lunedì 16 febbraio 2009

GLI ALBUM DEL DECENNIO: AIMEE MANN "LOST IN SPACE"


Questa sì che è una bella sceneggiatura. L’estabilishment discografico americano avrebbe voluto fare di Aimee Mann l’ennesima bambolina pop-rock da lanciare nell’edulcorato mondo della canzonetta. Se qualcuno ricorda una idiot-band chiamata ‘Til tuesday se la dimentichi pure. Non c’era bisogno di ascoltare il nuovo album della cantautrice per rendersi conto che siamo davanti a una delle più intelligenti e affascinanti voci del panorama musicale mondiale. L’ex ragazzina prodigio diplomata a pieni voti alla prestigiosa Berkelee di Boston aveva già capito dopo i due album facili facili (come il successo) dei ‘Til tuesday che quella non era la sua strada. Lei scrive canzoni come cortometraggi, pellicole in note che parlano di ragazze insoddisfatte, piccole storie di ordinaria provincia, illusioni e disillusioni, avventure finite o senza finale, lieto o tragico che sia. Così il primo ad accorgersi di lei, dopo l’esordio solista di Whatever e la conferma di M with stupid, è il regista Paul Thomas Anderson che utilizza le sue storie come parte integrante di Magnolia, film capolavoro (Orso d’oro a Berlino). La sigla finale, “Save me”, complice un’incredibile pioggia di rane sulla città, rende al meglio l’atmosfera musicale di Aimee. Raramente connubio tra immagine e note è riuscito così bene. Dalle canzoni di Magnolia nasce Bachelor #2, di cui “Lost in space” è ideale seguito.
Quando si ha tra le mani un disco praticamente perfetto, bisognerebbe osservare un religioso silenzio della durata di 44 minuti e ascoltare, riascoltare e ascoltare ancora. Magari nel frattempo si può dare un’occhiata alla confezione, che per una raccolta di canzoni-film è un bel biglietto da visita. Due strisce a fumetti e disegni come fotografie scattate sul set del suo immaginario esordio da regista. “Lost in space”, perse nello spazio le creature di Aimee Mann. Lo spazio dell’anima, quello angusto di una notte in cui può essere raccontata la vita di migliaia di esseri umani. Proprio come accadeva in Magnolia. E’ arrivato il momento di ascoltare, riascoltare e ascoltare ancora. Prima la voce matura, asciutta nella costruzione delle melodie e mai fine a se stessa. Qualcosa di Joni Mitchell (inevitabile, per una cantautrice della nuova generazione), qualcosa di Fiona Apple, echi di Christine McVie dei Fleetwood Mac. Poi gli arrangiamenti: pochi riferimenti temporali (batteria morbida mescolata con i loop studiati dal marito Michael Penn), chitarre notturne, distorte con aria di temporale che deve arrivare, acustiche da spazi aperti del folk. Tastiere rare come studiatissimi ruoli secondari e brave a svanire lasciando la scia (The moth). Ma sono canzoni-film, quindi largo a un’orchestra d’archi mai invadente. Poco altro da dire, quando si può godere di composizioni meravigliose (Humpty dumpty, Today’s the day), improvvise aperture rock (Pavlov’s bell) e testi immaginifici (Lost in space) o ballate siderali (Real bad news, It’s not). Davvero niente da farsi perdonare (forse solo quel “Mario” che fa rima con Ohio). Non c’è un episodio fuori posto, un arrangiamento pretenzioso (non è mica Marianne Faithfull), un eccesso di minimalismo o una concessione al commerciale (non è mica Dido).
Che grande prova d’autore, che bel lungometraggio musicale, ragazzi. Poche luci, in campo. E’ notte, “lo stoppino non si preoccupa se la fiamma brucerà lentamente”. Forse perché il chiarore è quello di un talento accecante.

Alfredo del Curatolo

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