E’ arrivato Briatore ha fatto molto rumore
E’ arrivato Briatore con il suo aeromotore
Dopo un’ora di sole ha cambiato colore
Sarà perché ha i milioni
e ha le creme migliori
Saranno i suoi cromosomi
Ma è più bianca Naomi
E’ arrivato Briatore con i suoi amiconi
Barrichello e Montoya –
e qualche gran bella… ragazza
C’è Simona Ventura –
che dei neri ha paura
Ci son Dolce e Gabbana –
a cui piace Katana (è il maggiordomo)
C’è anche Giovanni Rana
e qualche altra… ragazza
E’ arrivato Briatore
di Malindi è il signore
Nella villa africana
mette a guardia un leone
Va in giardino in Ferrari –
ha due o tre fusi orari
Il salotto sta a Lamu,
ed il cesso a Watamu
E l’altro pezzo di casa
Tra Kilifi e Mombasa
E’ arrivato Briatore –
proprio qui all’equatore
Mangia kili di pesce –
ma di casa non esce
Ama molto Malindi –
ma non lascia i suoi dindi
E’ arrivato Briatore
E’ partito Briatore
E’ tornato Briatore
E’ a Malindi Briatore
Briatore è felice
Briatore è in piscina
Briatore è nascosto
Briatore si nega
Ma in fondo a noi
di Briatore….
Che ce ne frega?
mercoledì 18 febbraio 2009
martedì 17 febbraio 2009
TRA CINQUE ANNI
Quel giorno pensai: oggi mancano dieci anni esatti al mio suicidio.
Chiusi il libro che avevo iniziato a leggere senza mestiere e andai in cucina a festeggiare la ricorrenza.
Ero solo in casa e nel frigorifero, oltre a cipolla e maionese, spiccava luccicante una bottiglietta di prosecco Riccadonna mignon, il piccolo spumante per le grandi occasioni.
Stappai, ne bevvi un sorso e poi, estremamente schifato, lo riposi nel frigo con un cucchiaino infilato nel collo.
Dopo qualche minuto il collo iniziò a dolermi. Sciacquai il cucchiaino dal sangue e lo infilai nella bottiglia.
Sono passati cinque anni da quel giorno, e non ho più festeggiato alcuna data.
Mille e ottocentoventicinque giorni in cui mi sono distratto giocando col tempo in questo monolocale ereditato dalla nonna, riempiendomi di bugie e psicofarmaci edulcorati.
La mignon di spumante è ancora nel frigo, il suo vetro non luccica più, le bollicine sono svanite, fuggite una ad una come le mie notti disperate alla ricerca di donne impossibili e colpi di genio. Il cucchiaino è arrugginito.
Mi sto chiedendo se ricordo la promessa che mi sono fatto, e soprattutto se sono convinto della scadenza. Non fraintendetemi, non ho particolari paure o progetti, pensavo che sarebbe il caso di accorciare i tempi.
La vita è quel grande dono, il rebus di cui non potrai sapere la soluzione l'indomani.
Amare, odiare, lavorare, dormire, per il resto non rimane molto tempo libero, se non quello per chiedere che senso abbia fare tutto questo.
E' meglio che me lo metta in testa, mentre succhio il cucchiaino. Vivere non ha senso.
Siamo travolti da una serie di eventi naturali che ci distraggono, ci sconvolgono, spesso limitano le nostre potenzialità. Io, in origine, ero intelligentissimo.
Madre Natura, come la chiamano, è l'essenza stessa dell'uomo, hai voglia di cercare di combattere i poteri negativi del destino, non facciamo altro che demolirci mentalmente.
La mia vita è un gioco noioso contro un avversario sconosciuto che mi vedrà sconfitto, inevitabilmente deluso, sia che lascerò il banco con un buon bottino o la coscienza di aver giocato bene, sia in caso di scorrettezze reiterate. Allora meglio bluffare, insultare l'avversario, chiunque esso sia. Mi sono sottratto per molto tempo a questa roulette, ma ho trovato durante i miei percorsi alternativi poca gente disposta a mollare tutto, pur consci che prima o poi avrebbero perso. La vita-gioco affascina, evidentemente, le tappe quasi obbligate illudono.
"Un figlio resta, potrà giocare lui con la mia posta".
Nessuno si chiede quali altri giochi esistono?
Ma certo che se lo chiedono, non m'illudo di essere speciali, c'è il gioco-droga, il gioco-sesso, il gioco-morte. Sudden-death.
davanti ad una fetta di pane ed un cucchiaio di maionese, mi chiedo se non sia più utile giocare a più giochi contemporaneamente, che rifiutarsi di giocare come ho fatto fino ad ora.
Se grande è la disperazione di chi perde dopo aver giocato per una vita ad un solo gioco, figuriamoci i rimpianti di chi non ci ha mai provato.
Ecco, mi è passata la fame, quando penso troppo mi passa l'appetito ed ho bisogno di fumare pesante, è una delle poche leggi del mio organismo.
Tu non mi cerchi da ormai troppo tempo, con te avrei giocato volentieri.
Eri un gioco supplementare, quello che deve essere sempre in equilibrio, una parità che lasci sempre l'impressione che una tattica improvvisa, un coup de theatre, possa ribaltare il risultato.
Un gioco che, fatto a regola d'arte, può bastare per tutta una vita.
Bah.
Com'è difficile trovare una compagna di giochi delle mie confuse ed incalcolabili reazioni emotive, anche tu, mia cara, sei andata per paura di non capirmi mai.
Fra cinque anni, lo giuro, dirò buonanotte a tutti e scolerò quell'ultimo sorso di spumante.
Chiusi il libro che avevo iniziato a leggere senza mestiere e andai in cucina a festeggiare la ricorrenza.
Ero solo in casa e nel frigorifero, oltre a cipolla e maionese, spiccava luccicante una bottiglietta di prosecco Riccadonna mignon, il piccolo spumante per le grandi occasioni.
Stappai, ne bevvi un sorso e poi, estremamente schifato, lo riposi nel frigo con un cucchiaino infilato nel collo.
Dopo qualche minuto il collo iniziò a dolermi. Sciacquai il cucchiaino dal sangue e lo infilai nella bottiglia.
Sono passati cinque anni da quel giorno, e non ho più festeggiato alcuna data.
Mille e ottocentoventicinque giorni in cui mi sono distratto giocando col tempo in questo monolocale ereditato dalla nonna, riempiendomi di bugie e psicofarmaci edulcorati.
La mignon di spumante è ancora nel frigo, il suo vetro non luccica più, le bollicine sono svanite, fuggite una ad una come le mie notti disperate alla ricerca di donne impossibili e colpi di genio. Il cucchiaino è arrugginito.
Mi sto chiedendo se ricordo la promessa che mi sono fatto, e soprattutto se sono convinto della scadenza. Non fraintendetemi, non ho particolari paure o progetti, pensavo che sarebbe il caso di accorciare i tempi.
La vita è quel grande dono, il rebus di cui non potrai sapere la soluzione l'indomani.
Amare, odiare, lavorare, dormire, per il resto non rimane molto tempo libero, se non quello per chiedere che senso abbia fare tutto questo.
E' meglio che me lo metta in testa, mentre succhio il cucchiaino. Vivere non ha senso.
Siamo travolti da una serie di eventi naturali che ci distraggono, ci sconvolgono, spesso limitano le nostre potenzialità. Io, in origine, ero intelligentissimo.
Madre Natura, come la chiamano, è l'essenza stessa dell'uomo, hai voglia di cercare di combattere i poteri negativi del destino, non facciamo altro che demolirci mentalmente.
