione di fenomeni.
La reazione è chimica, come le scie di Capel per il campo, come l’attrazione di D’Ambrosio per le caviglie di Diego, che non riesce a far più di un paio di accelerazioni.
Nostalgia di Pasquale Iachini, quasi quasi di Gregorio Basilico, con Gakpé che è il Boito nero.
La partita è già finita, ma va avanti per inerzia altri venti minuti più recupero.
C’è una telefonata a gettoni di Tino Costa, l’imprecisione macedone che si taglia con un grissino e la sensazione che questa stagione possa ricordare una qualche vita di quarant’anni fa solo per le salvezze all’ultima giornata o le retrocessioni annunciate. E ora tutti a sputare sangue contro il Bologna, o a sputare addosso ai saccenti del calcio finzione.
Quando già lo sapevamo che sbarcare sui Navigli e respirare i primi accenni di nebbia voleva dire partite spigolose e rigide come la temperatura lontano dal mare ed emozioni meno che all’interno dei tendoni dei circhi che sostavano nei prati bianchi e caliginosi ai bordi della vigevanese. Calcio d’altri tempi che l’anarchia del vivere senza nemici invisibili, ma con passioni ben definite e odi dai volti conosciuti, ci faceva amare a dispetto della differenza di qualità tra noi e le squadre meneghine e nonostante le nostre ataviche magagne tra presidenti avidi e meschini e spogliatoi sull’orlo di crisi di nervi.
Quelle partite spesso finivano 1-0 per gli avversari e ci lasciavano un retrogusto di Amaro Cora o 18 Isolabella, che se ne andava piano piano quando dalla Valle Scrivia innevata si scorgevano le raffinerie di Busalla. L’odore di nafta bruciata ci riaccoglieva con abbracci a sbuffo e calore di consuetudine, facendo svanire il volto terùn di Anastasi.
D’altri tempi però c’è solo il risultato, il contorno è rimasto in una trattoria di Porta Cicca, tra le pieghe della verza della cassoeula e la panatura di una cotoletta.
Oggi la poesia è un sms, la trasferta una tessera magnetica, un Camogli in autogrill e quasi ti sorprendi d’ascoltare il grido “Genoa Genoa” rimbombare all’interno di San Siro. E anche un rotondo, pieno “Inter Inter Vaffanculo”.
Oggi abbiamo il Vate del bel calcio che cercava di convertire Zanetti trasformandolo in centrale di difesa, mica anodini caporali come Marchioro o Giorgi, vediamo sovrapposizioni di mezzali e trequartisti che diventano terzini e si scambiano l’avversario da marcare al limite della propria area, procediamo in quella che ci viene prospettata come la partita perfetta del calcio finzione da terzo millennio, in cui bloccheremo l’avversario, inaridiremo le sue fonti di gioco, lo stordiremo con il pressing e forse, intorno al 55°, riusciremo a fare un tiro in porta.
Il tiro in porta invece lo fanno loro ed è una roba da riderne al bar, come avrebbe detto Beppe Viola.
Oggi non ci sono più le sconfitte di una volta, ci sono partite in cui si osa e gare piuttosto di merda.
Inter-Genoa del 5 dicembre appartiene abbastanza alla seconda categoria.
Sarà l’aria umida e pungente dell’orzata milanese che ti trasporta in una dimensione senza spazio e senza tempo, ma già dalle prime fasi della partita gli spiriti dell’antico cuoio vorrebbero rivivere gli anni della manifesta inferiorità che ci portava a salvezze all’ultima giornata o a retrocessioni annunciate.
In panchina distinti signori in paltò come Gigi Simoni o anodini caporali di cui sopra. Ma in campo c’era sempre qualcuno che sputava sangue esente dai controlli antidoping.
Si giocava contro armate tetragone che potevano disporre di bocche da cannone, e noi si cercava di chiudere ogni varco e di picchiare negli angolo quel tanto che bastava a spostare le efelidi a qualche signorinello dal dribbling fulmineo.
Qui c’è la faccina da serial killer da troppa playstation di Ljajic, il muso paesano e spaesato di Jovetic e il nervosismo di Palacio che non si ritrova da tempo e dovrebbe invece rallegrarsi vedendo il suo passato in Perotti terzino. Venti minuti in affanno, con Figueras che difende come la Kamchatka con un solo carrarmato contro la Cina da tre. Poi la diligente sartoria Gasperini prende le misure ai nerazzurri e li limita, ma di tiri nello specchio nemmeno a parlarne sottovoce.
Ricordo uno 0-0 con l’Ambrosiana in cui Silvano Martina prese 9 in pagella sulla Gazzetta.
Oggi Silvano Perin non ha molto lavoro e fa il suo su un diagonale del serial killer serbo.
Figueras dietro è una bambola di pezza, Tino leggermente più aggressivo e pronto delle ultime sconfortanti prestazioni, il General combatte ma ha a che fare con una coppia di muscolari che pensa bene di tentare il suicidio a craniate. Melo fuori causa e Medel un po’ rintronato riescono a regalarci un buon inizio di secondo tempo, con supremazia al centro.
La prima delle sue parate non difficili di Handanovic è sul laterale portoghese, mentre Lazovic non riesce più a scartare nemmeno una Valda alla liquirizia.
Nella desolazione di una nebbia che non scende a sospendere nemmeno i giudizi, il serial inventa qualcosa che fa svanire all’istante il ricordo di Martina e assimila Perin all’amico Padelli.
Generazione di fenomeni.
La reazione è chimica, come le scie di Capel per il campo, come l’attrazione di D’Ambrosio per le caviglie di Diego, che non riesce a far più di un paio di accelerazioni.
Nostalgia di Pasquale Iachini, quasi quasi di Gregorio Basilico, con Gakpé che è il Boito nero.
La partita è già finita, ma va avanti per inerzia altri venti minuti più recupero.
C’è una telefonata a gettoni di Tino Costa, l’imprecisione macedone che si taglia con un grissino e la sensazione che questa stagione possa ricordare una qualche vita di quarant’anni fa solo per le salvezze all’ultima giornata o le retrocessioni annunciate. E ora tutti a sputare sangue contro il Bologna, o a sputare addosso ai saccenti del calcio finzione.
Nessun commento:
Posta un commento