La mia vita è un gioco noioso contro un avversario sconosciuto che mi vedrà sconfitto, inevitabilmente deluso, sia che lascerò il banco con un buon bottino o la coscienza di aver giocato bene, sia in caso di scorrettezze reiterate. Allora meglio bluffare, insultare l'avversario, chiunque esso sia. Mi sono sottratto per molto tempo a questa roulette, ma ho trovato durante i miei percorsi alternativi poca gente disposta a mollare tutto, pur consci che prima o poi avrebbero perso. La vita-gioco affascina, evidentemente, le tappe quasi obbligate illudono.
"Un figlio resta, potrà giocare lui con la mia posta".
Nessuno si chiede quali altri giochi esistono?
Ma certo che se lo chiedono, non m'illudo di essere speciali, c'è il gioco-droga, il gioco-sesso, il gioco-morte. Sudden-death.
davanti ad una fetta di pane ed un cucchiaio di maionese, mi chiedo se non sia più utile giocare a più giochi contemporaneamente, che rifiutarsi di giocare come ho fatto fino ad ora.
Se grande è la disperazione di chi perde dopo aver giocato per una vita ad un solo gioco, figuriamoci i rimpianti di chi non ci ha mai provato.
Ecco, mi è passata la fame, quando penso troppo mi passa l'appetito ed ho bisogno di fumare pesante, è una delle poche leggi del mio organismo.
Tu non mi cerchi da ormai troppo tempo, con te avrei giocato volentieri.
Eri un gioco supplementare, quello che deve essere sempre in equilibrio, una parità che lasci sempre l'impressione che una tattica improvvisa, un coup de theatre, possa ribaltare il risultato.
Un gioco che, fatto a regola d'arte, può bastare per tutta una vita.
Bah.
Com'è difficile trovare una compagna di giochi delle mie confuse ed incalcolabili reazioni emotive, anche tu, mia cara, sei andata per paura di non capirmi mai.
Fra cinque anni, lo giuro, dirò buonanotte a tutti e scolerò quell'ultimo sorso di spumante.
lunedì 16 febbraio 2009
GLI ALBUM DEL DECENNIO: AIMEE MANN "LOST IN SPACE"
Questa sì che è una bella sceneggiatura. L’estabilishment discografico americano avrebbe voluto fare di Aimee Mann l’ennesima bambolina pop-rock da lanciare nell’edulcorato mondo della canzonetta. Se qualcuno ricorda una idiot-band chiamata ‘Til tuesday se la dimentichi pure. Non c’era bisogno di ascoltare il nuovo album della cantautrice per rendersi conto che siamo davanti a una delle più intelligenti e affascinanti voci del panorama musicale mondiale. L’ex ragazzina prodigio diplomata a pieni voti alla prestigiosa Berkelee di Boston aveva già capito dopo i due album facili facili (come il successo) dei ‘Til tuesday che quella non era la sua strada. Lei scrive canzoni come cortometraggi, pellicole in note che parlano di ragazze insoddisfatte, piccole storie di ordinaria provincia, illusioni e disillusioni, avventure finite o senza finale, lieto o tragico che sia. Così il primo ad accorgersi di lei, dopo l’esordio solista di Whatever e la conferma di M with stupid, è il regista Paul Thomas Anderson che utilizza le sue storie come parte integrante di Magnolia, film capolavoro (Orso d’oro a Berlino). La sigla finale, “Save me”, complice un’incredibile pioggia di rane sulla città, rende al meglio l’atmosfera musicale di Aimee. Raramente connubio tra immagine e note è riuscito così bene. Dalle canzoni di Magnolia nasce Bachelor #2, di cui “Lost in space” è ideale seguito.
Quando si ha tra le mani un disco praticamente perfetto, bisognerebbe osservare un religioso silenzio della durata di 44 minuti e ascoltare, riascoltare e ascoltare ancora. Magari nel frattempo si può dare un’occhiata alla confezione, che per una raccolta di canzoni-film è un bel biglietto da visita. Due strisce a fumetti e disegni come fotografie scattate sul set del suo immaginario esordio da regista. “Lost in space”, perse nello spazio le creature di Aimee Mann. Lo spazio dell’anima, quello angusto di una notte in cui può essere raccontata la vita di migliaia di esseri umani. Proprio come accadeva in Magnolia. E’ arrivato il momento di ascoltare, riascoltare e ascoltare ancora. Prima la voce matura, asciutta nella costruzione delle melodie e mai fine a se stessa. Qualcosa di Joni Mitchell (inevitabile, per una cantautrice della nuova generazione), qualcosa di Fiona Apple, echi di Christine McVie dei Fleetwood Mac. Poi gli arrangiamenti: pochi riferimenti temporali (batteria morbida mescolata con i loop studiati dal marito Michael Penn), chitarre notturne, distorte con aria di temporale che deve arrivare, acustiche da spazi aperti del folk. Tastiere rare come studiatissimi ruoli secondari e brave a svanire lasciando la scia (The moth). Ma sono canzoni-film, quindi largo a un’orchestra d’archi mai invadente. Poco altro da dire, quando si può godere di composizioni meravigliose (Humpty dumpty, Today’s the day), improvvise aperture rock (Pavlov’s bell) e testi immaginifici (Lost in space) o ballate siderali (Real bad news, It’s not). Davvero niente da farsi perdonare (forse solo quel “Mario” che fa rima con Ohio). Non c’è un episodio fuori posto, un arrangiamento pretenzioso (non è mica Marianne Faithfull), un eccesso di minimalismo o una concessione al commerciale (non è mica Dido).
Che grande prova d’autore, che bel lungometraggio musicale, ragazzi. Poche luci, in campo. E’ notte, “lo stoppino non si preoccupa se la fiamma brucerà lentamente”. Forse perché il chiarore è quello di un talento accecante.
Alfredo del Curatolo
domenica 15 febbraio 2009
CROCCANTINI
Lavo l'insalata senza passione, accudisco il cane. La mia faccia è una maschera, il mio cervello un ripostiglio di rime sbagliate.
Il mio futuro nelle carte, ieri, non c'era, non si vede all'orizzonte e non lo trovo scritto in nessun almanacco. Il mio presente è vivere con questa mia presenza. Vorrei cadere senza farmi male, e non come ora bruciarmi il cuore senza incendiare la casa. Dio non è Dio, ed era banale quell'idea che fossimo uguali, almeno un po'. Torno a strizzare il cane, accarezzo l’insalata che mi lecca.
Non credo di essere pazzo, non quando mi guardo indietro e vedo com’ero.
Guardo il cane che vorrebbe una carezza e il cibo. Un’altra? Gli do da mangiare l’insalata.
Penso ai nemici e agli amici.
Gli uni sono furbi, gli altri stupidi e differenti, stare in mezzo non è la mia passione, meglio in basso, meglio in fuga.
Perdo la speranza di dopodomani.
Mi gioco il vino, la pappa del cane, qualche ora felice di ricordi, per un minuto di nervi.
Entra Clara e si fa sotto con tono vittimista.
Le do una carezza e una manciata di croccantini.
Ammiro i suoi otto anni intelligenti.
Saranno i croccantini.
"Si può essere infelici quando si è soli e nessuno ti vede?" mi chiede
Chi può comprendere i tuoi errori, mia cara, e conoscerne il perché? Si può essere imbecilli, al limite.
"A fin di bene..."
Si può sfidare la legge della propria natura, opporre le proprie forze al destino.
"E si può vincere?"
Ingenua. Non ora, non quando lo si vuole, forse solo quando si può, mai quando si deve.
"Si perde quasi sempre, allora"
Si perde la dignità fatta di parole sepolte in fondo al cuore spento che non sa comunicarne il dolore, poi si può piangere, ma serve solo a rimpiangersi e a mutare la malinconia in finti sentimenti nobili.
"Cosa si può fare, papà?"
Si può morire ed uccidere, ogni qual volta si voglia, questo si può fare.
"Non voglio morire soffrendo".
Prendi un altro po’ di croccantini.
Il mio futuro nelle carte, ieri, non c'era, non si vede all'orizzonte e non lo trovo scritto in nessun almanacco. Il mio presente è vivere con questa mia presenza. Vorrei cadere senza farmi male, e non come ora bruciarmi il cuore senza incendiare la casa. Dio non è Dio, ed era banale quell'idea che fossimo uguali, almeno un po'. Torno a strizzare il cane, accarezzo l’insalata che mi lecca.
Non credo di essere pazzo, non quando mi guardo indietro e vedo com’ero.
Guardo il cane che vorrebbe una carezza e il cibo. Un’altra? Gli do da mangiare l’insalata.
Penso ai nemici e agli amici.
Gli uni sono furbi, gli altri stupidi e differenti, stare in mezzo non è la mia passione, meglio in basso, meglio in fuga.
Perdo la speranza di dopodomani.
Mi gioco il vino, la pappa del cane, qualche ora felice di ricordi, per un minuto di nervi.
Entra Clara e si fa sotto con tono vittimista.
Le do una carezza e una manciata di croccantini.
Ammiro i suoi otto anni intelligenti.
Saranno i croccantini.
"Si può essere infelici quando si è soli e nessuno ti vede?" mi chiede
Chi può comprendere i tuoi errori, mia cara, e conoscerne il perché? Si può essere imbecilli, al limite.
"A fin di bene..."
Si può sfidare la legge della propria natura, opporre le proprie forze al destino.
"E si può vincere?"
Ingenua. Non ora, non quando lo si vuole, forse solo quando si può, mai quando si deve.
"Si perde quasi sempre, allora"
Si perde la dignità fatta di parole sepolte in fondo al cuore spento che non sa comunicarne il dolore, poi si può piangere, ma serve solo a rimpiangersi e a mutare la malinconia in finti sentimenti nobili.
"Cosa si può fare, papà?"
Si può morire ed uccidere, ogni qual volta si voglia, questo si può fare.
"Non voglio morire soffrendo".
Prendi un altro po’ di croccantini.
sabato 14 febbraio 2009
SAN VALENTINO E LE STUDENTESSE
"Per San Valentino ti faccio sconto".
Anche le ragazze locali, quelle che ormai noi residenti di Malindi siamo soliti chiamare "studentesse", perché c'è ancora chi ci casca o fa finta di abboccare per dipingere di rosa lo squallore o la fame, avvertono la crisi e s'inventano l'offerta speciale.
D'altronde oggi nel mondo è il giorno dedicato alla passione amorosa che, è inutile negarlo, senza il sesso sarebbe come Dio senza la Chiesa: qualcosa di completamente astratto e indimostrabile.
Invece nei fatti l'amore è qualcosa di astratto e indimostrabile ma il sesso gli dà una parvenza di verità. Perché in realtà, soprattutto in Africa, il sesso esiste, l'amore non si sa.
"Per San Valentino ti faccio un bel…regalino!"
L'Unicef ha scelto il giorno giusto per pubblicare il rapporto annuale sulla prostituzione in Kenya e in particolare sulla costa keniota. La notizia è che gli italiani, dopo anni di sofferenze e torti subiti (un po' come l'Inter con la Juventus) hanno superato in classifica i tedeschi, 18% dei fruitori contro il 14% dei crucchi. Al terzo posto spiccano gli svizzeri con il 12% e francamente si tratta di una sorpresa, considerando che la media è alzata da alcuni direttori di alberghi e villaggi vacanze del Canton Ticino (insomma un altro primato che sentiamo un po' nostro).
Ci sono però dati e considerazioni che l'Unicef non pubblicizza abbastanza, o relega nelle ultime pagine della relazione annuale: intanto che le percentuali non sono equiparate al numero complessivo di visitatori e residenti stranieri in Kenya.
I mangiatori di cioccolata (sarà il colore ad attrarli?) sarebbero di gran lunga primi in classifica, rispetto ai tedeschi e gli italiani se la vedrebbero addirittura con gli inglesi per l'ingresso nella Champions League dei puttanieri.
Ma quel che l'Unicef fa passare in secondo piano, perché qui si entra nelle abitudini di una nazione, di un popolo, nella storia di un'intero continente e i rapporti annuali vanno a farsi benedire, è che il quaranta per cento degli acquirenti delle ragazze che vendono il proprio corpo sono locali. Kenioti.
Come dire che la prostituzione (utile ricordare che in Kenya non esiste il racket, non ci sono magnaccia se non qualche proprietario di discoteca che chiede piccoli "favori" in cambio di ingresso e drink) in un caso su due è un fatto nazionale, le studentesse si applicano comunque a casa, prima di dare esami orali e scritti da privatiste. Per non parlare del fenomeno in gran crescita della prostituzione maschile: dove sono i dati Unicef? Qui a Malindi ultimamente si vedono più coppie miste con lei bianca che il contrario. Ma la cultura maschilista italiana, pur disprezzando questo tipo di donna, rovescia incredibilmente la frittata: la troia, insomma, è lei. Anche se offre da bere come l'uomo, fa finta di innamorarsi come l'uomo, paga la prestazione come l'uomo.
Di novità in novità: segno dei tempi e della colonizzazione dei costumi occidentali, emerge anche un nuovissimo fenomeno: le studentesse locali, dopo aver guadagnato, pagano a loro volta un bel ragazzetto africano, uno di quelli che magari hanno adocchiato dal primo momento ma che non le ha mai degnate di uno sguardo. Adesso se lo possono permettere!
Prostituzione locale femminile…ah, se l'Unicef mi assumesse ne avrei di cosucce da raccontare nel prossimo "annual report", ma chissà se interesserebbero a chi è abituato a numeri e analisi di laboratorio.
In un'ottica del genere, ha senso puntare il dito contro gli stranieri che trovano una situazione del genere sulla costa dell'Oceano Indiano? Che senso ha parlare di rapporto annuale quando l'Africa tutta è un gran rapporto anale?
In questo San Valentino d'amore, in cui le rose di Naivasha non sono riuscite a partire tutte per l'Olanda e per il mondo intero per la mancanza di operai Luo e Kalenjin, dispersi dai kikuyu, i numeri hanno ancor meno valore, al limite quel che risalta a Malindi è l'età media dei "professori" rimasti per le povere alunne in offerta speciale: gobbetti ultrasessantenni, pensionati toscani unti (quelli che non capisci se hanno i capelli bianco-giallastro perché non si lavano o perché si pisciano a letto e poi ci si rivoltano dentro), ex camionisti stempiati ma col codino che gli arriva al culo e reduci vari della guerra italiana contro la vita.
Considerato che alle studentesse non dispiace passare una serata in compagnia di coetanei o connazionali, farsi offrire un drink, farsi pagare l'ingresso in discoteca e ballare, poi magari trovare due soldi sul comodino la mattina (un po' come dappertutto, con qualche zero in meno o in più…), quel che salta all'occhio è la differenza d'età, la tristezza di una compagnia così innaturale.
Anche qui però, bando alle ipocrisie.
Una studentessa, credo universitaria data la saggezza, una sera mi confidò che per lei e le sue compagne di classe è meglio il vecchietto perché "mi bacia, mi lecca e si addormenta subito, io prendo due soldi e torno a ballare".
C'è da incazzarsi parecchio invece quando si affronta il problema del turismo sessuale minorile, dove (c'è da dirlo) i tedeschi sono i più malati. A Mwtuapa, vicino a Mombasa c'è addirittura il turismo sessuale minorile delle tedesche nei confronti dei bambini maschi. Roba da accapponare la pelle, da pensare come una grave malformazione che andrebbe compassionevolmente curata, perché viene davvero da riflettere al pensiero di quali gravi tare psichiche o problemi patiti in gioventù possano portare persone di cultura occidentale ad approfittare di bambini africani.
Viva il giorno degli innamorati anche in Africa e perché no, viva anche il mestiere più antico del mondo, se appartiene al regno dell'amore libero, del libero arbitrio, del sostentamento che altrimenti dall'uomo (purtroppo) non arriverebbe, dalla mancanza di sfruttamento, dall'assenza di vecchi bavosi e soprattutto di persone mentalmente disturbate che possono rovinare una vita sul nascere.
Anche le ragazze locali, quelle che ormai noi residenti di Malindi siamo soliti chiamare "studentesse", perché c'è ancora chi ci casca o fa finta di abboccare per dipingere di rosa lo squallore o la fame, avvertono la crisi e s'inventano l'offerta speciale.
D'altronde oggi nel mondo è il giorno dedicato alla passione amorosa che, è inutile negarlo, senza il sesso sarebbe come Dio senza la Chiesa: qualcosa di completamente astratto e indimostrabile.
Invece nei fatti l'amore è qualcosa di astratto e indimostrabile ma il sesso gli dà una parvenza di verità. Perché in realtà, soprattutto in Africa, il sesso esiste, l'amore non si sa.
"Per San Valentino ti faccio un bel…regalino!"
L'Unicef ha scelto il giorno giusto per pubblicare il rapporto annuale sulla prostituzione in Kenya e in particolare sulla costa keniota. La notizia è che gli italiani, dopo anni di sofferenze e torti subiti (un po' come l'Inter con la Juventus) hanno superato in classifica i tedeschi, 18% dei fruitori contro il 14% dei crucchi. Al terzo posto spiccano gli svizzeri con il 12% e francamente si tratta di una sorpresa, considerando che la media è alzata da alcuni direttori di alberghi e villaggi vacanze del Canton Ticino (insomma un altro primato che sentiamo un po' nostro).
Ci sono però dati e considerazioni che l'Unicef non pubblicizza abbastanza, o relega nelle ultime pagine della relazione annuale: intanto che le percentuali non sono equiparate al numero complessivo di visitatori e residenti stranieri in Kenya.
I mangiatori di cioccolata (sarà il colore ad attrarli?) sarebbero di gran lunga primi in classifica, rispetto ai tedeschi e gli italiani se la vedrebbero addirittura con gli inglesi per l'ingresso nella Champions League dei puttanieri.
Ma quel che l'Unicef fa passare in secondo piano, perché qui si entra nelle abitudini di una nazione, di un popolo, nella storia di un'intero continente e i rapporti annuali vanno a farsi benedire, è che il quaranta per cento degli acquirenti delle ragazze che vendono il proprio corpo sono locali. Kenioti.
Come dire che la prostituzione (utile ricordare che in Kenya non esiste il racket, non ci sono magnaccia se non qualche proprietario di discoteca che chiede piccoli "favori" in cambio di ingresso e drink) in un caso su due è un fatto nazionale, le studentesse si applicano comunque a casa, prima di dare esami orali e scritti da privatiste. Per non parlare del fenomeno in gran crescita della prostituzione maschile: dove sono i dati Unicef? Qui a Malindi ultimamente si vedono più coppie miste con lei bianca che il contrario. Ma la cultura maschilista italiana, pur disprezzando questo tipo di donna, rovescia incredibilmente la frittata: la troia, insomma, è lei. Anche se offre da bere come l'uomo, fa finta di innamorarsi come l'uomo, paga la prestazione come l'uomo.
Di novità in novità: segno dei tempi e della colonizzazione dei costumi occidentali, emerge anche un nuovissimo fenomeno: le studentesse locali, dopo aver guadagnato, pagano a loro volta un bel ragazzetto africano, uno di quelli che magari hanno adocchiato dal primo momento ma che non le ha mai degnate di uno sguardo. Adesso se lo possono permettere!
Prostituzione locale femminile…ah, se l'Unicef mi assumesse ne avrei di cosucce da raccontare nel prossimo "annual report", ma chissà se interesserebbero a chi è abituato a numeri e analisi di laboratorio.
In un'ottica del genere, ha senso puntare il dito contro gli stranieri che trovano una situazione del genere sulla costa dell'Oceano Indiano? Che senso ha parlare di rapporto annuale quando l'Africa tutta è un gran rapporto anale?
In questo San Valentino d'amore, in cui le rose di Naivasha non sono riuscite a partire tutte per l'Olanda e per il mondo intero per la mancanza di operai Luo e Kalenjin, dispersi dai kikuyu, i numeri hanno ancor meno valore, al limite quel che risalta a Malindi è l'età media dei "professori" rimasti per le povere alunne in offerta speciale: gobbetti ultrasessantenni, pensionati toscani unti (quelli che non capisci se hanno i capelli bianco-giallastro perché non si lavano o perché si pisciano a letto e poi ci si rivoltano dentro), ex camionisti stempiati ma col codino che gli arriva al culo e reduci vari della guerra italiana contro la vita.
Considerato che alle studentesse non dispiace passare una serata in compagnia di coetanei o connazionali, farsi offrire un drink, farsi pagare l'ingresso in discoteca e ballare, poi magari trovare due soldi sul comodino la mattina (un po' come dappertutto, con qualche zero in meno o in più…), quel che salta all'occhio è la differenza d'età, la tristezza di una compagnia così innaturale.
Anche qui però, bando alle ipocrisie.
Una studentessa, credo universitaria data la saggezza, una sera mi confidò che per lei e le sue compagne di classe è meglio il vecchietto perché "mi bacia, mi lecca e si addormenta subito, io prendo due soldi e torno a ballare".
C'è da incazzarsi parecchio invece quando si affronta il problema del turismo sessuale minorile, dove (c'è da dirlo) i tedeschi sono i più malati. A Mwtuapa, vicino a Mombasa c'è addirittura il turismo sessuale minorile delle tedesche nei confronti dei bambini maschi. Roba da accapponare la pelle, da pensare come una grave malformazione che andrebbe compassionevolmente curata, perché viene davvero da riflettere al pensiero di quali gravi tare psichiche o problemi patiti in gioventù possano portare persone di cultura occidentale ad approfittare di bambini africani.
Viva il giorno degli innamorati anche in Africa e perché no, viva anche il mestiere più antico del mondo, se appartiene al regno dell'amore libero, del libero arbitrio, del sostentamento che altrimenti dall'uomo (purtroppo) non arriverebbe, dalla mancanza di sfruttamento, dall'assenza di vecchi bavosi e soprattutto di persone mentalmente disturbate che possono rovinare una vita sul nascere.
lunedì 9 febbraio 2009
NONNO KAZUNGU E GLI ABUSI SUI MINORI
Quella mattina nonno Kazungu era di pessimo umore.
Non che dal suo sguardo trasparissero segnali di livore trattenuto o di insofferenza, ma quando le labbra faticavano a schiudersi in un sorriso appena accennato ai nipoti, prima di vederli scomparire dietro al grande baobab per andare a scuola, nonna Conjestina era certa che ci fosse qualcosa che non andava. Si era anche dimenticato di prendere il bastone nel cacatoio e, nello sforzo, aveva fatto un bel capitombolo su un fianco. Ci aveva messo un bel po' a tirarsi su e perfino la capra lo aveva guardato con compassione, senza belare per almeno un minuto.
La giornata era iniziata male. Era stato destato dal rumore di grandi fuoristrada che avevano fatto tappa a Kakoneni. Non erano i soliti pulmini o le Land Cruiser dei safaristi che sfrecciano veloci e lasciano un gran polverone e nessun altro ricordo. Erano macchinoni bianchi con a bordo wazungu, specialmente donne, e kenioti ben vestiti. Dopo un quarto d'ora, nel villaggio già si sapeva che appartenevano a qualche organizzazione che voleva aiutare i bambini.
“Costruiranno un nuovo orfanotrofio?” chiese Conjestina.
Nonno Kazungu bevve il suo the in silenzio. Aveva capito che quei bianchi non erano lì per donare vestiti o generi alimentari, nè per affari.
Lavoravano a qualcosa di più importante, qualcosa a lunga gittata.
“Forse porteranno l'elettricità dappertutto...” insistette la donna.
Il vecchio sbattè con energia la tazza di latta contro il ceppo che fungeva da tavolo, al centro della radura, come a dire di non seguitare a far inutili congetture.
“Hai negli occhi più rughe che sulla fronte” le disse la seconda moglie “non te la prendere con me”.
“Ci sono cose che non vanno bene, nel villaggio” si limitò a dire il vecchio, come attraversato da un fulmine di presentimenti, prima di prendere la via dello shamba.
Camminando, collegava alcuni avvenimenti e rifletteva.
Il figlio Ndoro, la sera prima era tornato ubriaco.
Non era una novità, ma una battaglia persa. Ndoro beveva mnazi oltre il dovuto ormai da anni, da quando aveva perso il lavoro e una mano negli ingranaggi di una macchina per fabbricare assi di legno. Una distrazione, disse il suo capo muhindi, non un difetto della macchina. Probabilmente era andata così. Ndoro si distraeva spesso: un pettegolezzo del collega, lo sguardo della mama che arrivava con le patate dolci, una bicicletta con il sellino inedito.
Con diecimila scellini era stato liquidato, ma la mano non gliel'aveva restituita nessuno, e nemmeno il lavoro. Altro che pensione di invalidità, il mnazi era diventato la sua religione.
Ndoro aveva due figli, Kokoto e Veronique. Quando tornava ubriaco a casa, si infilava nel loro letto. Kokoto si divincolava e andava a dormire con Kibebe, lo scemo, sotto al grande baobab.
La piccola Veronique, dieci anni, non riusciva a sfuggire dalla morsa del padre.
Accadeva più o meno una volta alla settimana.
Nel villaggio la voce aveva iniziato a circolare, ma nessuno aveva mai voglia di affrontare l'argomento e nonno Kazungu, tornato da poco a Kakoneni dopo aver passato quasi mezzo secolo a Malindi, al servizio di villeggianti, non riusciva a rompere quel muro d'omertà più duro del cemento con cui era stato costruito il Safari Bar.
Kokoto aveva provato anche a farsi annettere all'orfanotrofio di Ganda, ma gli avevano detto che lui una famiglia ce l'aveva, e poi non era di Ganda. Un giorno però era passata una ragazza mzunga accompagnata da un giovane kikuyu, avevano fatto alcune domande alla moglie di Ndoro. I bambini erano a scuola, il figlio di Kazungu chissà in quale chiosco a perdersi.
Ecco dove aveva visto quella ragazza.
Era la stessa che era scesa da quella grande macchina bianca all'alba.
“Questo non ha nulla a che fare con Malindi – pensò il vecchio – questi italiani non sono qui in vacanza e non vogliono fare beneficenza”.
Se ne andò al Safari Bar.
Il barista Kibonge si era alzato da poco e stava finendo di pulire con uno strofinaccio consunto i tavolini di fòrmica. Cantava una canzone che aveva ascoltato la sera prima su Mtv. Una canzone di Beyoncé latrata come farebbe Adriano Pappalardo se fosse nato a Matsangoni.
“Mzee, che piacere vederti in giro a quest'ora...accendo la televisione?”
“Lascia stare, Kibonge”
“Cosa è successo?”
“Hai visto quei fuoristrada?”
“Già. Belle ruote. Solidarietà muzunga anche per noi di Kakoneni?”
“Non credo”
“La chiesa?”
“No. E nemmeno un nuovo ospedale, ne sono quasi certo”
“E allora chi sono? Basta che non facciano un altro bar...”
“Sono Wazungu che hanno capito qualcosa di diverso”.
“Diverso?”
Kibonge aveva quattro figli, tre maschi e una femmina. Ma non li vedeva quasi mai, da tempo erano parcheggiati nel villaggio dei genitori, al di là del fiume Sabaki.
“Come cresce la tua bambina?”
“Bene, credo. Mi costa una fortuna farla studiare”
“Quanti anni ha?”
“Undici. Perchè queste domande, mzee?”
“Noi non vediamo l'ora che i nostri figli siano grandi, facciamo di tutto perchè lo diventino il più presto possibile.”
“Effettivamente siamo i più lenti in questo...i cuccioli di elefante ad esempio...”
“Lascia perdere, Kibonge. Dammi una fanta tiepida, per favore”.
Il pomeriggio lo Svaporato, il figlio del suo ultimo datore di lavoro mzungu, era arrivato al villaggio per portare medicine e taniche di olio usato recuperato da alcuni alberghi.
Aveva mangiato kassava fritta con il vecchio e gli aveva spiegato a chi appartenevano i fuoristrada del mattino.
Se lo aspettava.
“E' in atto una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi sessuali ai minori, da parte di alcune associazioni keniote e italiane – spiegò il mzungu – un lavoro svolto contemporaneamente nei vostri villaggi e nei luoghi frequentati dagli stranieri”.
“Cosa vogliono ottenere?” chiese Kazungu, che stentava a trovare un nesso tra la follia di Ndoro e le tentazioni dei turisti della costa.
“In Italia hanno scritto cose assurde sugli italiani – disse lo Svaporato – dicono che andiamo nei villaggi e prendiamo bambini e bambine, poi ce le portiamo nelle ville e le violentiamo, che la comunità di residenti accoglie interi charter di pedofili e gli vendono le ragazzine”.
Nonno Kazungu stava per mettersi a ridere, ma capì che il suo amico diceva sul serio, ne uscì una smorfia agrodolce.
“Ma che storie sono queste! In tanti anni non ho mai visto cose simili...italiani che comprano le bambine e le rivendono? La tratta degli schiavi è finita duecento anni fa! Certo, la costa è sempre stata piena di malaya giovani, ragazzine scappate da casa, specialmente dal nord del Paese. Ma noi giriama non venderemo mai nostra figlia per soddisfare le voglie di un mzungu. Un conto è se la vuole sposare. Anche noi paghiamo, per prendere moglie. Deve scappare da casa, se vuole fare una vita del genere. Le bambine poi, ma come si fa...”.
“Per i soldi si farebbe di tutto...” disse sconsolato lo Svaporato, che conosceva le squallide abitudini di alcuni suoi connazionali ma anche gli ancestrali richiami della popolazione locale.
Il vecchio si alzò in piedi.
Non sapeva con chi prendersela ma aveva capito che bisognava agire.
“Andiamo”.
Kazungu gli si mise di fianco e lo fece entrare per primo al Safari Bar.
Lui si fermò, come per lasciare quella conversazione poco piacevole fuori da un luogo di culto.
“E' vero quel che dici, mzee – lo apostrofò lo Svaporato - ma è vero anche che c'è qualcosa che non va, da queste parti, come nel resto del mondo. Molte di quelle ragazzine hanno subito abusi e violenze in ambito familiare, prima di concedersi agli wazungu. Il problema ce l'avete in casa vostra, prima che con gli ospiti. Non centra Malindi, è qualcosa che ha a che fare con la cultura africana, che assomiglia a quella italiana di tanti anni fa”.
Kazungu, entrando, si rese conto che in quel momento stava facendo un distinguo tra la violenza “retribuita” di un bianco, che gli appariva come un crimine, come l'ennesimo sfruttamento di quelli che in fondo erano dei “colonizzatori buoni” e quella probabile, terribile, atavica consumata tra le mura domestiche da suo figlio e chissà da quanti altri padri e fratelli snaturati.
Rabbrividì.
Lo Svaporato lo vide cambiare espressione (colore era impossibile...) e provò con una Tusker.
“No, grazie. Il tuo discorso mi ha dato da pensare”
Uscì di nuovo sulla soglia del bar, come gli mancasse l'aria. Vide le capanne del suo villaggio ed ebbe un leggero capogiro. Vide stupri consumati senza violenza in ogni letto di ragazzine e ragazzini, vide famigliole felici la domenica fuori dalla chiesa ed esaminò gli sguardi di tutte le Veronique di Kakoneni. Cosa c'era di normale in quello che accadeva da sempre? Come mai tutto d'un tratto si rendeva conto che il male si nascondeva ovunque, anche in una povera, tranquilla comunità rurale a cento chilometri da Malindi?
Lo Svaporato lo raggiunse sospettoso, gli lesse gli occhi e si accese una delle sue rare sigarette.
“Amo la libertà dell'Africa, lo sai – disse – e anche le regole a volte crudeli ma immutabili del regno degli animali. Ma noi siamo esseri umani, certe abitudini non devono fare parte del nostro vivere. C'è gente malata, Kazungu, che deve essere isolata e curata”.
Il vecchio recuperò un filo di voce. Si sentiva colpevole per ogni notte ubriaca di Ndoro.
“Cosa state facendo a Malindi?”
“Educhiamo i giovani, avvertiamo i turisti, cerchiamo quei pochi residenti che hanno la tentazione di vivere il Kenya da animali anche nelle loro deviazioni. Si chiama pedofilia, Kazungu. E noi la combattiamo”.
“Ma... le malaya?”
“E' un discorso complicato, mzee. Personalmente non voglio dover pensare che una ragazza maggiorenne offra il suo corpo a un ricco turista straniero solo e sempre perchè in passato è stata vittima di violenze. Voglio pensare che stia cercando di accasarsi il meglio possibile, che abbia imparato il significato della parola “reversibilità”, che sappia di poter rappresentare un piacevole diversivo e ricevere in cambio qualcosa che le serve. Le vedo spesso fare la coda alla Western Union con il gruzzoletto da mandare a casa, al nord. Soldini per mantenere la famiglia, una sorellina agli studi. A casa pensano che facciano la segretaria, che stiano lavorando nel turismo”.
“E invece molte di loro hanno subito violenze da piccole...”
“Proprio così, Kazungu. Una su tre, all'incirca. Odiano gli uomini, di qualunque razza siano. Bevono, non vogliono una relazione fissa, vivono alla giornata e si spendono tutti i denari guadagnati in poco tempo. Quelle sono le donne che non vorrei vedere, in giro la sera. Anime disperate che non credono di avere altra scelta, la cui sessualità è stata dilaniata molto tempo prima del mzungu”.
Il nonno prese per il braccio il suo nipote bianco e si diresse a passo di mulo verso la capanna di Ndoro.
Guardò il cielo sopra il grande baobab. Due nuvole facevano a gara a rincorrersi, sembravano due adolescenti invaghiti del primo gioco d'amore. Ridere, saltare, cercarsi, tenersi per mano e nascondersi per farsi trovare. Correre, voltarsi, cadere e abbandonarsi sfiniti su un prato.
“Le cose cambieranno – sussurrò, riportando lo sguardo all'altezza delle cose terrene – dobbiamo fare qualcosa. E lo faremo”.
“Lo stiamo già facendo, nonno!”
Dicembre 2008: A Malindi Unicef, Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e l'associazione di imprenditori e operatori turistici italiani MWTWG intraprendono un percorso comune di prevenzione e sensibilizzazione contro gli abusi ai minori e per la tutela dei bambini e lanciano la campagna "MALINDI PROTEGGE I BAMBINI".
E' la prima volta in assoluto, non solo in Africa, che organizzazioni non governative che operano nel sociale e il mondo del turismo si uniscono per combattere la pedofilia.
Non che dal suo sguardo trasparissero segnali di livore trattenuto o di insofferenza, ma quando le labbra faticavano a schiudersi in un sorriso appena accennato ai nipoti, prima di vederli scomparire dietro al grande baobab per andare a scuola, nonna Conjestina era certa che ci fosse qualcosa che non andava. Si era anche dimenticato di prendere il bastone nel cacatoio e, nello sforzo, aveva fatto un bel capitombolo su un fianco. Ci aveva messo un bel po' a tirarsi su e perfino la capra lo aveva guardato con compassione, senza belare per almeno un minuto.
La giornata era iniziata male. Era stato destato dal rumore di grandi fuoristrada che avevano fatto tappa a Kakoneni. Non erano i soliti pulmini o le Land Cruiser dei safaristi che sfrecciano veloci e lasciano un gran polverone e nessun altro ricordo. Erano macchinoni bianchi con a bordo wazungu, specialmente donne, e kenioti ben vestiti. Dopo un quarto d'ora, nel villaggio già si sapeva che appartenevano a qualche organizzazione che voleva aiutare i bambini.
“Costruiranno un nuovo orfanotrofio?” chiese Conjestina.
Nonno Kazungu bevve il suo the in silenzio. Aveva capito che quei bianchi non erano lì per donare vestiti o generi alimentari, nè per affari.
Lavoravano a qualcosa di più importante, qualcosa a lunga gittata.
“Forse porteranno l'elettricità dappertutto...” insistette la donna.
Il vecchio sbattè con energia la tazza di latta contro il ceppo che fungeva da tavolo, al centro della radura, come a dire di non seguitare a far inutili congetture.
“Hai negli occhi più rughe che sulla fronte” le disse la seconda moglie “non te la prendere con me”.
“Ci sono cose che non vanno bene, nel villaggio” si limitò a dire il vecchio, come attraversato da un fulmine di presentimenti, prima di prendere la via dello shamba.
Camminando, collegava alcuni avvenimenti e rifletteva.
Il figlio Ndoro, la sera prima era tornato ubriaco.
Non era una novità, ma una battaglia persa. Ndoro beveva mnazi oltre il dovuto ormai da anni, da quando aveva perso il lavoro e una mano negli ingranaggi di una macchina per fabbricare assi di legno. Una distrazione, disse il suo capo muhindi, non un difetto della macchina. Probabilmente era andata così. Ndoro si distraeva spesso: un pettegolezzo del collega, lo sguardo della mama che arrivava con le patate dolci, una bicicletta con il sellino inedito.
Con diecimila scellini era stato liquidato, ma la mano non gliel'aveva restituita nessuno, e nemmeno il lavoro. Altro che pensione di invalidità, il mnazi era diventato la sua religione.
Ndoro aveva due figli, Kokoto e Veronique. Quando tornava ubriaco a casa, si infilava nel loro letto. Kokoto si divincolava e andava a dormire con Kibebe, lo scemo, sotto al grande baobab.
La piccola Veronique, dieci anni, non riusciva a sfuggire dalla morsa del padre.
Accadeva più o meno una volta alla settimana.
Nel villaggio la voce aveva iniziato a circolare, ma nessuno aveva mai voglia di affrontare l'argomento e nonno Kazungu, tornato da poco a Kakoneni dopo aver passato quasi mezzo secolo a Malindi, al servizio di villeggianti, non riusciva a rompere quel muro d'omertà più duro del cemento con cui era stato costruito il Safari Bar.
Kokoto aveva provato anche a farsi annettere all'orfanotrofio di Ganda, ma gli avevano detto che lui una famiglia ce l'aveva, e poi non era di Ganda. Un giorno però era passata una ragazza mzunga accompagnata da un giovane kikuyu, avevano fatto alcune domande alla moglie di Ndoro. I bambini erano a scuola, il figlio di Kazungu chissà in quale chiosco a perdersi.
Ecco dove aveva visto quella ragazza.
Era la stessa che era scesa da quella grande macchina bianca all'alba.
“Questo non ha nulla a che fare con Malindi – pensò il vecchio – questi italiani non sono qui in vacanza e non vogliono fare beneficenza”.
Se ne andò al Safari Bar.
Il barista Kibonge si era alzato da poco e stava finendo di pulire con uno strofinaccio consunto i tavolini di fòrmica. Cantava una canzone che aveva ascoltato la sera prima su Mtv. Una canzone di Beyoncé latrata come farebbe Adriano Pappalardo se fosse nato a Matsangoni.
“Mzee, che piacere vederti in giro a quest'ora...accendo la televisione?”
“Lascia stare, Kibonge”
“Cosa è successo?”
“Hai visto quei fuoristrada?”
“Già. Belle ruote. Solidarietà muzunga anche per noi di Kakoneni?”
“Non credo”
“La chiesa?”
“No. E nemmeno un nuovo ospedale, ne sono quasi certo”
“E allora chi sono? Basta che non facciano un altro bar...”
“Sono Wazungu che hanno capito qualcosa di diverso”.
“Diverso?”
Kibonge aveva quattro figli, tre maschi e una femmina. Ma non li vedeva quasi mai, da tempo erano parcheggiati nel villaggio dei genitori, al di là del fiume Sabaki.
“Come cresce la tua bambina?”
“Bene, credo. Mi costa una fortuna farla studiare”
“Quanti anni ha?”
“Undici. Perchè queste domande, mzee?”
“Noi non vediamo l'ora che i nostri figli siano grandi, facciamo di tutto perchè lo diventino il più presto possibile.”
“Effettivamente siamo i più lenti in questo...i cuccioli di elefante ad esempio...”
“Lascia perdere, Kibonge. Dammi una fanta tiepida, per favore”.
Il pomeriggio lo Svaporato, il figlio del suo ultimo datore di lavoro mzungu, era arrivato al villaggio per portare medicine e taniche di olio usato recuperato da alcuni alberghi.
Aveva mangiato kassava fritta con il vecchio e gli aveva spiegato a chi appartenevano i fuoristrada del mattino.
Se lo aspettava.
“E' in atto una campagna di sensibilizzazione contro gli abusi sessuali ai minori, da parte di alcune associazioni keniote e italiane – spiegò il mzungu – un lavoro svolto contemporaneamente nei vostri villaggi e nei luoghi frequentati dagli stranieri”.
“Cosa vogliono ottenere?” chiese Kazungu, che stentava a trovare un nesso tra la follia di Ndoro e le tentazioni dei turisti della costa.
“In Italia hanno scritto cose assurde sugli italiani – disse lo Svaporato – dicono che andiamo nei villaggi e prendiamo bambini e bambine, poi ce le portiamo nelle ville e le violentiamo, che la comunità di residenti accoglie interi charter di pedofili e gli vendono le ragazzine”.
Nonno Kazungu stava per mettersi a ridere, ma capì che il suo amico diceva sul serio, ne uscì una smorfia agrodolce.
“Ma che storie sono queste! In tanti anni non ho mai visto cose simili...italiani che comprano le bambine e le rivendono? La tratta degli schiavi è finita duecento anni fa! Certo, la costa è sempre stata piena di malaya giovani, ragazzine scappate da casa, specialmente dal nord del Paese. Ma noi giriama non venderemo mai nostra figlia per soddisfare le voglie di un mzungu. Un conto è se la vuole sposare. Anche noi paghiamo, per prendere moglie. Deve scappare da casa, se vuole fare una vita del genere. Le bambine poi, ma come si fa...”.
“Per i soldi si farebbe di tutto...” disse sconsolato lo Svaporato, che conosceva le squallide abitudini di alcuni suoi connazionali ma anche gli ancestrali richiami della popolazione locale.
Il vecchio si alzò in piedi.
Non sapeva con chi prendersela ma aveva capito che bisognava agire.
“Andiamo”.
Kazungu gli si mise di fianco e lo fece entrare per primo al Safari Bar.
Lui si fermò, come per lasciare quella conversazione poco piacevole fuori da un luogo di culto.
“E' vero quel che dici, mzee – lo apostrofò lo Svaporato - ma è vero anche che c'è qualcosa che non va, da queste parti, come nel resto del mondo. Molte di quelle ragazzine hanno subito abusi e violenze in ambito familiare, prima di concedersi agli wazungu. Il problema ce l'avete in casa vostra, prima che con gli ospiti. Non centra Malindi, è qualcosa che ha a che fare con la cultura africana, che assomiglia a quella italiana di tanti anni fa”.
Kazungu, entrando, si rese conto che in quel momento stava facendo un distinguo tra la violenza “retribuita” di un bianco, che gli appariva come un crimine, come l'ennesimo sfruttamento di quelli che in fondo erano dei “colonizzatori buoni” e quella probabile, terribile, atavica consumata tra le mura domestiche da suo figlio e chissà da quanti altri padri e fratelli snaturati.
Rabbrividì.
Lo Svaporato lo vide cambiare espressione (colore era impossibile...) e provò con una Tusker.
“No, grazie. Il tuo discorso mi ha dato da pensare”
Uscì di nuovo sulla soglia del bar, come gli mancasse l'aria. Vide le capanne del suo villaggio ed ebbe un leggero capogiro. Vide stupri consumati senza violenza in ogni letto di ragazzine e ragazzini, vide famigliole felici la domenica fuori dalla chiesa ed esaminò gli sguardi di tutte le Veronique di Kakoneni. Cosa c'era di normale in quello che accadeva da sempre? Come mai tutto d'un tratto si rendeva conto che il male si nascondeva ovunque, anche in una povera, tranquilla comunità rurale a cento chilometri da Malindi?
Lo Svaporato lo raggiunse sospettoso, gli lesse gli occhi e si accese una delle sue rare sigarette.
“Amo la libertà dell'Africa, lo sai – disse – e anche le regole a volte crudeli ma immutabili del regno degli animali. Ma noi siamo esseri umani, certe abitudini non devono fare parte del nostro vivere. C'è gente malata, Kazungu, che deve essere isolata e curata”.
Il vecchio recuperò un filo di voce. Si sentiva colpevole per ogni notte ubriaca di Ndoro.
“Cosa state facendo a Malindi?”
“Educhiamo i giovani, avvertiamo i turisti, cerchiamo quei pochi residenti che hanno la tentazione di vivere il Kenya da animali anche nelle loro deviazioni. Si chiama pedofilia, Kazungu. E noi la combattiamo”.
“Ma... le malaya?”
“E' un discorso complicato, mzee. Personalmente non voglio dover pensare che una ragazza maggiorenne offra il suo corpo a un ricco turista straniero solo e sempre perchè in passato è stata vittima di violenze. Voglio pensare che stia cercando di accasarsi il meglio possibile, che abbia imparato il significato della parola “reversibilità”, che sappia di poter rappresentare un piacevole diversivo e ricevere in cambio qualcosa che le serve. Le vedo spesso fare la coda alla Western Union con il gruzzoletto da mandare a casa, al nord. Soldini per mantenere la famiglia, una sorellina agli studi. A casa pensano che facciano la segretaria, che stiano lavorando nel turismo”.
“E invece molte di loro hanno subito violenze da piccole...”
“Proprio così, Kazungu. Una su tre, all'incirca. Odiano gli uomini, di qualunque razza siano. Bevono, non vogliono una relazione fissa, vivono alla giornata e si spendono tutti i denari guadagnati in poco tempo. Quelle sono le donne che non vorrei vedere, in giro la sera. Anime disperate che non credono di avere altra scelta, la cui sessualità è stata dilaniata molto tempo prima del mzungu”.
Il nonno prese per il braccio il suo nipote bianco e si diresse a passo di mulo verso la capanna di Ndoro.
Guardò il cielo sopra il grande baobab. Due nuvole facevano a gara a rincorrersi, sembravano due adolescenti invaghiti del primo gioco d'amore. Ridere, saltare, cercarsi, tenersi per mano e nascondersi per farsi trovare. Correre, voltarsi, cadere e abbandonarsi sfiniti su un prato.
“Le cose cambieranno – sussurrò, riportando lo sguardo all'altezza delle cose terrene – dobbiamo fare qualcosa. E lo faremo”.
“Lo stiamo già facendo, nonno!”
Dicembre 2008: A Malindi Unicef, Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e l'associazione di imprenditori e operatori turistici italiani MWTWG intraprendono un percorso comune di prevenzione e sensibilizzazione contro gli abusi ai minori e per la tutela dei bambini e lanciano la campagna "MALINDI PROTEGGE I BAMBINI".
E' la prima volta in assoluto, non solo in Africa, che organizzazioni non governative che operano nel sociale e il mondo del turismo si uniscono per combattere la pedofilia.
lunedì 2 febbraio 2009
E' PASSATO DI QUA
Quando il bambino era un feto
e l'uomo era bambino
e il vecchio, l'uomo
e nessuno era anziano.
La donna era un'idea
nell'utopia una schiava
e, se liberta, troia.
Quando c'era lui
e c'era una sola volta il west
com'era verde l'altrui valle.
Quando i mulini erano bianchi
e i biscotti, grano
l'uomo del monte era un pastore
nella valle degli orti crescevan peperoni
minuscoli e avvizziti di bontà
e le femmine piacevano abbondanti.
Bei tempi, beata gioventù
che si bruciava per essere avanguardia.
Quando non era ancora nato quello che mi fotterà,
ti ricordi?
Allora sì che si poteva...
Ma si poteva voler potere?
Prima della guerra
dopo la crisi
prima della rivoluzione
durante la crisi delle guerre rivoluzionarie.
Quando l'uomo era uomo
e il cavallo, cavallo
e l'uomo chiamato cavallo
aveva delle crisi d'identità mica da ridere!
Oh, giovinezza, primavera di...
Maledetta primavera!
Quando c'era il boom
e i favolosi anni sessanta
e gli uomini d'oro negli anni di piombo
col pugno di ferro.
Che facce di bronzo.
Quando il cellulare non era un telefono
e ti portava in galera.
Quando non c'erano molti simboli
della gabbia dorata quotidiana.
Quando il fumo era buono
quando ogni droga era buona
per morire da eroe.
Rammenti?
C'eri ancora tu
e ceri accesi molto pochi.
E' passato tanto tempo
ma tu sei sempre la stessa
perché non ti ho mai più riveduta
e corretta.
Quando feci le elementari
scuole ed esperienze
quando ero un ragazzotto
quando, dopo, facevo il ragazzino.
Quando mi sono sposato
quando ho divorziato e mi sono risposato
poi mi sono ricreduto e ho di nuovo divorziato
e mi sono risposato, ho divorziato e convissuto
ma mi sono risposato, separato,
innamorato, rincontrato.
E poi mi sono riposato.
Quando infine sono invecchiato
e mi sono divertito alla faccia di chi non ha vissuto
o ha creduto di aver vissuto
avendo avuto sogni,
occasioni
o forse solo voglie,
seccando seccandosi, come le foglie.
Quando?
Un attimo prima di sparire.
e l'uomo era bambino
e il vecchio, l'uomo
e nessuno era anziano.
La donna era un'idea
nell'utopia una schiava
e, se liberta, troia.
Quando c'era lui
e c'era una sola volta il west
com'era verde l'altrui valle.
Quando i mulini erano bianchi
e i biscotti, grano
l'uomo del monte era un pastore
nella valle degli orti crescevan peperoni
minuscoli e avvizziti di bontà
e le femmine piacevano abbondanti.
Bei tempi, beata gioventù
che si bruciava per essere avanguardia.
Quando non era ancora nato quello che mi fotterà,
ti ricordi?
Allora sì che si poteva...
Ma si poteva voler potere?
Prima della guerra
dopo la crisi
prima della rivoluzione
durante la crisi delle guerre rivoluzionarie.
Quando l'uomo era uomo
e il cavallo, cavallo
e l'uomo chiamato cavallo
aveva delle crisi d'identità mica da ridere!
Oh, giovinezza, primavera di...
Maledetta primavera!
Quando c'era il boom
e i favolosi anni sessanta
e gli uomini d'oro negli anni di piombo
col pugno di ferro.
Che facce di bronzo.
Quando il cellulare non era un telefono
e ti portava in galera.
Quando non c'erano molti simboli
della gabbia dorata quotidiana.
Quando il fumo era buono
quando ogni droga era buona
per morire da eroe.
Rammenti?
C'eri ancora tu
e ceri accesi molto pochi.
E' passato tanto tempo
ma tu sei sempre la stessa
perché non ti ho mai più riveduta
e corretta.
Quando feci le elementari
scuole ed esperienze
quando ero un ragazzotto
quando, dopo, facevo il ragazzino.
Quando mi sono sposato
quando ho divorziato e mi sono risposato
poi mi sono ricreduto e ho di nuovo divorziato
e mi sono risposato, ho divorziato e convissuto
ma mi sono risposato, separato,
innamorato, rincontrato.
E poi mi sono riposato.
Quando infine sono invecchiato
e mi sono divertito alla faccia di chi non ha vissuto
o ha creduto di aver vissuto
avendo avuto sogni,
occasioni
o forse solo voglie,
seccando seccandosi, come le foglie.
Quando?
Un attimo prima di sparire.
domenica 1 febbraio 2009
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